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Autore: _armida    01/09/2015    0 recensioni
“Sono stupito, non credevo che un bel faccino riuscisse anche a maneggiare un’arma con tale bravura”, disse il Conte.
Elettra provò a tirarsi su, ma finì per andare ad urtare contro la lama della spada, ferendosi leggermente uno zigomo.
“Dovete stare attenta, non volete di certo rovinare tutta questa bellezza così”, aggiunse allontanando la spada dalla faccia della ragazza. Doveva dargliene atto, era davvero bella. Non lo aveva notato prima, quando Grunwald l’aveva portata all’accampamento priva di sensi, era troppo preso dal chiedere al garzone di Da Vinci dove si trovasse la chiave.
Fece cenno a due guardie svizzere di tenerla ferma, mentre lui la perquisiva in cerca di altre armi nascoste. Non ne trovò, ma la sua attenzione fu catturata da qualcosa che la ragazza teneva nella tasca sinistra dei pantaloni: si trattava del suo blocco da disegno. Quando fece per sfogliarlo, una moneta, contenuta al suo interno cadde a terra; non si trattava di una moneta comune, era in oro e presentava sulla sua superficie la faccia di un dio pagano. La raccolse e la osservò accuratamente.
“Cosa sapete riguardo ai Figli di Mitra?”
VERSIONE RIVEDUTA E CORRETTA SU WATTPAD
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Girolamo Riario, Giuliano Medici, Leonardo da Vinci, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Elettra'
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Capitolo VII: Il Conte, parte I
Il mattino successivo…

“Tutto pronto per l’arrivo di Riario?”, chiese Lorenzo.
“Quasi tutto, mancano solo i particolari dell’ultimo minuto ma a quelli penseremo dopo domani, quando il Conte arriverà”, rispose Elettra.
Si trovavano nello studio del Magnifico per discutere su come accogliere al meglio il nipote del Papa e la delegazione romana al suo seguito; anche Aramis ne faceva parte.
“Allora, sei nervosa? Questi saranno i tuoi primi ospiti importanti…”, le chiese il de Medici con fare fraterno, mentre si sistemava più comodamente sulla sua poltrona.
“Assolutamente no”, disse Elettra sembrando il più convincente possibile.
“Bene, perché credo di essere già abbastanza agitato per entrambi”, sorrise nervoso Lorenzo, “Ricordo ancora come mi sentivo io, la prima volta che ho accolto una delegazione straniera. Ero ridotto a uno straccio”, aggiunse ridendo.
“Andrà tutto bene”, lo rassicurò la ragazza.
“Lo spero tanto. Come ben saprai i rapporti tra Firenze e Roma non sono mai stati così tesi come ora, basterebbe solo piccolo un passo falso, per far scoppiare una guerra”
Il viso di Elettra si incupì, a quelle parole.
“Non che io voglia farti preoccupare, però dobbiamo essere realisti”, si affrettò a rimediare il Magnifico. Peccato che il danno era già stato fatto.
***

Parlare con Lorenzo, invece di rassicurala, aveva sortito decisamente l’effetto opposto. Gli aveva mentito, a dirgli che non era assolutamente nervosa; in realtà l’ansia le stava divorando lo stomaco.
Neanche le parole di suo zio, che aveva una grandissima esperienza a riguardo, visto che era al terzo de Medici che serviva, le erano servite da conforto. Le aveva dato tutti i consigli che poteva e le aveva insegnato come comportarsi, per apparire al meglio.
Anche Clarisse le aveva dato una mano. “Niente pantaloni, finché la delegazione romana non se ne andrà”, le aveva detto. Elettra era stata obbligata a rifarsi il guardaroba, comprando parecchi abiti lunghi, gonne e corsetti, per la gioia di Maria, che smaniava dalla voglia di vedere la sua signora finalmente vestita da gran dama e non da maschiaccio.
Seduta alla sua scrivania, sospirò sconfortata. 
Tirò indietro la sedia per poter osservarsi meglio: quella mattina aveva scelto un paio di pantaloni neri in pelle, stretti e con due ampie tasche laterali sulle cosce; aveva poi messo la parte finale dei pantaloni negli stivali, alti fino al ginocchio, abbastanza larghi da contenere, nascosto in un apposito scomparto, anche il piccolo pugnale per le emergenze. Infilata in parte nei pantaloni, vi era una semplicissima camicia bianca; sopra ad essa aveva una giacchetta rossa, dal taglio maschile, con dei leggeri ricami floreali dai toni più scuri e le maniche a tre quarti. Nonostante fossero solo agli inizi di Aprile, faceva già parecchio caldo, quindi aveva arrotolato le maniche della camicia intorno a quelle della giacca. Non indossava alcun corsetto; odiava quell’infernale indumento e, poi, ne avrebbe fatto indigestione nei giorni seguenti. 
Si riavvicinò alla scrivania, tornando ad osservare le scartoffie che la riempivano. 
Il suo sguardo fu completamente catturato da un piccolo libretto con la copertina in pelle vermiglia; lo aveva preso la sera precedente dalla biblioteca della madre. Ce n’erano almeno una cinquantina, di essi, al suo interno, tutti numerati. Erano stati scritti di suo pugno da Anna; probabilmente erano i suoi diari. La prima annotazione risaliva al 4 agosto 1448, giorno del suo sedicesimo compleanno; l’ultima, invece era riportava la data del 13 giugno 1469, il giorno della sua scomparsa. Ad una veloce occhiata, Elettra aveva potuto notare che essi erano scritti in diverse lingue; fortunatamente ne conosceva la maggior parte. Dal diario numero 31, iniziato nel 1463, invece, il linguaggio cambiava, divenendo un ammasso confuso di lettere; doveva essere senz’altro successo qualcosa che aveva portato la madre a scrivere in codice.
Aprì il diario numero uno sulla prima pagina: era scritta in tedesco, la lingua madre di sua mamma; essa era una delle poche cose che le aveva insegnato. Quanto suo padre si assentava per uno dei suoi viaggi, in casa si parlava solo tedesco.
Ne lesse le prime righe lasciandolo poi ricadere sulla scrivania, svogliata. Quella crescente sensazione di inquietudine non le permetteva neanche di concentrarsi su di esso.
Si alzò e andò verso la porta, convinta che cambiare aria le avrebbe fatto bene. Lasciò su di essa il cartello ‘Lavori in corso – Non disturbare’ che aveva affisso qualche ora prima. Con esso in bella vista nessuno osava avvicinarsi. Così Elettra avrebbe potuto svignarsela tranquillamente, per sbollire un po’ d’ansia, mentre tutti, invece, la credevano nel suo studio, impegnata in chissà quale progetto. Era uno stratagemma che aveva usato parecchie volte e che aveva sempre funzionato. Per rendere il tutto più credibile, le aveva anche dato due giri di chiave.
Senza che nessuno la notasse, uscì velocemente da una delle numerose porte secondarie.
 
***

La confusione e le urla del mercato fiorentino la facevano sempre stare meglio. E anche quella mattina non fu diverso. L’inquietudine le era quasi passata del tutto.
Si fermò al banco che da anni riforniva la bottega del Verrocchio, per ordinare alcuni materiali; aveva avuto l’idea di costruire un modellino in scala della biblioteca, da mostrare alla presentazione del progetto. Un modello tridimensionale rendeva molto meglio l’idea di semplici schizzi su un foglio di carta. Quello che le serviva sarebbe stato consegnato quella sera stessa, a Palazzo della Signoria.
Dopodiché continuò quella rilassante passeggiata, fermandosi qua e là ad osservare qualche bancarella. 
Stava chiacchierando con dei mercanti provenienti dalla Francia quando scorse tra quella marea di gente un giovane poco più piccolo di lei, con una cascata di riccioli biondi in testa.
“Nico!”, urlò facendosi largo tra la folla. Al terzo richiamo il ragazzo parve sentirla; si fermò nel bel mezzo della via, guardandosi intorno.
“Elettra”, la salutò appena la vide.
“Anche tu non hai niente di meglio da fare, vero?”, gli disse scherzosamente mentre lo prendeva a braccetto.
“Il Maestro è andato a testare le sue nuove spingarde con il Magnifico e in bottega mi annoiavo”, le rispose. “Tu, piuttosto, non dovresti essere a palazzo a fare i preparativi per l’arrivo di quel conte?”, aggiunse
“Mi sembrava di soffocare, là dentro. Avevo bisogno di aria fresca”, si giustificò lei.   

Camminarono per un bel po’ tenendosi a braccetto, osservando i vari banchi e parlando del più e del meno. Di tanto in tanto Nico rideva alle battute di Elettra o ai commenti poco carini su alcune delle personalità che incontravano. Quei due, assieme, erano peggio delle comari che ogni mattina affollavano le rive dell’Arno; erano entrambi ben informati su ogni singolo pettegolezzo che girava a Firenze. 
Elettra ogni tanto voltava il capo all’indietro, come se volesse controllare che non vi fossero occhi indiscreti, ad osservarli. In realtà stava tenendo d’occhio alcune persone vestite con degli abiti scuri; era da troppo tempo che ce li avevano dietro. Sembrava quasi che li stessero seguendo.
“Andiamo di qui”, disse Elettra a Nico mentre lo trascinava sotto ad un porticato poco frequentato; gli fece fare una brusca svolta a sinistra, per arrivarci.
L’altro la guardò per un attimo confuso, poi decise di non chiedere spiegazioni a riguardo. Si era rassegnato a non capirla molto tempo prima; praticamente dal loro primo incontro.
Elettra si voltò di nuovo, ad osservare la strada alle loro spalle; per un attimo si sentì più leggera e pensò di essersi sbagliata, per una volta il suo istinto si era sbagliato. Nessuno li stava seguendo. Poi li vide, con la coda dell’occhio. Non si era sbagliata. Li stavano davvero seguendo.
Stringendosi ancora di più a Nico, aumentò il passo. Anche i loro inseguitori lo fecero.
“Quando ti dico di correre, tu corri”, sussurrò a bassa voce al ragazzo. Il suo tono di voce era fermo e deciso. L’altro annuì e, voltandosi, capì perché l’amica fosse così irrequieta. 
Stava per dare il segnale, quando altri due uomini sbucarono dal nulla proprio di fronte a loro, sbarrandoli la strada. Erano in trappola. 
Elettra li osservò con più attenzione: erano in tutto sette uomini di cui, uno era una guardia della notte, e gli altri sei indossavano le divise delle guardie svizzere, le milizie private di Roma. Sapeva benissimo che non sarebbero usciti di lì semplicemente usando le parole; di sicuro avrebbero dovuto combattere, per salvarsi la vita. Fece due calcoli veloci: la guardia della notte non la preoccupava minimamente, sapeva benissimo come disarmarla velocemente; con le guardie svizzere la storia cambiava e di molto anche: erano in sei, grandi il doppio di lei e perfettamente addestrati. L’unico modo, per salvarsi la pelle, era quello di crearsi un diverso abbastanza lungo da permette ad entrambi di fuggire. Strinse i denti e appoggiò la mano sull’elsa della spada, attenta ad ogni movimento degli altri.
La guardia della notte si fece avanti, avvicinandosi a Nico. “Abbiamo trovato delle impronte l’altra notte nel cimitero. Quelle di un asino, di un uomo e quelle di un ragazzo che indossava scarpe con la punta allungata. Esattamente come quelle che indossi tu”, gli disse puntandogli contro un pugnale. 
Elettra a quel punto estrasse la sua arma, puntandola dritta al collo dell’uomo; con la punta quasi glielo sfiorava. “Ci sono migliaia di ragazzi con quel tipo di scarpe, in giro”, disse con aria di sfida. 
La guardia della notte indietreggiò, facendo cenno agli svizzeri di attaccare. Probabilmente essi non si aspettavano di vedere una donna che sapesse usare così bene una spada; utilizzando l’effetto sorpresa, Elettra riuscì a disarmare con facilità il primo che le si avvicinò, facendolo finire a terra con un calcio ben assestato nelle parti basse. Diede una veloce occhiata a Nico, che se ne stava immobile là in mezzo, paralizzato dalla paura. Nel mentre un secondo uomo provò a colpirla da dietro, stringendo le mani intorno al suo esile collo; Elettra lo colpì al naso con l’elsa della spada. Dall’urlo di dolore che questi lanciò, doveva averglielo rotto.
“Nico scapp…”, non riuscì a finire la frase. Uno di essi, sbucato dal nulla alle sue spalle, le premette un panno impregnato di chissà quale sostanza sulla bocca. L’ultima cosa che vide fu Nico cadere anch’esso a terra.
Poi fu tutto buio.


Nda
Scusate per la brusca interruzione. Il capitolo mi è decisamente sfuggito di mano e ed è diventato davvero troppo lungo; dovevo per forza divederlo in due parti.
 
   
 
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