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Autore: Kara    05/02/2009    8 recensioni
Il suo amore per Genzo nasceva proprio da quello, non dal talento, non dall’istinto grazie al quale prevedeva la traiettoria del pallone o dalla tecnica sopraffina. Il talento da solo non basta per fare un campione, serve qualcosa di più. Serve carattere. Il talento va coltivato.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Genzo Wakabayashi/Benji, Kojiro Hyuga/Mark, Mamoru Izawa/Paul Diamond, Teppei Kisugi/Johnny Mason
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un gelido refolo di vento si insinuò attraverso l’uscio socchiuso dello spogliatoio, portando una ventata d’aria fredda nella stanza dove un giovane in boxer, seduto su una panca, si stava asciugando le lunghe gambe muscolose. Il ragazzo sobbalzò e rabbrividì, poi, con aria seccata, sollevò lo sguardo e sbuffò. Avevano di nuovo lasciato la porta aperta. Ma, prima che potesse muovere un dito, una mano si allungò e con un gesto brusco la richiuse, facendole emettere un sonoro tonfo metallico.
“Grazie Mamoru” mormorò, rivolgendo un sorriso riconoscente al compagno di squadra che, già vestito, lo stava aspettando appoggiato indolentemente contro il muro, e si chinò a rovistare nel borsone ai suoi piedi, in cerca degli indumenti puliti. “L'ultima cosa che mi serve è una raffreddore con i fiocchi!”.
“Prego” rispose Mamoru, ricambiando il sorriso e soffermandosi a osservarlo. Una strana espressione comparve sul suo volto mentre gli occhi neri, come guidati da una propria volontà, presero a vagare sul collo e sui corti capelli scuri, notando come le punte si stessero arricciando sulla nuca. Dovevano essere profumati dopo lo shampoo. E morbidi. Tanto morbidi. Si perse dietro a quel particolare, lasciando la mente libera di condurlo verso luoghi conosciuti e amati, gli unici in cui l’anima poteva trovare ciò che la fredda realtà continuamente le negava, regalandogli l’immaginario calore di un tocco a lungo anelato.
Sentendo la gola secca ingoiò a vuoto e, svelto, incrociò le braccia, stringendo le mani sotto le ascelle, onde evitare che sfuggissero al suo scarso controllo e si posassero su quel corpo seminudo che, con la sua sola presenza, aveva il potere di dettare i ritmi al suo cuore e al suo respiro.
Se il giovane avesse alzato lo sguardo in quel momento sarebbe rimasto sorpreso nel notare l'intensità e il desiderio di cui era oggetto, la reverenza e l’ammirazione con cui ogni più piccola parte del suo corpo era studiata, venerata, ma era troppo preso dal contenuto della borsa per accorgersene.
La porta si aprì nuovamente per lasciar entrare un ragazzo moro dai corti capelli ricci e dall’aria allegra e vivace. Il nuovo arrivato, abbigliato con un paio jeans e una polo rossa, si guardò intorno con un sorriso poi, dopo essersi accertato che Mamoru fosse pronto, rivolse uno sguardo esasperato al compagno seduto.
“Yuzo! Ma ancora non ti sei vestito? Vuoi farci notte qui dentro?” sbuffò, mettendosi le mani sui fianchi e corrugando la fronte. “Siete rimasti soltanto voi due ormai, tutti gli altri sono già tornati in albergo”.
“Ti sbagli Teppei” rispose Yuzo, sollevando un attimo gli occhi nocciola prima di riportarli sulla camicia bianca che stava slacciando. “Hyuga e Wakabayashi sono appena rientrati. Ora sono sotto la doccia”.
“Per forza, non la finivano più di discutere! Mi chiedo dove trovino tutte queste energie alla fine dell'allenamento. Io sono distrutto” e così dicendo spalancò la bocca in un immenso sbadiglio. “La cena verrà servita a momenti. Hajime è andato avanti. Ha detto che stava svenendo dalla fame e che non aveva intenzione di aspettare un minuto di più qualcuno lento più di un bradipo. Questo per usare le sue testuali parole. Credo che ce l'avesse con te, Yuzo” sogghignò, rivolgendogli un'occhiata divertita.
“Va bene, va bene” rispose Yuzo senza scomporsi minimamente, infilando la camicia e iniziando ad abbottonarla. “Raggiungi Hajime e controlla che non si spazzoli via tutto, finisco di vestirmi e vi raggiungo”.
“Ooooook! E tu Mamoru? Che fai? Vieni o aspetti Yuzo?” chiese Teppei, girandosi a guardare il difensore dai lunghi capelli scuri con espressione interrogativa.
L'altro sciolse le braccia che ancora teneva conserte e si passò la mano destra sulla folta chioma corvina. L'arrivo di Teppei aveva avuto su di lui lo stesso effetto di una doccia fredda, facendogli riprendere rapidamente il controllo dei pensieri e dei sensi, anche se per tacitare quest’ultimi non sarebbe servita nemmeno una corsa a petto nudo tra i ghiacci dell’Antartide.
Ringraziò la sua buona stella e l’appetito smisurato di Hajime che avevano spinto Teppei a tornare indietro, altrimenti chissà cosa sarebbe potuto accadere se fosse rimasto ancora qualche minuto da solo con Yuzo…



Ma chi stava prendendo in giro?
Non c'era nulla di incerto.
Era tutto chiaro nella sua testa, come un film visto e rivisto.
Gli sarebbe saltato addosso, ecco cosa!
L'avrebbe preso per i polsi e baciato fino a non avere più fiato, poi...
Dio!
L'avrebbe fatto.
Poco ma sicuro.
Con il rischio di essere preso a pugni da Yuzo e sorpreso in quell'atteggiamento compromettente da Hyuga e Wakabayshi.
E non ci sarebbe voluto un veggente per indovinare le reazioni dei due.
Wakabayashi, almeno, lo conosceva dai tempi della Shutetsu e forse – ma forse, eh? – avrebbe, cortesemente, fatto finta di nulla. Era uno che badava ai fatti suoi.
Ma Hyuga...
Hyuga l'avrebbe preso per il culo a vita!
Strinse i pugni.
Dominio.
Ecco quello che ci voleva.
Dominio.
Dominio, dominio, dominio, dominio.
Se lo avesse ripetuto come un mantra, forse gli si sarebbe conficcato nel cervello come una freccia nel palo.
Dannazione!
Si sentiva dilaniato in due, l’istinto animale che lottava in un feroce corpo a corpo con la parte più razionale del suo cervello.
Era sempre più complicato mantenersi lucido in sua presenza, e ogni giorno che passava era come un'implacabile e dolorosa agonia che lo stava lentamente portando alla pazzia.
Eppure, allo stesso tempo, non poteva farne a meno.
Semplicemente... si sentiva vivo quand'era con lui e quando Yuzo gli sorrideva, allora... tutti i frammenti scomposti del suo cuore tornavano a posto e si sentiva felice come non mai.
Non avrebbe saputo spiegare perché l'amava, cosa gli piacesse così tanto in lui da attirarlo come un'ape con il miele, se quel modo particolare in cui curvava le labbra quando rideva o la sua espressione sempre serena. Forse era quella forza latente che ogni tanto faceva capolino, quella sicurezza che, a volte, anche se per pochi istanti, brillava nei suoi occhi, dando a intendere che nascosto sotto strati e strati di umida terra si celasse un diamante purissimo. Qualunque cosa fosse, comunque, non aveva importanza. Lui l’amava profondamente, con tutto se stesso e non poteva fare nulla per cambiare questo stato di cose.
Per una manciata di secondi fissò il pavimento, indeciso sul da farsi, poi, ostentando un'espressione indifferente che gli costò uno sforzo notevole, si strinse nelle spalle e annuì. “Vengo con te”.
Rimanere ancora equivaleva a piantarsi un coltello in petto, anche se allontanarsi era difficile.
Maledettamente difficile.
Ma non poteva fare altro.
Parlare con Yuzo?
Inutile.
L'aveva detto chiaro e tondo ad Hajime la sera prima, quando l'amico, a conoscenza dei suoi tormenti, l'aveva preso da parte e, a brutto muso, gli aveva suggerito di dichiararsi. Almeno, a suo modo di vedere, in caso di risposta negativa si sarebbe messo l'anima in pace.
A che pro restare così? In sospeso? A tormentarsi, a farsi del male?
E chissà... magari Yuzo ricambiava e anche lui non riusciva a trovare il coraggio di parlare… in fondo la loro era una situazione particolare… erano amici da tanti anni... inoltre… erano entrambi calciatori famosi, una loro eventuale relazione sarebbe stata sulla bocca di tutti… chi poteva sapere cosa ne pensasse Yuzo, se non affrontando il discorso?
Gli aveva risposto male, con un tono gelido quanto l'inverno in Hokkaido, esortandolo a farsi i cavoli propri, per dirla in modo educato, anche se sapeva che il compagno non voleva ficcare il naso ma stava agendo spinto dall'affetto e dalla preoccupazione. Si conoscevano da una vita e la loro era amicizia vera, con la A maiuscola.
Avrebbe voluto spiegargli i motivi per cui aveva gettato la spugna senza nemmeno tentare. Che il problema non era la notorietà, che se avesse potuto stringere Yuzo tra le braccia, anche per una sola volta, se ne sarebbe sbattuto della notorietà.
Fargli capire perché era giunto a quella decisione.
Rassicurarlo che non era un masochista.
Ma non ce l'aveva fatta.
Aveva girato le spalle e, senza aggiungere altro, se n'era andato, le mani nelle tasche della tuta, la testa china, il cuore pesante.
Sconfitto.
Non poteva spiegare cosa si agitava nel suo animo. Era un qualcosa che non voleva affrontare. Perché accettare quello che sapeva, quello che aveva intuito, era troppo.
La verità era che non voleva ammettere neppure con se stesso che Yuzo era innamorato di un altro.
E, finché le cose restavano così, poteva ancora illudersi che un giorno, in futuro...

La porta metallica si chiuse dietro le spalle dei due compagni, lasciando Yuzo da solo nello spogliatoio. Con calma, senza alcuna fretta, finì di abbottonarsi la camicia candida e afferrò i pantaloni. Benché Teppei l'avesse esortato a sbrigarsi continuò a tergiversare, ringraziando il cielo che Mamoru se ne fosse andato di sua iniziativa, altrimenti sarebbe stato costretto a inventarsi una cazzata su due piedi ed era l’ultima cosa che voleva fare, perché Mamoru era il suo più caro amico e non voleva mentirgli più di quanto non facesse già, nascondendogli quando si celava nel suo cuore. Non era vero che era lento, quella era solo una comoda scusa dietro cui si era rifugiato per nascondere qualcosa di ben diverso. In realtà, era il solo modo che aveva, senza scoprirsi, di restare lì e approfittare di quei pochi ma preziosi minuti in cui poteva trovarsi da solo con Lui.
Non era molto, anzi, non era niente, ma gli bastava.
Viveva per quegli attimi e non ci avrebbe rinunciato per nulla al mondo.
Sapeva accontentarsi.
Essere una riserva insegnava anche quello.
Un improvviso vociare, proveniente dal locale docce, attirò la sua attenzione.
Quei due non avevano ancora finito di discutere.
Certe cose non cambiano mai...
La voce di Hyuga si levava alta, con la furia di un tornado, e cercava di avere ragione dell'altra che, al contrario, si manteneva controllata ma era venata di un'ironia tagliente come la lama di un coltello.
Quella era la voce che amava e che non si sarebbe mai stancato di ascoltare, perché lo spronava e lo incoraggiava. Sempre. E avrebbe fatto di tutto affinché continuasse a vestirsi del manto dolce dell’approvazione, tant’è che, durante gli allenamenti della nazionale, riusciva a dare il meglio di sé, a tirare fuori una forza e una grinta che non credeva di avere, cosa che difficilmente gli riusciva con il suo club. Certo, avrebbe preferito ben altro che incitamenti, consigli tecnici o qualche pacca sulle spalle ma, come si suol dire, in periodi di magra ci si accontenta di tutto.
E lui, in questo, si era guadagnato la maglia di titolare, altro che riserva!
La figura alta e muscolosa di Hyuga gli comparve inaspettatamente davanti.
Si era sbagliato.
Alcune cose a quanto pare cambiano...
Fino a qualche anno prima i due avrebbero concluso la discussione a suon di pugni, e questo dimostrava che forse non erano più un branco di ragazzi scalmanati, che erano cresciuti.
Forse.
Perché lui non si sentiva per nulla adulto. Almeno, non nel modo in cui stava affrontando quella situazione. Un adulto avrebbe tenuto un comportamento diverso. Eppure... nel modo di gestire paure ed emozioni non è più facile avere l'atteggiamento di un bambino bisognoso di sicurezze e rassicurazioni che quello maturo di un uomo capace di affrontare le proprie ansie e debolezze?
Il volto della Tigre era contratto in una maschera d'ira e la sua mano brandiva l'asciugamano come se fosse stato un'arma letale. Con rabbia lo scagliò contro il muro, prima di voltarsi a fulminare Yuzo con lo sguardo.
“S.G.G.K. del cazzo! Ma come fai a sopportarlo, eh? Non ho mai conosciuto nessun altro così arrogante e testardo come lui. Senza contare, poi, il suo ego smisurato!” ringhiò, iniziando letteralmente a buttarsi addosso gli abiti, nella fretta di vestirsi e andarsene.
“E' giusto che sia così” ribattè Yuzo con calma, stringendosi nelle spalle. “Altrimenti non sarebbe l'S.G.G.K.”
Hyuga gli lanciò un'altra occhiataccia. Non aveva capito la risposta criptica di Yuzo ma il portiere non perse tempo a spiegarsi, consapevole che il centravanti era troppo arrabbiato per fermarsi a ragionare sulle sue argomentazioni.
E anche se l'avesse fatto... be’... non è detto che avrebbe compreso.
Conoscenza e comprensione non sempre vanno di pari passo.
La porta sbatté nuovamente facendo tremare anche i muri e Yuzo, rimasto solo, scosse la testa sospirando. Poi, dopo essersi passato le lunghe dita tra i corti capelli neri, si alzò dalla panca per avvicinarsi al borsone di Wakabayashi.
Il rumore dell'acqua che scorreva era il segno che l'S.G.G.K. era ancora sotto la doccia.
I suoi occhi nocciola si posarono sulla maglia nera che il portiere aveva tolto prima di andare a lavarsi e che giaceva abbandonata sulla sacca. Di fianco, l'immancabile cappellino che era il suo segno distintivo.
Senza riuscire a trattenersi allungò una mano e afferrò la maglietta, lo sguardo puntato sul grosso numero bianco che campeggiava sulla stoffa nera.
Il numero uno.
E Wakabayashi lo era sul serio un numero uno, in tutto e per tutto.
Ma come poteva spiegarlo a Hyuga?
Lui non era un portiere.
Era un attaccante.
Il suo diretto antagonista.
Non avrebbe mai potuto capire la mente di un goal keeper.
Yuzo si strinse la maglia al petto, il tessuto era ancora intriso dall’odore della pelle di Genzo.
Quell’indumento, più di tutto il resto, era l’esempio lampante della differenza che intercorre tra un portiere e il resto dei giocatori, anche se appartenenti alla stessa squadra. L’emblema della diversità di intenti, pensieri, sentimenti, sensazioni e di quant’altro si agita nell’animo e nella testa di chi, in ogni partita, si schiera tra i pali, pronto a difendere la porta.
Probabilmente nessuno si è mai soffermato a ragionarci sopra, forse perché certe cose sono sempre state così e si danno per scontate.
Ma chi ha mai riflettuto sul fatto che un portiere è diverso dal resto dei membri del suo gruppo?
Veste in modo differente, gioca in modo differente, ragiona in modo differente, perché lui è l’unico che ha la possibilità, entro i limiti dell’area di rigore, di fermare la squadra avversaria con la forza sue sole mani. E questa consapevolezza non può che trasmettersi al suo carattere, plasmandone la stima di sé e la fiducia nelle proprie capacità.
D’altro canto, un portiere non corre per il campo, non scarica la tensione della gara partecipando alla manovra d'attacco, non può precipitarsi sotto la curva e togliersi la maglia se effettua una bella parata.
Non può decidere se partecipare o no all’azione, restandosene ai margini.
Quando l’avversario è sotto porta non ha scelta.
Para o non para.
Non ci sono alternative, non c'è una terza strada.
E se para non può lanciarsi prendere dal troppo entusiasmo, perché il rischio di subire una rete è sempre dietro l’angolo se perde la concentrazione.
Un portiere deve essere in grado, quando subisce un goal, di non demoralizzarsi e di lasciarselo immediatamente alle spalle, anche se in quel momento si sente a terra, distrutto e intorno a lui echeggiano le grida di esultanza dei tifosi avversari e i mugugni e gli insulti dei propri, poco felici di vedere la squadra del cuore perdere.
Non deve mai abbassare la guardia ma seguire sempre il gioco, anche quando si svolge lontano dalla porta, onde poter intervenire efficacemente. Per questo deve imparare a gestire lo stress che gli comporta questo continuo stato di allerta e che non può scaricare nell’esultanza di un goal realizzato.
Ma che ne sa Hyuga di tutto questo?
E Tsubasa?
Misaki?
Tutti gli altri?
La porta, che per loro è il traguardo da superare, il muro da abbattere, la fortezza da conquistare, per il goal keeper è il centro del mondo, un universo di cui è il dio protettore.
E per essere un dio protettore deve imparare a mantenere freddezza e lucidità, a gestire da solo le proprie emozioni, a reagire subito dopo un goal, a ingoiare il rospo e non perdere l’autostima quando la colpa di una partita disastrosa viene interamente rovesciata sulle sue spalle, magari per una rete presa all’ultimo minuto, e non divisa equamente tra tutti i reparti. Ma a fronte di un goal subito, c’è un goal non realizzato, a fronte di un errore del portiere, una incapacità della squadra intera di portare a buon fine un’azione di gioco.
Una partita è vinta quando una squadra ha segnato un goal più dell’altra e questo indipendentemente dal numero di reti incassate.
Eppure è più facile scaricare la colpa sul portiere, che verrà ricordato per quell’unico sbaglio piuttosto che per tutte le volte che ha mantenuto inviolata la sua porta.
E Wakabayashi…
Lui…
Lui aveva la stoffa del grande portiere.
Il suo amore per Genzo nasceva proprio da quello, non dal talento, non dall’istinto grazie al quale prevedeva la traiettoria del pallone o dalla tecnica sopraffina. Il talento da solo non basta per fare un campione, serve qualcosa di più. Serve carattere. Il talento va coltivato.
Genzo Wakabayashi si meritava in pieno il titolo di S.G.G.K. proprio perché fin da piccolo, da quando aveva subito il primo goal da parte di Tsubasa Ozora, aveva imparato ad accettare la forza di un avversario, aveva capito che per ogni rete presa il riscatto di una nuova parata, magari quella decisiva, era dietro l’angolo; che farsi trasportare dalle emozioni e perdere la lucidità poteva portare a una sconfitta sicura, come nella partita tra Amburgo e Bayern Monaco dove aveva dimenticato, per pochi maledetti secondi, quale fosse il suo ruolo e aveva sperimentato sulla sua pelle una delle leggi non scritte del calcio: goal mancato, goal subito; che ci vuole una salda e profonda considerazione di se stessi e dei propri mezzi per guardare la rete gonfiarsi senza sentirsi dei falliti; che per rialzarsi e riprendere la posizione, con la grinta, l’entusiasmo e lo spirito vincente, non bastano le pacche di consolazione dei compagni ma ci vogliono orgoglio, volontà e tenacia.
Per questo l’amava e l’ammirava, perché Genzo era stato capace di imparare dalle dure lezioni prese in campo; perché era una persona determinata, che non si lasciava sconfiggere e che stava imparando a parare i palloni che la vita gli riservava così come faceva nel rettangolo di gioco; perché ogni volta riusciva a scrollarsi i fallimenti dalle spalle e a rimettersi in pista.
E l'aveva dimostrato in moltissime occasioni, non ultimi i dolorosissimi infortuni che l'avevano tenuto lontano dal calcio per mesi.
Ma lui?
Ci sarebbe riuscito lui?
Non aveva le stesse qualità di Genzo, non aveva la sua forza.
Con la maglia ancora stretta al petto si sedette stancamente lo sguardo fisso al pavimento, l'espressione del viso triste e pensierosa.
Avrebbe avuto il coraggio di confessare ciò che si agitava nel suo animo? Di rivelare tanta parte del suo cuore? Di affrontare il suo disgusto? Il suo disprezzo?
Dov'è che aveva letto che affrontare i propri sentimenti l'avrebbe liberato dal peso anche se le cose non fossero andate per il verso giusto? In qualche bel racconto, probabilmente una favola, di quelle con ‘...e vissero felici e contenti’ e per un momento desiderò di farne parte, di esserne davvero il protagonista. Almeno sarebbe stato felice una volta tanto.
Ma quella era la realtà e non un racconto di fantasia, anche se, a volte, si sentiva come il personaggio di un manga, i cui movimenti erano decisi dall'umore imprevedibile dello scrittore. Certo che, se le cose fossero state veramente in quel modo, il suo di autore, quello che tirava i fili, doveva essere particolarmente sadico per farlo soffrire così.
L'improvviso silenzio, interrotto da un rumore di passi, lo riscosse dai suoi pensieri. Immediatamente si alzò in piedi e mollò la maglia come se scottasse, sul volto un soffuso rossore a coprire l'espressione colpevole.
“Morisaki. Anche tu ancora qui?” la voce, profonda e morbida come il velluto, era venata da una leggera sorpresa. “Pensavo di essere rimasto solo”.
L'alta e robusta figura dell'S.G.G.K. avanzava verso di lui, le grandi e forti mani che frizionavano i corti capelli scuri con un telo di spugna bianca.
Yuzo scosse la testa in segno di diniego, facendo ogni sforzo possibile per mantenere i tratti del viso nel modo composto e sereno di sempre.
L'ultima cosa che voleva era che Wakabayashi si accorgesse del rimescolio che sentiva nei visceri ogni volta che i suoi occhi nocciola si posavano sul suo corpo muscoloso; quando questo corpo poi, era praticamente nudo, a parte un minuscolo asciugamano a coprire il basso ventre, la cosa diventava veramente difficile.
Facendo appello a quel po' di sangue freddo da portiere che scorreva anche nelle sue vene, Yuzo sorrise con fare indifferente e si sedette sulla panca. “Ho perso tempo con i lacci delle scarpe, ne ho dovuto sostituire uno e non riuscivo a trovarlo” - questa meritava un bel dieci e lode, stava diventando un vero esperto nell'inventare cazzate - “Ho detto agli altri di precedermi, ora li raggiungo”.
Genzo gli lanciò un’occhiata che Yuzo non riuscì a interpretare e iniziò a vestirsi, il silenzio rotto soltanto dal sommesso fruscio dei vestiti e dal ritmo dei loro respiri, tranquillo e regolare quello del primo, veloce e lievemente affannato quello secondo.
La mente di Yuzo vorticava come un gorgo, aggrovigliandosi su se stessa in una matassa di pensieri confusi, tentando di dare una risposta alle mille e più domande che, come tante meteore infuocate, tracciavano la loro scia nella notte buia che era diventato il suo cervello.
Non sapeva cosa fare.
Una parte di lui voleva confessare quel sentimento che da tanto tempo nascondeva tra le pieghe più profonde del cuore, portare alla luce del sole quello che era sempre rimasto nascosto nell’ombra, ma l’altra… l’altra tirava nella direzione opposta e puntava strenuamente i piedi, aggrappandosi alla sua volontà con la stessa forza e disperazione con cui un bambino terrorizzato si stringerebbe alle gambe della mamma.
“Ho finito” con un gesto deciso Genzo chiuse la lampo del borsone, si calò il cappellino bianco sui capelli ancora umidi e infilò il cellulare nella tasca della tuta azzurra della nazionale che aveva indossato. “Che fai? Vieni o resti a dormire qui?” chiese in tono ironico, notando che l’altro era rimasto immobile, la schiena curva, i gomiti poggiati sulle ginocchia leggermente divaricate, le dita delle mani intrecciate davanti a sé e lo sguardo fisso a terra.
Non ricevendo risposta inarcò un sopracciglio, fece per aggiungere qualcosa ma poi, dopo aver scrollato le spalle, afferrò la sacca e la sollevò, pronto ad andarsene.
“Aspetta”.
Più che la richiesta fu il tono, sommesso e incerto, a fermarlo.
“Aspetta Wakabayashi…io… io… devo parlarti”.
Yuzo trasse un profondo sospiro e si passò le mani tra i capelli, nella speranza di recuperare il controllo necessario a regolarizzare il respiro e calmare il battito del cuore, che si stava dibattendo furioso come uno stallone selvaggio preso al laccio.
Ora o mai più.
Gli occhi nocciola di Yuzo si sollevarono per incontrare quelli neri di Genzo che, senza proferire parola, aveva posato la borsa sulla panca e aveva incrociato le braccia, in attesa.
“E da un pezzo che volevo parlartene ma…” scosse la testa, rivelando con quel gesto tutta la sua incapacità, mentre con lo sguardo lo pregava di ascoltarlo, di capirlo, di non odiarlo. “Non so come dirtelo e quindi andrò dritto al punto” un altro profondo sospiro. “Io… per te... sento… provo…”
Si bloccò.
Le palpebre si chiusero contro la sua stessa volontà. Non ce la faceva. Non era pronto a vedere quel volto tanto amato contorcersi in una maschera di disgusto e repulsione.
Tornò a fissare il pavimento, mordendosi le labbra e dandosi mentalmente del coglione e del vigliacco.
Contrasse la mascella, così forte da sentire i denti scricchiolare.
Doveva farcela.
Non poteva più tornare indietro ma, sopratutto, si rese conto improvvisamente con stupore, non voleva farlo. E questa consapevolezza gli diede nuova forza.
Non era più un bambino, era un uomo e come tale doveva comportarsi.
Rialzò lo sguardo, intenzionato a vuotare il sacco e a subirne le conseguenze.
“Avanti. Dillo e facciamola finita!”.
La sorpresa lo fece balzare in piedi con il fiato mozzo, l’aria che usciva sibilando dalle sue labbra come una camera d'aria bucata. Con il corpo rigido per la tensione e in preda alla più totale confusione, aprì la bocca nell’affannoso tentativo di restituire ai polmoni l’ossigeno appena perso.
“Tu… tu sai?” chiese, ancora boccheggiante.
“Si” fu la risposta decisa e inequivocabile.
Ma come? Com’era possibile?
Eppure… aveva fatto di tutto per non scoprirsi, era stato attento a non fare passi falsi, si era fatto tante di quelle seghe mentali… e pensava di esserci riuscito dal momento che l’altro non aveva mai cambiato atteggiamento nei suoi confronti.
Ora questa novità lo scuoteva nel profondo, rendendolo più che mai incerto su come comportarsi.
“E mi stavo giusto chiedendo quando ti saresti deciso a parlarmene”.
Lo fissò titubante, cercando di capire quali fossero i pensieri dell’S.G.G.K., ma il suo sguardo era nascosto dalla tesa del cappellino e l’unica parte visibile del suo viso era il sorrisetto compiaciuto che gli aleggiava sulle labbra.
Non capiva. Tutto si sarebbe aspettato tranne una reazione del genere. Aveva sempre saputo che il suo era un amore a senso unico, perché Wakabayashi era felicemente fidanzato da qualche mese con una sua amica d'infanzia, una ragazza deliziosa e solare di nome Elena. E poi non gli interessavano gli uomini, aveva sempre avuto una sfilza di belle ragazze a scaldargli il letto.
Per questo non capiva.
Dov'era l'imbarazzo di fronte a una simile confessione? La repulsione che si era aspettato?
E lo scherno. Dov'era lo scherno?
Aveva messo in conto anche un pugno.
Invece... nulla di tutto questo.
Sembrava... soddisfatto. Si, soddisfatto.
Era mai possibile?
Si passò una mano sulla nuca, pensando a qualcosa da dire. L'atteggiamento del giocatore del Bayern gli risultava oscuro e incomprensibile.
“Io... non capisco...”.
“Davvero non capisci?”.
Per un istante, un solo brevissimo istante si illuse di essere ricambiato ma le successive parole di Genzo infransero anche l'ultima delle sue speranze. Non si era mai fatto illusioni, però non si aspettava nemmeno che, giunto al dunque, la delusione fosse così cocente e dura da mandare giù.
L'S.G.G.K. avanzò di qualche passo fino a portarsi davanti a lui e gli mise le mani sulle spalle, stringendole con le sue forti e lunghe dita. Gli occhi, non più nascosti dalla visiera, brillavano come lucide schegge di ossidiana nera.
“Sei cresciuto. Non solo come giocatore ma come persona. Hai sempre avuto coraggio, ma poca fiducia in te stesso e nelle tue capacità. E questo ti ha limitato in campo, nonostante tutti i miei incoraggiamenti. Stavo iniziando a disperare di vederti tirare fuori le palle, e parlo in senso figurato ovviamente” una smorfia ironica gli increspò i lineamenti ma Yuzo non si sentì ferito da quell'affermazione. Ne aveva capito perfettamente il senso. Con il suo sarcasmo Wakabayashi gli stava dimostrando che, nonostante tutto, per lui non era cambiato niente. Non l'avrebbe trattato in modo diverso da prima. Quella constatazione lo fece sentire meglio, tanto che riuscì ad abbozzare un sorriso. “Invece, stasera hai dimostrato che la mia fiducia in te non era malriposta” l’espressione di Genzo si ammorbidì leggermente ma senza perdere il suo piglio risoluto. “Benché sapessi che la tua era una partita persa in partenza hai deciso lo stesso di scendere in campo. Di non farti sconfiggere. Hai preso un goal. Ora rialzati e torna in posizione. Dimostrami che quello che sto per fare non è una stronzata”.
Yuzo aveva seguito il discorso in religioso silenzio, senza mai distogliere lo sguardo dal suo volto. Le sue parole l’avevano commosso.
Davvero era cresciuto così tanto?
Non se n'era reso conto…
Eppure… così aveva detto. Cos’era cambiato dall’ultima volta che si erano incontrati? Quanto tempo era trascorso da allora? Quasi un anno… l’occasione era stata l’amichevole con l'Iraq. Poi non si era più visti perché Wakabayashi non era sceso in campo in quella disputata con l'Arabia Saudita di Owairan. Non aveva potuto lasciare la Germania, il Bayern era impegnato su più fronti e aveva bisogno di lui.
Non erano stati facili quei mesi per Yuzo.
Benché avesse stretto alcune amicizie tra i suoi compagni di squadra e si tenesse in contatto con ‘il trio Shutetsu’, soprattutto con Mamoru che lo chiamava spesso, si era sentito solo. Aveva avvertito profondamente la mancanza dell’S.G.G.K., forse perché, da quando si era reso conto di amarlo, non era mai stato così tanto tempo senza vederlo.
Aveva dovuto fare i conti con il suo cuore, venire a patti con i suoi sentimenti. E nel farlo aveva trovato conforto e consolazione in un altro grande amore, un sogno che coltivava fin da bambino ma in cui probabilmente non aveva mai creduto fino in fondo. O, forse, era veramente come aveva detto Wakabayashi, non era nel sogno che non aveva creduto ma in se stesso.
Si era buttato a corpo morto nel calcio, allenandosi come mai aveva fatto prima di allora, stupendo tutti per la dedizione quasi maniacale con cui si esercitava. E i miglioramenti non erano tardati ad arrivare. Ma lui non se n'era accorto. Lavorava per ore e ore e finché braccia e gambe tenevano non lasciava la porta. Ora i goal che subiva non erano più una conferma del suo scarso talento ma una sfida a fare sempre meglio e ogni volta che vedeva la rete gonfiarsi alle sue spalle non solo non si scoraggiava ma si rialzava impaziente, smanioso di pareggiare i conti parando la bordata successiva.
D'un tratto si rese conto di una cosa importante.
Dio, che stupido era stato!
E' proprio vero che conoscenza e comprensione sono due strade parallele che difficilmente si incrociano. E questa ne era l'ennesima dimostrazione.
Aveva sempre riflettuto sulla mentalità del goal keeper pensando a Wakabayashi, ammirando nel compagno proprio quelle qualità che non derivavano tanto dal talento eccezionale quanto dalla capacità di imparare sul campo e trasportare nella vita. Perché non aveva ragionato nello stesso modo nei propri riguardi? Era un portiere, quegli stessi insegnamenti appartenevano anche a lui. Certo, non sarebbe mai stato un campione tale da meritare un soprannome come Super Great Goal Keeper, però poteva diventare un ottimo professionista e non soltanto un discreto giocatore.
“Non stai per fare una stronzata” replicò distrattamente, ancora immerso nelle sue riflessioni, rendendosi conto che l'altro stava aspettando una risposta. “Aspetta! Quale sarebbe la stronzata?” si affrettò a chiedere non appena il senso delle parole giunse al suo cervello. Chissà quali pensieri frullavano sotto il cappellino bianco, era evidente che non sarebbe stato in grado di intuirli, meglio aspettare che fosse l'altro a rivelarli.
Genzo mollò la presa sulle spalle e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi ma tenne gli occhi neri inchiodati ai suoi.
“Domani sera giocheremo la prima partita del girone asiatico per le qualificazioni ai mondiali e il nostro avversario sarà la Tailandia dei fratelli Konsawat. Io sono nella rosa dei titolari”.
Yuzo annuì con un cenno del capo, sapeva che sarebbe stato così. Quale allenatore sano di mente non l'avrebbe schierato in formazione?
“Ma non scenderò in campo, sarai tu a farlo al mio posto”.
“Cosa? E perché?”.
Quella era la serata delle sorprese e Wakabayashi gliene stava riservando una dietro l'altra. Ormai non si sarebbe stupito più di niente. Non si sarebbe meravigliato nemmeno se fosse entrata la nazionale al completo, vestita con un gonnellino di paglia e impegnata a ballare la hula.
Genzo incrociò le braccia e si girò di lato, lo sguardo fisso davanti a sé.
“Al termine della partita avrò a malapena il tempo di cambiarmi prima di saltare su un aereo, devo tornare subito a Monaco. Il secondo portiere ha avuto un incidente stradale ed è fuori combattimento. La società mi ha chiamato oggi pomeriggio, prima degli allenamenti. La mia presenza lì è indispensabile”.
“Ma il terzo portiere…”.
“Schneider non ne vuole sentire parlare e io sono d'accordo con lui. Non è in grado di giocare in Champions League e nessuno di noi due ha intenzione di mettere a repentaglio la qualificazione del Bayern. Devo andare io”.
Yuzo fissò il suo profilo severo, la linea dura della mascella. Così aveva deciso e
così sarebbe stato. Nulla gli avrebbe fatto cambiare idea.
“Quindi mi ritroverò ad affrontare due partite importanti in meno di ventiquattrore e con un viaggio intercontinentale sulle spalle”.
“Si...”.
Qualcosa non quadrava. Era vero che giocare due match impegnativi a poche ore di distanza l'uno dall'altro non era, per usare un eufemismo, una passeggiata di salute, peggio ancora se intervallate da un lunghissimo volo aereo, però Yuzo non credeva che questo fosse un problema insormontabile per l'S.G.G.K.. La sua determinazione e voglia di vincere l'avevano fatto scendere in campo in condizioni ben più difficili. Doveva esserci qualcos'altro.
“E questo sarebbe un serio problema per te?” chiese con voce pacata, portando la mano destra al fianco e arcuando le labbra nel suo solito sorriso sereno, dando a intendere che lui non credeva che lo fosse.
Eccola. L'espressione arrogante che Hyuga odiava, ma che invece lui amava e che aveva il potere di fargli rimescolare il sangue nelle vene, era comparsa sul suo volto. Genzo girò la testa e gli lanciò un'occhiata eloquente da sotto la tesa del cappellino “Certo che no” rispose in un tono che non ammetteva repliche, uno scintillio sprezzante negli occhi neri come la pece. “Figuriamoci”.
“E allora?”.
L'estremo difensore del Bayern distolse lo sguardo e socchiuse le palpebre, poi si voltò del tutto e lo fronteggiò, sciogliendo le braccia e portandosi la mano destra sulla coscia.
“Prima, quando mi sono rialzato dopo aver parato l'ultimo tiro di Hyuga, quello per cui si è tanto arrabbiato” spiegò corrugando la fronte, contrariato. “Ho avvertito un po' di fastidio”.
“Quanto fastidio?” la stessa preoccupazione che pervadeva la sua voce si rifletteva sui lineamenti delicati. Aggrottò le sopracciglia e gli scrutò la gamba, come a cercare segni visibili di ferite ma tutto quel che vide, ovviamente, fu la stoffa elastica della tuta che si tendeva, come una seconda pelle, sui muscoli della gamba. Due mesi prima aveva subito uno stiramento al quadricipite femorale che l’aveva tenuto fermo per circa tre settimane, impedendogli di scendere in campo. Una ricaduta sarebbe stata un vero e proprio problema in un momento come quello.
“Non molto in realtà, ma non voglio rischiare. Non posso saltare la partita in Germania, per questo tu dovrai sostituirmi qui. Ti affido la porta del Giappone” un lieve sorriso gli aleggiò sulle labbra mentre le sue iridi scure si perdevano nel vuoto, la mente tesa ad afferrare fugaci brandelli di avvenimenti passati. “Ricordi? Ti dissi la stessa cosa tanti anni fa, durante la partita con la Musashi al campionato nazionale delle elementari, anche se allora era la porta della Nankatsu che ti affidai”.
“Si... ricordo…” confermò Yuzo in tono sommesso, sentendosi avvolgere da una nube impalpabile di lieve malinconia. Gli eventi di quel giorno gli scorrevano davanti come tanti fotogrammi sbiaditi dal tempo e, pur avendo perso nitidezza e colore, erano ancora in grado di evocare sensazioni ed emozioni nel suo animo sensibile.
“Mi dicesti: Morisaki, non rientrerò in questa partita. Ti affido la porta della Nankatsu. Fa' del tuo meglio!” una breve pausa, mentre il suo sguardo tornava a incrociare quello granitico del compagno di squadra. “Stavolta non mi dirai la stessa cosa, vero?”.
L’S.G.G.K. mosse la testa in un diniego quasi impercettibile, un lampo d’acciaio tra le palpebre socchiuse. “Se sarà necessario chiederò al Mister di sostituirti. Gamba o non gamba scenderò in campo se la gara dovesse essere a rischio”.
“Allora dovrò fare in modo che non sia così” concluse Yuzo in un soffio, quasi parlando a sé stesso. Sollevò la mano destra e la fissò intensamente per una manciata di secondi, pensando al bambino che era stato, all’uomo che voleva essere, a tutti i dubbi, i tentennamenti, le incertezze e le paure di cui era stato preda per tanto tempo. Quella sera aveva imboccato una delle innumerevoli svolte che segnano quel percorso sconosciuto, tortuoso e imperscrutabile che si chiama vita e stava, con tutta probabilità, per iniziare un nuovo cammino. Non avrebbe mai potuto avere Genzo Wakabayashi, lo sapeva, così come sapeva che avrebbe dovuto affrontare il dolore che inevitabilmente avrebbe comportato anche se, dopotutto, questo amore qualcosa di importante glielo aveva dato lo stesso. Qualcosa di essenziale e prezioso, che avrebbe custodito e coltivato con cura, una diversa e nuova comprensione di sé e delle proprie potenzialità.
Ora si piaceva un po’ di più.
Certo, non tutti i problemi erano stati risolti, le esitazioni, i timori, lo smarrimento, erano ancora dietro l’angolo ma Yuzo giurò a sé stesso che avrebbe fatto in modo di non farsi sopraffare.
Tese la mano verso il compagno di squadra con aria risoluta.
“Non giocherai domani sera”.
Genzo gli afferrò le dita e le strinse con forza tra le sue, ricambiando la stretta.
“E’ una promessa?” chiese asciutto, ma senza riuscire a impedire a un angolo della bocca di piegarsi all’insù, in un sorriso obliquo.
“Si, è una promessa”.

 

Fine...

 

 

 

... e palla al centro

Questa è la prima fanfiction che scrivo e non avrei mai pensato di scriverla su Capitan Tsubasa:) Non mi dilungherò a spiegare come e perchè nasce, annoierei voi ma principalmente me stessa, quindi passo subito ai credit e ai ringraziamenti.

Credits

I personaggi di Capitan Tsubasa sono di Yoichi Takahashi che ne detiene tutti i diritti.

Il personaggio di Elena appartiene a Eos75 che ne detiene i diritti ed è stato utilizzato con il consenso dell'autrice.
Elena è il personaggio femminile del racconto "Il primo bacio" (se non l'avete letto correte immediatamente a farlo). E' un racconto che amo in modo particolare quindi, quando si è trattato di dare una fidanzata a Genzo, non ho avuto incertezze. Doveva essere lei.

Nella storia è stata richiamata la frase di un racconto appartenente a Melantò ed è stata utilizzata con il suo consenso. La frase è tratta da "Maharajakumar" (altro racconto che mi piace tanto e di cui consiglio la lettura perchè Yuzo e Mamoru sono proprio dolcissimi) e il testo esatto è il seguente: "Tenersi dentro i dubbi non fa altro che alimentarne di nuovi. Reprimere ciò che si prova crea solo dolore. Affrontate i vostri sentimenti, mio piccolo Principe, e anche se le cose non dovessero andare nel giusto verso, vi sarete liberato del peso che vi portate sul cuore.”

E ora i ringraziamenti.

Ringrazio tantissimo e di cuore Melantò ed Eos75 per avermi incoraggiato e aver letto una prima bozza del racconto (ribattezzato il muro del pianto), se sono arrivata alla fine è anche per merito loro. Grazie ragazze, anche per tutte le chiacchierate in chat.

In particolare Eos75 per avermi confortata sulla caratterizzazione di Genzo. E' il mio personaggio preferito ma ho veramente difficoltà a scrivere di lui. La ringrazio inoltre per le sue fiction yaoi su Genzo, è stato grazie a loro che ho saltato il fosso e mi sono avvicinata al genere. 

E Melantò per avermi fatto amare la coppia Yuzo - Mamoru e per avermi definitivamente convertita al mondo delle shonen ai. Mel te l'ho trattato proprio con i guanti il tuo Yuzo.

E per finire ringrazio tutti voi che scrivete su Capitan Tsubasa e che mi avete regalato tanti bei momenti con le vostre storie.  

Spero di non aver dimenticato nulla e nessuno. Se l'ho fatto potete lapidarmi LOL.

 

  
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