Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: itsalwaysyou    02/09/2015    1 recensioni
Tempo fa ti promisi di scrivere di noi. Ora che non c'è più un noi, scriverò di me e te.
Tratto dalla storia:
"Così avevo incastrato la testa nell’incavo del suo collo e per un attimo mi era sembrato che quello fosse il mio posto. Lui, invece, con gli occhi puntati sul cellulare, non aveva mostrato alcuna emozione. Ma se le sue azioni dicevano una cosa, il suo corpo affermava l’esatto contrario: nel giro di pochi secondi, il suo respiro era diventato accelerato, il cuore batteva all’impazzata. Forse stava di nuovo accadendo tutto nella mia mente ed erano il mio orecchio e la mia guancia ad essere troppo vicini alla sua bocca e al suo petto. Eppure in quel momento ne ero stata sicura: li avevo sentiti perfettamente."
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Sabato

4:17 a.m.

Due divani a tre posti completamente occupati. American Hustle in tv, senza nessuno a guardarlo. Bottiglie vuote di rum e vodka sparse sul pavimento, ciotole quasi piene di biscotti e patatine sul tavolo in legno. La rimpatriata notturna organizzata in onore dei vecchi tempi – il mese di settembre trascorso a Londra – poteva ormai dichiararsi conclusa. Nella stanza in disordine solo le voci provenienti dal grande schermo, che sovrastavano i respiri regolari dei miei cinque amici ormai addormentati.
Avevo smesso di seguire il film da un po’, anzi a dir la verità avevo colto solo alcune parole all’inizio, troppo impegnata a pensare alla sua testa sulla mia spalla e ai suoi capelli che mi sfioravano la guancia, solleticandola.
Non sapevo com’eravamo finiti in questa posizione, non sapevo nemmeno in che modo ci eravamo avvicinati così tanto.
Cosa sapevo con certezza? Beh, che non era normale. Ma, in fondo, cosa c’era stato di normale in quella serata? A partire dalla prima volta in cui si era appoggiato comodamente a me e aveva preso ad analizzare i miei braccialetti. Aveva afferrato il mio polso sinistro con le sue dita ruvide, poi con il pollice e l’indice aveva  stretto il filo di cotone prevalentemente azzurro, con piccoli tratti rosa, blu e bianchi, e mi aveva chiesto: «Questo è quello che ti regalai io?»
Avevo risposto di si, mostrandomi noncurante. Non potevo mica rivelargli quanto mi ero sentita colta in flagrante da quella domanda? Se fosse stato confuso, non l’avrei biasimato: mi ero liberata di qualsiasi cosa mi legasse a lui, del bracciale e della collana uguali, avevo custodito tutti i suoi disegni nella mia agenda – ma lui questo non lo sapeva – e avevo addirittura eliminato le conversazioni da whatsapp.
E, invece, cosa avevo conservato? Uno stupido braccialetto della fortuna, di quelli che si vendono sulla spiaggia e che mi aveva regalato poco prima che ci lasciassimo. La  spiegazione che avevo dato a me stessa era che i braccialetti della fortuna generalmente si spezzano da soli: di certo, però, non potevo dirglielo, perché l’avrebbe interpretata come una giustificazione. E forse lo era.
Dopo aver chiarito il suo dubbio, mi ero alzata per cambiare canzone ed ero tornata al mio posto, lui di nuovo sulla mia spalla. Mentre le note di Senza parole di Vasco si diffondevano nella stanza, aveva preso ad accarezzarmi il braccio.
Non eravamo soli – qualcuno sull’altro divano, qualcun altro fuori a fumare – ma quasi sembrava lo fossimo: l’elettricità che si creava quando eravamo vicini era palpabile da metri di distanza. Ben presto le sue carezze si erano trasformate in pizzicotti affettuosi e per ricambiare avevo infilato le mie unghie non molto lunghe nella sua pelle.
«Che provi a graffiarmi se non hai le unghie?» aveva sorriso, prendendomi in giro.
Mi ero un attimo persa nei miei pensieri, ricordando che avevo tolto il vizio di mangiarle grazie a lui, ma poi, improvvisamente, aveva preso la mia mano e si era messo ad esaminarla con attenzione. Aveva strofinato il polpastrello contro il mio indice, per poi iniziare a giocare con le dita. Avevo fatto lo stesso e poteva sembrare un gesto di poco importanza, ma avevo sentito il mio cuore accelerare e il suo orecchio era così vicino – al mio cuore – che doveva essersene accorto. Aveva girato la testa per guardarmi e mi era sembrato di affogare nel mare dei suoi occhi verdi, con quella macchiolina gialla nell’iride sinistra. Avrei voluto che intrecciasse le nostre mani, proprio come in una delle nostre prime foto, e sentivo che lui desiderava lo stesso. Ma forse stava accadendo tutto nella mia mente.
L’episodio del braccialetto e delle mani non erano gli unici che mi avevano destabilizzato. Ce n’era un altro, forse il più importante che mi aveva reso incredibilmente confusa. Dopo aver giocato a 3 6 9 – uno dei giochi che avevamo imparato a Londra – e ad obbligo e verità, a qualcuno era venuta l’idea di vedere un film. E, come da copione, eravamo capitati di nuovo vicini.
Scegliere il film e farlo caricare non era stata una cosa veloce. Così, nel frattempo, si era appoggiato per l’ennesima volta a me, ma stavolta io avevo deciso di cambiare le cose: mi ero spostata e l’avevo spinto scherzosamente, dicendogli che era il mio turno. Così avevo incastrato la testa nell’incavo del suo collo e per un attimo mi era sembrato che quello fosse il mio posto. Lui, invece, con gli occhi puntati sul cellulare, non aveva mostrato alcuna emozione. Ma se le sue azioni dicevano una cosa, il suo corpo affermava l’esatto contrario: nel giro di pochi secondi, il suo respiro era diventato accelerato, il cuore batteva all’impazzata. Forse stava di nuovo accadendo tutto nella mia mente ed erano il mio orecchio e la mia guancia ad essere troppo vicini alla sua bocca e al suo petto. Eppure in quel momento ne ero stata sicura: li avevo sentiti perfettamente.
Così, ripercorrendo mentalmente i vari momenti della serata, caddi in uno stato di dormiveglia. Immagini e parole confuse si stavano addensando pian piano nel mio cervello, ma c’era qualcosa che mi impediva di addormentarmi del tutto. Qualcuno parlava, anzi urlava. Sbruffai infastidita e non ci volle molto a capire che era quello stupido film ancora in proiezione. Provai ad aprire gli occhi – che comunque rimasero socchiusi – e diedi un’occhiata veloce intorno, giusto il tempo di realizzare che uno dei cinque era ancora sveglio. Gli chiesi gentilmente di abbassare il volume, visto che lui sembrava molto più attivo di me. E, infatti, spense velocemente la tv.
Il mio leggero sussurro fu sufficiente a svegliare il ragazzo al mio fianco, che subito si spostò dalla mia spalla e si mise seduto correttamente. Strizzò gli occhi più volte, assonnato. Poi, decise di utilizzare il bracciolo del divano come cuscino, mettendosi in posizione fetale, ma con i piedi a terra. D’altronde, dovevamo starci in tre lì sopra. Nel suo movimento lento, mi guardò per qualche secondo, prima di afferrarmi delicatamente e attirarmi a lui. Fui sorpresa da quell’azione: la mia testa era sulla sua anca e il profumo della sua maglietta – lo conoscevo bene – mi inebriò immediatamente le narici. Aspirai il più possibile, chiudendo gli occhi.
Tenevo la mano accanto al mio viso quando me la prese per l’ennesima volta e la trascinò dall’altra parte, in modo che gli circondassi la pancia.
Non potevo credere che stava succedendo davvero.
Io e lui. A dormire abbracciati. Proprio come a Londra.
Affondai il naso nella stoffa, per godermi ancora di più il momento, mentre lui prese a sfiorarmi l’avambraccio col pollice.
Nel giro di qualche secondo, la sua mano era sulla mia e il suo respiro divenne regolare, testimone del fatto che si fosse addormentato: in quel momento capii perché avevo sentito spesso parlare della necessità di sincronizzare il proprio respiro a quello dell’amato.

6:03 a.m.

Aprii gli occhi lentamente, per poi richiuderli. Ripetei la stessa azione tre volte, sentendomi le palpebre pesanti e senza riuscire a capire dove mi trovavo, con chi e perché. Alzai di poco la testa, guardando la maglietta bianca del ragazzo a cui ero appoggiata, poi le immagini di qualche ora prima mi tornarono alla mente.
In quella posizione la schiena cominciava a farmi male e, per quanto adorassi essere così vicina a lui, decisi a malincuore che era finito il nostro momento. Delicatamente liberai il braccio dalla sua stretta e staccai il corpo dal suo, cercando di non farlo svegliare. Ovviamente, tutti i miei sforzi furono inutili e nel giro di pochi secondi la sua bocca emise un mugolio e i suoi occhi verdi erano su di me. Non mi chiese di restare: si limitò a fissarmi per un tempo che apparve infinito. Sentivo il bisogno di prendere una boccata d’aria, così uscii in cortile. Quando rientrai, era di nuovo tra le braccia di Morfeo. Mi accomodai su una sedia accanto al divano e cominciai ad osservarlo, per una volta senza la paura di poter essere scoperta: ero attratta come una calamita da quelle labbra, rosee e sottili come tutti potevano vedere, morbide come solo io potevo sapere. Io e la ragazza con cui stava uscendo.
Credevo di averlo dimenticato dopo un anno. E invece capii che sarebbe stato sempre e solo lui, che non avrei amato mai nessuno come lui. Forse avrei amato qualcuno di più, qualcuno di meno, ma non nello stesso modo. Modo che avrei potuto riservare solo al mio primo vero amore.

8:44 p.m.

Non sapevo con che coraggio e con quale forza, dopo aver dormito solo quattro ore quella mattina, avevo deciso di uscire. Uno dei più grandi errori della mia vita.
Perché sì, se fossi restata a casa, mi sarei risparmiata quella scena che mi faceva venire il voltastomaco e, di conseguenza, tutto il dolore che mi stava lacerando come un coltello affilato che preme più volte su una ferita già aperta.
Non ero mai stata male per loro, avevo accettato la cosa fin dall’inizio. E allora perché, in quel momento, stavo combattendo con le lacrime che minacciavano di impossessarsi del mio viso? Sapevo perché. Perché lui la notte l’aveva passata con me, non con lei, eppure era lei quella che stava abbracciando. La teneva stretta, sorridendo sulla sua spalla. Lei, appena tornata dalle vacanza, si teneva sulle punte, sorridendo sul suo collo. Mi ricordava tanto noi.
Mentre la tirava su, mi chiesi come poteva comportarsi come se nulla fosse successo. Non che avesse fatto chissà cosa, ma credevo che avesse provato almeno la metà delle stesse che avevo provato io.
Di sicuro non si sarebbe mai sentito come me in quell’istante: delusa, tradita, arrabbiata. Non con lui, non potevo nemmeno accusarlo di avermi illusa: avevo smesso di illudermi per così poco da tempo.
Ce l’avevo con me stessa, per avergli permesso di avvicinarsi di quel modo, per aver preferito godermi l’attimo senza pensare alle conseguenze, per aver lasciato che mi entrasse di nuovo nel cuore. Forse non ne era mai uscito. Ma dovevo accettarlo, il nostro tempo era finito.
Li guardai un’ultima volta, poi abbassai lo sguardo.
I ricordi, tutto ciò che mi restava.


 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: itsalwaysyou