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Autore: heysassenach    03/09/2015    0 recensioni
L'amore tra fratelli.
L'odio tra rivali.
Una città sull'orlo della catastrofe.
[Medici/Pazzi]
{Ho modificato titolo e descrizione, perché non ero soddisfatta. Se vi va, lasciate una recensione c:}
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Villa dei Medici a Careggi,
7 Aprile 1492.

Le coperte gravavano come macigni sulle sue gambe ormai devastate dalla malattia. Qualcuno aveva tentato di convincerlo che sì, sarebbe sopravvissuto, ma Lorenzo de'Medici aveva smesso di credere a quelle inutili chiacchiere da molto tempo, ormai. Aveva smesso di illudersi, e si era circondato di quei pochi visi amichevoli per trascorrere al meglio le ultime ore della sua esistenza terrena. Da qualche giorno era sprofondato in un torpore tanto innaturale, che ogni suo dolore pareva solo una eco distante, un vago ricordo. Era come se la sua anima si fosse già distaccata dal corpo, ma per qualche assurdo motivo esitava ad abbandonare la sua mortale dimora.
Se anche il vento che gonfiò le tende della finestra aperta era freddo, lui non se ne accorse. Immerso com'era nel bozzolo tiepido del suo letto, osservava gli astanti con distaccato affetto, come fosse uno spettatore della sua stessa agonia.
Le avevano tentate tutte. Ma nell'ultimo mese, quella che prima era ancora una remota possibilità, si era trasformata in un'incontestabile ed assoluta certezza. Marzo volgeva già al termine, quando aveva comunicato la sua decisione: lasciare Firenze e ritirarsi a Careggi, lontano dal caos e dalle responsabilità della politica cui aveva consacrato la sua esistenza. Gli occhi azzurri del suo amico Poliziano si erano sgranati in quello che pareva essere un misto di consapevolezza e terrore. «Ma...», aveva boccheggiato il poeta, «non puoi. Che ne sarà di Firenze?».
Lui aveva riso, per quanto quello che era affiorato dalle sue labbra fosse più simile ad un rantolo di dolore, che ad una risata. «Io sto morendo, amico mio», aveva detto con tutta la naturalezza che riusciva ad ostentare, «che cosa mai potrebbe farsene Firenze, di un moribondo?». E a quella domanda, Agnolo Poliziano aveva farfugliato qualcosa su un famoso medico, che di certo avrebbe guarito il suo signore. Ma al suo male non c'erano cure. Nell'ultimo mese le sue condizioni erano peggiorate a tal punto, che Lorenzo non si stupiva del gruppetto sempre crescente di persone che vegliavano su di lui, in attesa dell'ora in cui la Morte sarebbe venuta a prenderlo. A volte fingeva di dormire, troppo debole anche per aprire gli occhi, e li sorprendeva a tenere delle vere e proprie veglie di preghiera. Poi, non sapeva come, gradualmente scivolava nell'incoscienza di un mondo onirico in cui la morte appariva ancora lontana.
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«Mio signore?», domandò una vocetta esitante a lui sconosciuta. Lorenzo aprì un occhio appannato, e vide una figura sfocata china su di lui. Mugugnò qualcosa ancora in preda ai deliri del sonno, prima di mettere a fuoco un volto che era certo di non aver mai visto prima. «Chi siete?», chiese issandosi faticosamente su un gomito per vedere meglio il suo interlocutore. Non poteva avere più di venti, al massimo venticinque anni. L'ossatura leggera, quasi femminile del volto, tuttavia, lo faceva rassomigliare più che altro ad un bambino troppo alto, con guance rosee e lunga ciglia nere.
«Il medico, mio Signore», annunciò altezzosamente il giovane, apparendo involontariamente ridicolo. Lorenzo fece una smorfia rassegnata. Quanti poteva averne visti, finora? Ogni giorno bussava alla sua porta qualche ciarlatano che prometteva guarigioni miracolose. Ma alla morte non si può sfuggire, una volta che questa ha iniziato a calare sulla sua preda.
«Ebbene. Ritenete di potermi guarire?». Nonostante avesse parlato con un filo di voce, il suo sarcasmo non passò inosservato all'onnipresente Poliziano, che gli scoccò un'affettuosa occhiataccia da oltre la spalla del nuovo arrivato. Questi, d'altra parte, sembrò non cogliere la vena di scetticismo nella sua voce, perché annuì energicamente. «L'ultima frontiera della medicina, direttamente dall'oriente, mio Signore». Lorenzo si lasciò cadere sui cuscini, rassegnato. Fece un cenno con il capo e quello continuò: «una nuova pozione. Adatta a un grande signore come voi, naturalmente». 
«Naturalmente», gli fece eco Lorenzo studiandone il volto da efebo. Se quella nuova diavoleria ne avrebbe provocato la morte, perché tardare? Tanto valeva mettere fine alle sue sofferenze una volta per tutte. Il grande uomo che era stato era morto da tempo, il fisico possente infiacchito dalla malattia al punto da ridurlo a un invalido. Non c'era stato giorno, nell'ultimo anno, in cui ogni fibra del suo corpo non gli avesse fatto male come fosse costantemente e ripetutamente dilaniata.
«Fate di me tutto ciò che volete, mi rimetto alla vostra esperienza». Ammesso che ne avesse mai avuto alcuna, riflettè Lorenzo fissando le esili mani del medico armeggiare con i lacci di un piccolo sacchetto. Quelle che riversò nella ciotola però non erano affatto le foglie o le spezie che si era aspettato. Al loro posto, in una rumorosa cascata madreperlacea, fecero la loro comparsa decine e decine di minuscole perle di fiume. Lorenzo si schiarì la voce, notando distrattamente lo sguardo altrettanto perplesso di Poliziano, il quale si era fatto più vicino per osservare meglio. Non c'erano dubbi che quel medico fosse opera sua. «Perdonate l'indiscrezione, messere», esordì il poeta prima che il suo signore potesse aprire bocca per dar voce ai suoi pensieri, «siete sicuro che quelle...ehm... perle, siano necessarie?»
Il giovane distolse lo sguardo dal dosaggio delle perle solo per rivolgergli uno sguardo infastidito, per poi mutarlo in adulazione quando si soffermò su Lorenzo: «Vi sembrerà un rimedio un po' atipico, mio signore», spiegò, ignorando lo sguardo ora indignato di Poliziano, «ma vi assicuro che è efficace. Cura tutti i mali! Ovviamente», e qui ammiccò verso il moribondo come se stesse per rivelare il segreto dell'elisir di lunga vita, «solo in pochi se lo possono permettere. E voi siete uno di quei pochi fortunati, signore». Le sue labbra si dischiusero nel sorriso meno rassicurante che Lorenzo avesse mai visto. Si chiese se non fosse in fondo una fortuna, possedere denaro sufficiente per pagare una pozione che certamente lo avrebbe condotto alla tomba il prima possibile. «Procedete, allora», ordinò con un filo di voce. Il giovane era appena tornato a concentrarsi sulla macinazione delle perle, il cui sgradevole rumore ricordò a Lorenzo quello degli scarafaggi schiacciati, quando un braccio gli artigliò l'esile polso. «No». Gli occhi azzurri di Poliziano erano serrati in una maschera d'ira, e sembravano dardeggiare come un falò in una notte buia. «Seguitemi fuori, ho bisogno di parlarvi». Il tono era perentorio, cosa assai rara per un uomo dall'indole mite come il poeta. Il giovane medico mugolò, liberando il braccio dalla stretta ferrea. I suoi occhi incontrarono quelli rassegnati di Lorenzo, in cerca d'aiuto. Ma un uomo prossimo alla morte non ha interesse alcuno ad ostacolare il volere delle persone care. «Fate come vi dice», disse accompagnando l'ordine con un cenno del capo, «come vedete, io sono impossibilitato a scappare». Sorrise a fatica, mentre le spalle del ciarlatano scomparivano dietro la porta.
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«Gli accordi non erano questi». Avvolto in una sontuosa veste di velluto nero, Agnolo Poliziano sembrava la morte in persona. Non si preoccupò del mantello che gli svolazzava alle spalle mentre camminava nervosamente per il corridoio, né tantomeno si premurò di osservare il benché minimo rispetto per l'uomo nella cui professionalità aveva riposto estrema fiducia. Si voltò in un turbinio di tessuti, simile ad un grosso pipistrello, piantando gli occhi fiammeggianti sull'uomo, che parve farsi piccolo piccolo.
«Ci deve essere stato un fraintendimento», azzardò il medico, ritrovando d'un tratto tutta la boria che gli era venuta meno nell'ultima mezz'ora, «ma vi assicuro, messere, che posso tranquillament..», ma Agnolo Poliziano lo interruppe. Torreggiava su di lui come un grosso avvoltoio, infuriato, per giunta. «Voi», disse puntandogli contro un dito accusatore, «farete meglio a sperare che funzioni. Non vi ho pagato per uccidere l'unico uomo capace di tenere in piedi questa città».
Il medico fece un passo avanti, il volto improvvisamente paonazzo per la rabbia. «Ma non capite? Quell'uomo è già morto. Non avete sentito i presagi che ne hanno annunciato la morte?».
Il poeta serrò i pugni, prese un bel respiro. Non era mai stato un uomo violento, e non intendeva diventarlo ora. Aveva bisogno di tutto il suo sangue freddo.
«Ma certo. Un uomo del vostro spessore intellettuale crederà sicuramente alle sciocche chiacchiere del volgo, non è vero? Ad ogni modo l'avete detto, il mio signore è bello che morto», avanzò anch'egli di un passo, sovrastando l'esile giovane, «quindi, dato che non potete guarirlo, a cosa devo la vostra ripugnante presenza?»
«Non ho detto che non posso farlo, infatti. Voi mi sottovalutate». Con un ghigno di scherno ad incurvargli le labbra carnose, il giovane oltrepassò il poeta, immobile come una statua di sale. «Badate bene, dottore: fate solo un passo falso, e vi ritroverete a giacere in una fredda tomba prima del tramonto». Non si voltò, ma poteva percepire l'esile sagoma del medico sgusciare nella camera da letto con un sorrisetto sul volto.
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Una volta, da bambino, Lorenzo aveva perso una scommessa. Ricordava ancora il sorriso trionfante del suo amico Duccio, il figlio dello stalliere, nel comunicargli la sua penitenza. Si trattava di piccolezze, all'epoca, ma per un bambino essere costretto a una tale umiliazione era destabilizzante. Ma Lorenzo de'Medici non poteva tirarsi indietro, non davanti a quei coetanei che lo consideravano solo un nobile rammollito. Così, nel giubilio generale, si era ritrovato a mangiare la prima cosa non commestibile che gli era capitata a tiro: un pugno di sabbia. La sensazione stridente e sgradevole era la stessa che stava provando adesso, quarant'anni dopo, sul letto di morte. Persino il suo corpo, per quanto malandato, non riusciva a sopportare un simile oltraggio: Lorenzo fece appello a tutte le sue restanti facoltà fisiche e mentali per non vomitare. Di certo, l'intruglio che di lì a poco avrebbe avvelenato il suo corpo era ben più pregiato di un pugno di sabbia. Ora il giovane medico lo fissava come se si aspettasse di vederlo saltare giù dal letto con la rapidità di una rana.
«Lasciatemi». Lorenzo si stupì di quanto flebile fosse la sua voce. Si rigirò nelle coperte, nel suo bozzolo protettivo, quasi dimentico dei dolori a cui ormai aveva fatto l'abitudine. Vide il giovane chinarsi in segno di saluto, i lucidi capelli neri scintillanti alla luce delle lampade. Sparì dalla sua vista così come era arrivato, e lui si ritrovò a fissare la parete levigata nel punto in cui un momento fa c'era il giovane. Qualcuno aveva tirato le tende per consentirgli un migliore riposo. Lorenzo si chiese se, effettivamente, quella non fosse l'ultima volta che chiudeva gli occhi. Ma proprio quando la stanchezza parve prendere il sopravvento,il suo sguardo stanco indugiò su un oggetto poggiato alla parete. Come aveva potuto non vederlo?
Il ritratto era di piccole dimensioni, rispetto agli altri dipinti che aveva insistito per portarsi dietro da Firenze. Il giovane di profilo aveva un'espressione austera, e gli occhi abbassati. La sua figura risaltava contro il blu dello sfondo, mettendone in evidenza i lineamenti decisi sotto una zazzera di riccioli neri. Lorenzo si ritrovò a sorridere al ricordo dei capelli indomabili del suo fratello minore. Non lo vedeva da quattordici anni, eppure riusciva ancora a ricordare la sua voce, la sua risata.
Nella penombra della stanza parve calare un silenzio innaturale. Lorenzo de' Medici chiuse gli occhi e attese: magari presto avrebbe rivisto suo fratello.
   
 
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