T___________T
Il prossimo capitolo, beh, mi duole dirlo…
FINIRO’!!
xD
il prossimo sarà l’epilogo, perciò la
storia in sé per sé finisce qui.
Ma attenti, perché ci sarà un seguito…e
lì Lsyn ne vedrà delle belle xD
preparatevi a ricevere altre mazzate con il, chiamiamolo “libro secondo”
xD xD
Vi saluto tutti, e vi dico di non perdervi la prossima puntata xD
Nel prossimo capitolo provvederò a ringraziarvi per il vostro
supporto, ma ora vi dono un bacio =*
Alla prossima!
Akita
Ci
apprestammo, a tornare, io ed Isnark, nel silenzio tombale che si era andato a
creare dopo che Regis era scomparso, se n’era andato, facendo tornare
tutto a quella normalità che tutto era tranne che normale, avviandoci di
malavoglia verso i cavalli. Io stringevo ancora in mano quello strano anello
istoriato, mantenuto da quella semplice catenina, e mi sentivo quasi stordita.
Era strano, quasi fantastico, quello che era accaduto in quei giorni convulsi.
Di nuovo, la mia vita aveva subito un cambiamento drastico, in così poco
tempo. Di nuovo, qualcuno a cui tenevo molto mi aveva
lascito. Nemys se n’era andata, l’ultima mia ancora. La parte
più pura di me era volata via, lasciandomi definitivamente sola. Dovevo
ancora metabolizzare la cosa, pensare che non ci sarebbe stato mai più
nessuno a guidarmi, ma che sarei stata io a dover guidare, senza spalle forti
dietro. Avrei dovuto imparare ad usare le ali che mi erano state donate senza
più sostegno. Non capivo ancora come fare, non lo nego.
Né, tra l’altro, ancora l’ho capito. Come posso vivere una
vita autonoma quando non mi è mai stato
insegnato come si fa? Sono sempre stata di altri. Ombra, Nanetta, anche Mostro,
Ch’argon. Mai Lsyn, mai di me stessa, in una vita tranquilla in cui tutti
mi temevano e nessuno poteva osare mettermi i piedi in testa. Fondamentalmente,
ero sempre esistita in virtù di una sfida ben più grande di me.
Non so ancora vivere nella banale quotidianità, non so ancora
rapportarmi in maniera sana con le persone, una nobile improvvisamente declassata
al rango di contadina, non so ancora come non sprofondare nella
vergogna tutte le volte che gli sguardi si posano sul mio viso disfatto,
i mormorii pietosi che mi fanno andare su tutte le furie. Non riesco ancora a
vivere, e tutto quello che riesco a fare è crescere dei piccoli in modo
che siano autonomi ed indipendenti, mai plagiati da qualcuno più grande
di loro, più potente, com’era successo a me. Su questo, sono
intransigente. Quando Isnark mi parla di cominciare ad insegnare a Nilyan i
precetti del governo, dando maggior importanza ad essi
che magari ad altre cose, gli vorrei staccare la testa. Spesso gli rispondo che
se vuole un re se lo va a cercare, e che non deve plagiare qualcuno che deve
crescere sano e protetto. Ripetono sempre che quello che sto facendo ha davvero
del bello, che davvero sono cambiata, nel meglio. Ma io non riesco a vedere
questi cambiamenti. Sono ancora ossessionata, ossessionata da quel passato che
non vuole saperne di andare via, di svanire una volta e per tutte, di farsi
meno doloroso. Ancora, ad intervalli ora radi, ora fitti, mi vengono a visitare
gli incubi più orribili. Sogno Chekaril, Tijorn, tutti i miei errori,
tutte le mie perdite, né riuscirò mai a guarire quelle ferite che
solcano il mio animo, numerose quanto quelle che mi sfigurano. Però
cerco di non darlo a vedere. Mi sono rassegnata alla mia vita, rinunciando
all’ambizione di brillare ad ogni costo, rinunciando al mio orgoglio,
piegandomi docile al destino, una canna palustre al vento. Eppure, devo e dovevo
vivere. Anche solo per chi è morto per farmi questo regalo. Anche solo
per dispetto nei confronti di Lainay. Eppure, non mi farò vedere mai
più ad una cerimonia a volto scoperto, né cercherò di
legarmi a qualcuno che non siano i piccoli. Ho
rinunciato alla maschera, ho rinunciato ad isolarmi completamente dalla vita,
ma metto sempre una certa distanza tra essa e me. In
fondo, ho sempre vissuto la bellezza di cinquant’anni in perfetta
solitudine, no? Non mi sento pronta a vivere di nuovo, ad aprire gli occhi.
Forse un giorno troverò la forza, forse no, affossandomi in
un’esistenza senza vita, un’esistenza spesa solo per far vivere gli
altri, tenere il proprio mantello affinché gli altri lo possano usare
come tappeto per non sporcarsi i piedi. Eppure, quell’umano mi ha donato
una speranza che ancora perdura. Mi ha fatto capire che sono ancora un essere
senziente, che provo emozioni, che posso essere anche felice. Per quanto la
gioia sia sempre funestata dalla tristezza, per quanto
non esista mai una vera felicità, essere serena, per me, è
possibile. Si tratta solo di me, ora, solo ed esclusivamente di me. Raggiungere
una calma interiore, in quel mare che è ora in tempesta, potervi tornare
a navigare con il vento in poppa. Questo pensiero mi fa sempre sentire vicina
all’obiettivo, e, nello stesso tempo, diametralmente all’opposto di
esso. Vedo la gioia vicinissima, e lontana come
l’orizzonte. La vedo come una chimera vivente. Ho l’impressione che
essa sia nascosta dietro un velo, e che basti un solo
passo per sollevarlo e raggiungerlo. Eppure, ci sono ancora delle catene che
bloccano le mie ali. Qualcosa non è mai morto, e lo stesso rimorso
m’impedisce di essere felice, lo stesso senso di colpa. In quel momento,
in quel bel pomeriggio caldo, in cui, assonnata, osservavo quelle rovine ormai vuote,
mi sentivo così. Avvertivo la pace vicina, a portata della mia mano, ma
non riuscivo a raggiungerla. Non riuscivo a rendere reale la lezione che Regis
mi aveva dato. Non riuscivo a trasformare in sorrisi la speranza. E poi avevo
troppo da fare. I bambini mi avrebbero aspettato per la notte, perché io
li facessi addormentare, e dovevo riposarmi, se non volevo crollare prima di
loro. Machin sicuramente stava ancora un po’ male per il dente, povero
piccolo. Così, io fui la prima a scrollarmi, a muovermi. Guardai
brevemente il monile che Regis mi aveva lasciato, incuriosita, facendolo
scintillare alla luce del sole. Poi lo misi in tasca. Non l’avrei
indossato fino a quando il mistero sulla sua origine non si fosse
chiarito. Chi era quella persona cara di cui mi aveva accennato? Che
c’entrava, poi, quel villaggio dal nome così strano, sperduto
chissà in quel buco montano? Cosa significava quell’anello? Non ne
avevo la minima idea. Certamente, non avevo mai visto qualcuno con indosso un
gioiello del genere. Un oggettino delicato, argenteo, di fattura più che
elfica. Avevo visto cose simili a Galinne, ma più ci pensavo, meno la
cosa mi convinceva. Non aveva senso. Io non conoscevo nessuno di Galinne. Mi
risvegliò dai miei pensieri Isnark, ancora vagamente stordito.
“dovremmo andare”. Io annuii. Nilyan era rimasta scoperta per
troppo tempo. Era pericoloso: Lainay poteva approfittarsi di quel momento in
cui Uruk era relativamente debole per attentare alla vita della giovane
principessa, della minuscola principessa. Sangue di Rinnegato o no, era nata da
poche ore, e certamente non poteva ammazzare le eventuali Spie a colpi di
magia, cosa ridicola da pensare. Una neonata non è così difficile
da uccidere, benché io l’avessi affidata nelle mani di Dae e di
Amarto, che controllava come un cane da caccia benché
fosse cieco, e da Zipherias. D’accordo che l’ultima persona era
stata lievemente minacciata, perché se solo fosse
successo qualcosa anche di minimo alla mia nipotina gli avrei cavato gli
occhi dalle orbite con le mie mani, ma la cosa aveva lo stesso senso. Eravamo
quindi in una situazione parecchio destabilizzante in potenza. Era quasi ora di
parlare ad Isnark del mio piano. Magari sarebbe stata solo una soluzione momentanea, ma efficace. Quando era sola con me, potevo
mettere una mano sul fuoco che sarebbe stata protetta da tutte le Spie. Non le
avrei permesso di allontanarsi nel bosco di più di qualche metro. Sarei
stata peggio di qualcosa di una mamma chioccia. Sperai solo che non ereditasse
la mia natura. Di solito, da piccola,
quando Amarto mi diceva di non fare qualcosa, di solito era quella la prima
cosa che facevo. Alla fine nemmeno le bastonate servirono per correggere questo
piccolo vizio. Me lo levai solo all’epoca del noviziato, quando ad ogni
sgarro poteva corrispondere da una settimana a due mesi di servaggio, una cosa
che proprio non mi andava giù, o punizioni decisamente peggiori, ed
umilianti. Insomma, se solo Nilyan fosse stata una testa calda come me, proprio
non avrei saputo che fare. Bisognava renderla responsabile ben presto. Tra me
ed Isnark, il mio nuovo, insospettabile amico, c fu un altro momento di
silenzio meditabondo. Chissà che cosa stava pensando. Io non lo guardavo
nemmeno, tutta presa a pensare al futuro dei marmocchi. Alla fine, si rivolse
di nuovo a me. Mi anticipò, ed io mi ritenni subito fortunata. Non so
come avrei fatto a descrivere ad Isnark la mai idea di
allontanare sua figlia per un po’ da Kyradon, dalle sue braccia. Sarebbe
stato capace di sgozzarmi. M’intimoriva ancora molto. “ho parlato
con i sacerdoti”. Disse, in un mormorio. Mi girai verso di lui,
incuriosita. Mi stava fissando, con un’aria che
m’insospettì. Sembrava cominciare a girare intorno ad una cosa,
per poi dirla. Sembrava volermi dire qualcosa, e, nello stesso tempo,
rifiutarsi di confidarmi quello che gli passava per la mente. Lo guardai, temo,
in un modo un po’ strano. Voleva qualcosa da me, ne ero certa, ma non
riuscivo a capire cosa. Le seguenti parole mi chiarirono di più la
situazione. “sono tutti dell’opinione che sarebbe più saggio
allontanare Nilyan per un po’ da Kyradon. Tu cosa ne pensi?”.
Ah…ora capivo! Dovetti reprimere a stento un sorrisetto. Bene. Mi ero
fatta tanti problemi per nulla. A quanto pareva, lui doveva essere arrivato
alle mie stesse conclusioni. O era una cosa ovvia, o davvero era l’unica
soluzione possibile al problema. Cercai di non dare a vedere che avevo capito.
Temo, in questo, di aver miseramente fallito. L’elfo mi guardò
alzando lievemente gli occhi al cielo. Gli risposi con una certa aria casuale,
guardando la chioma di un albero a caso. “già… Lainay
potrebbe ucciderla…non si sa mai”. Lui scosse un po’ il capo,
come per dirmi che aveva capito che avevo compreso il suo gioco, e sapevo
esattamente dove mi voleva portare. Arrossi lievemente, e non lo guardai
più. Oh. Ma non doveva essere altro che felice, lui, di avermi fatto
capire quello che voleva. Doveva essere contento di avere una Ch’argon così sveglia. Bah. A mio parere, solo gli dei devono sapere quanto stesse soffrendo in quel
momento ad affidarmi la sua piccola gemma. Beh...era necessario. A ben pensarci
se pure Nilyan avesse ereditato la propensione alla magia della madre, non
sarebbe riuscita ad utilizzarla almeno per i primi vent’anni di vita,
nemmeno involontariamente. Le capacità magiche, nei nostri piccoli, sono
completamente sopite fino a quell’età circa, per poi arrivare alla
massima potenza al raggiungimento della maturità. Insomma: era come
qualunque bambina umana, completamente inerme. Ci voleva qualcuno che la proteggesse almeno fino ai primi due o tre anni, anche se
quel qualcuno non era altro che una maga da strapazzo, buona solo in
semplicissimi trucchetti da Spia, e nient’altro, dalle dimensioni
microscopiche, un ragno scheletrico, con tutta la sua forza nella protettiva
buona volontà che si portava dietro. Davvero un’ottima guardia del
corpo. Eppure, Isnark doveva fidarsi di me più di mille sacerdoti, per
affidarmi quell’onere. Era davvero incredibile, e la cosa mi riempiva di
gratitudine. Se solo mi avessero detto che un giorno quell’elfo mi
avrebbe colmato di fiducia, beh, credo proprio che sarei scoppiata a ridere in
faccia al malcapitato interlocutore. Beh. Il mondo girava davvero come voleva.
Il sovrano di Uruk assunse la mia stessa aria, ben poco convincente.
Cominciammo, così, ad avviarci verso i nostri cavalli, che ci
aspettavano docili, legati ad un albero. “beh…il problema è
uno”. Disse, guardando in aria. Ma che bravo attore innocente. “dove
possiamo nasconderla?”. Oh, guarda. Proprio non mi ero accorta dove
voleva arrivare. Saltai su Nina con aria sicura. Se Isnark me lo chiedeva…ma proprio… l’avrei fatto, certo.
Decisi così, mentre il mio amico si sistemava sulla sua cavalcatura
grigia, di abbandonare ogni finzione. Mentre ci avviavamo a passo lento verso
il castello, tranquilli, inondati dalla calda luce del sole del primo
pomeriggio, nella quiete del bosco di Sharilar, parlai, seria, sottovoce, come
a non voler disturbare ciò che mi era attorno. “ci ho già
pensato”. Dissi, guardando stavolta fisso Isnark, che non rifuggì
il mio sguardo. “potrei portarla con me, a Sharilar…avevo
intenzione di trasferirmi lì da un po’”. Arrossii di nuovo,
lievemente. La mia idea era sempre stata quella, tornare nel luogo della mia
infanzia, per vivere le ultime gocce di pace dorata, da assaporare prima di
immergersi nuovamente nella vita tumultuosa. Dovevo solo sistemare un po’ la
casetta di Tijorn e poi tutto sarebbe andato al suo posto. Io lì ci ero
cresciuta. Non esisteva luogo più bello. Affrettai così a
spiegare la mia scelta, parlando rapidissima. “È vicino, a portata
di mano in caso di pericolo, ma sufficientemente tranquillo per un
bambino”. Isnark fece una smorfia. Sicuramente non doveva piacergli
l’idea di separarsi dall’ultimo pezzetto di Nemys sulla terra per
un po’. Ma era purtroppo necessario: era brutto, però, leggergli
negli occhi il dolore. Dovevo trovare una soluzione, una via di mezzo.
Sicuramente c’era. Non potevo privare il padre della figlia. “non è
una cattiva idea”. Quelle parole parvero uscirgli di forza dalla bocca,
come se le sputasse. Perlomeno, non sembrava avercela con me, affatto.
“io avrò comunque da fare. Bisogna organizzare le difese: Lainay
non starà per sempre a grattarsi la pancia”. Cosa purtroppo vera.
C’erano ancora altri regni da aggredire, da fagocitare. Tra di essi, Uruk. Il mio stesso essere Ch’argon mi
faceva annaspare come un passerotto in una trappola al solo pensiero. Il Regno
non era mai sazio. Erano state fatte promesse su promesse, era vero. Impossibile
sapere però quante e quali di esse fossero
vere. Mai fidarsi del serpente che dorme. Il problema è che eravamo in
una situazione difficile, per non dire drammatica. Avvolti, praticamente, nel
Regno neonato. Strozzati. Un minimo passo falso, e ci saremmo trovati le armate
degli Immortali a devastare la bianca Kyradon. Era un orrore pensare a
quell’eventualità. I regni umani erano troppo deboli, spauriti, o
lontani. I tempi non erano ancora maturi. “già…”.
Asserii, sospirando, malinconica. Era così ingiusto che quella pazza
avesse tutto. O non avevo fatto nulla di male, intenzionalmente, a qualcuno.
D’accordo. Ammazzare Chekaril era stata una mia iniziativa. Ma penso di
aver scontato abbastanza per quello, no? Perché accidenti a chi tutto ed
a chi niente? Il mondo è cieco. “ma ora come ora sarà
difficile. Dove trovare altri alleati? Nessuno ha il coraggio di mettersi
contro il trono di Galinne”. Conclusi, amara.
Lainay aveva i suo Cani, che la circondavano
dappertutto, fedeli. Aveva un figlio intoccabile. Noi eravamo disperati.
Combattevamo per un ideale ormai morto. E tutto questo, solo per sopravvivere.
Era squallida, quella lotta senza valori di fondo. E pure così
terribilmente vera. Nessuna guerra ha motivi di fondo. Solo
stupide mire economiche. Vite e vite, per soddisfare la sete di potere
di qualcuno, capace di trasformare i sogni sadici esistenti in tutti gli esseri
viventi in una terribile realtà. Eravamo stretti in una morsa terribile.
Come uscire da quella orribile situazione? Guardando Isnark, triste, mi accorsi
di una certa aria meditabonda. Chissà cosa stava pensando. Non lo so
ancora, né ho mai approfondito la questione. Non ne ho voglia. “se
serve, chiederemo anche aiuto alle leggende, Lsyn…”.
Sentenziò, solenne. Poi spronò il suo cavallo, in modo che non
potessimo più parlare.
Il mese
seguente fu tutto impegnato per rifinire il piano che avevamo costruito quel
pomeriggio. Impedendomi di mettere piede in un luogo dove i ricordi mi
avrebbero fatta annegare, Capouille, Benagi e Zipherias si accollarono la
responsabilità di mettere un po’ a posto la casa di Tijorn, che
non doveva essere altro che un rudere un po’ abbandonato, un focolaio
freddo, gelido, senza il sole che l’aveva illuminato. Non vollero
categoricamente farmi entrare, dicendo che mi sarei davvero distrutta, e che
non ce n’era bisogno. Li vedevo molto di rado, immersa
in una mole di lavoro che sembrava aumentare di giorno in giorno, ma ogni
incontro era sempre molto bello. Tra me ed Isnark, dal rapporto cordiale che si
era instaurato precedentemente, si andò a creare una certa confidenza,
per non dire complicità. Avevamo subito entrambi lo stesso dolore, e lui
si aggrappava a me per uscire dal baratro che il lutto gli aveva aperto sotto i
piedi. Cercava di vivere, sopravvivere per la sua principessina, ed ogni giorno
che passava sembrava cavarsela un po’ meglio. Non sentii mai più
dalla sua bocca il nome di Nemys, e lui si rifiutò di andare a dormire
nella loro camera, cambiando stanze, in un’altra ala del castello,
togliendo di mezzo ogni cosa che potesse anche solo
ricordargli vagamente l’amata, ma almeno sorrideva un po’
più spesso, senza quello sguardo perso nel vuoto, e si occupava alacre
dei suoi affari da sovrano, aiutata da una solerte Ch’argon. Dovevamo
ringraziare Nilyan, la piccola figlia, per quella ripresa veloce. Senza, penso
proprio che non ce l’avrebbe fatta. La piccola
diventava ogni momento più bella. Mi
assomigliava molto, identica per molti versi a Nemys, per altri al padre, ed
aveva una bella e liscia pelle olivastra, il colore di Isnark. Era una bambina
tranquilla, tutto il contrario di quella peste di Machin, il piccolo che aveva
imparato presto a darmi molte grane, che accettavo con entusiasmo. Piangeva proprio quando era altamente indispensabile. Se non altro,
proprio come il cugino, non stava mai nella culla. Di solito, quando io
arrivavo all’ora della pappa di Machin la
trovavo sempre o tra le braccia di Amarto, di Dae o di Wynet, tutti innamorati.
Il mio nipotino si era sentito un po’ trascurato in quell’ultimo periodo,
ed ogni volta che mi vedeva, strillava forte. Avevo imparato a prendere in
braccio e salutare sempre prima lui. Quando non lo facevo, mi tirava i capelli.
Era già geloso in maniera parossistica. Di me, solo di me. Lo trovavo
divertente. Metà della giornata la passavo così in mezzo ai
bambini, giocando con Chekaril, Roxen e le gemelle, addormentando Nilyan,
oppure battagliando aspramente per dare da mangiare alla peste, che ancora non
riusciva a capire la differenza tra cibo e gioco. L’altra metà
riempivo scartoffie o davo udienza con Isnark, una mansione seccante. Era una
fortuna che, per un po’, mi sarei assentata. Odiavo ascoltare lamentele
futili e varie, e dovevo anche essere gentile e giusta. Era sfiancante. Isnark era
sempre più diverso da quell’elfo ostile che mi aveva accolta,
ferita e disperata. Spesso, la sera, quando lui raggiungeva la figlia per stare
un po’ con lei, parlavamo dei vecchi tempi, ci raccontavamo cose e
storie. Lui era pazzo di Nilyan. Quelle volte che piangeva saltava
immediatamente su, preoccupato come se fosse una cosa mortale. Per fortuna, mia
principalmente, di Regis non rimasero altro che ricordi
dolci. Era per un certo verso un sollievo enorme. La vita continuava, placida. Nessuno
avrebbe mai saputo nulla. Beh. Tanto placida non fu. Io fui ad un soffio dal
cadere in un agguato, dal quale me ne uscii solo con lividi, graffi, ed un’intera
ciocca di capelli strappata via. Si trattava, quasi sicuramente, di Spie,
venute ad uccidermi. Peccato che furono uccise loro, da me in persona, che, per
fortuna, ancora so come si maneggia una spada, ed ancora so giocare sporco quando posso. Da allora nessuno mi ha più
torto un capello. Bizzarro. Decidemmo così la compagnia che, per tre
anni, si sarebbe dovuta eclissare da Kyradon. Io, ovviamente, I bambini tutti,
Amarto e Dae. Ogni tre giorni Isnark, molto contrariato, ci sarebbe venuto a
trovare, con una delle guardie preferite a rotazione. Venne così, un giorno
freddo d’inverno, in cui ancora non era caduta la neve, ma gli alberi
erano completamente spogli, in un tramonto nuvoloso, in cui tutto fu pronto. Zipherias
mi venne ad avvisare che la casa era pronta. Ci muovemmo, con un carro che
ancora è mio, un ronzino attaccato avanti,
pieno delle nostre povere cose, tutti abiti. Gli oggetti più pesanti
erano già stati portati via. Lasciai Kyradon quasi con gioia. Non vedevo
l’ora di cominciare la mia nuova vita. Nella luce rossa della sera,
guardai tutti, quelli che ci accompagnavano ed i miei futuri coinquilini. Nessuno
di questi ultimi era triste. Roxen era invece eccitatissima: gli avevo
descritto la casetta come un paradiso in mezzo al bosco. Non vedeva l’ora,
lei ed il fratello, che scendesse la neve. Io avevo
già dato loro via libera per i dintorni della casa, a patto che restassero sempre tutti insieme. Cicalava con un tranquillo,
pacificato Amarto, chiamandolo nonnino, un appellativo che gli piaceva da
impazzire. Io, a cavallo di Nina, ero un po’ nervosa. Non sapevo come
avrei reagito alla vista della casa della mia infanzia, che avevo lasciato quando ancora Tijorn era vivo, felice e vegeto. Zipherias,
che era quello pi di malumore di tutti insieme ad
Isnark, mi cavalcò vicino tutto il tempo, facendomi sentire la sua
vicinanza. Per poco, quando vidi la mia casa, non scoppiai in lacrime. Lasciai che
tutti andassero avanti, ed ammirai l’esterno. Non era cambiato nemmeno
una virgola. Era certo più grande, più spaziosa, perché avrebbe
dovuto ospitare una tribù, ma nulla era
cambiato dal giorno di primavera in cui me n’ero andata l’ultima
volta. Ero rimasta così ipnotizzata che mi ero quasi aspettata di vedere
uscire fuori un arrabbiato Tijorn, che mi diceva di farla finita con quei
piagnistei, e di venire per una buona volta dentro perché si stava
facendo tardi. Invece dalla porta emerse il timido Capouille, che mi
abbracciò dolcemente, trascinandomi dentro senza parlare. Vissi quella
sera come una sonnambula. Tutto era rimasto identico. Cambiava solo l’ordine
delle stanze. Quella mia era stata trasformata in quella di Chekaril e Roxen. Manolìa
e Nysha erano sempre al loro posto. Wynet, poverina, si sarebbe dovuta
stringere un po’, ma la cosa non le dispiaceva. Amarto e Dae erano
insieme. Facile prevederlo. Il Maestro non avrebbe mai superato l’oltraggio
e l’amore per Lainay, ma almeno quell’elfa gli faceva del bene ai
nervi. Il loro era una affetto davvero profondo, un’intesa
incredibile. La mia era quella di Tijorn. Non so perché vollero farmi
quel regalo. Quando lo seppi fui sul punto di sentirmi
male. Mio fratello mi avrebbe perseguitata, per sempre. Quella sera mi ritirai
senza mangiare, salutando tutti con un vago senso d’irrealtà. Zipherias
mi aveva abbracciata forte, Isnark mi aveva stretto
una spalla. Capouille aveva balbettato che era tutto diverso. Non m’importava.
Raggiunsi la mia camera trascinando i piedi. Quando aprii la porta, fui
assalita da un senso di sollievo, misto a dolore: più o meno era rimasto
tutto identico, ma ciò che caratterizzava Tijorn era scomparso. I suoi
abiti erano via, finiti chissà dove, quel quadro, la crosta che tanto
amava, sparita. Al suo posto, una carta incorniciata. Il letto era stato
spostato vicino al muro, per far posto alla scrivania ingombra già di
scartoffie varie. Ma fu guardando quella carta appesa che mi venne un groppo in
gola. Riconobbi immediatamente la lettera che mio fratello, il mio stupidone,
mi aveva scritto prima di morire, prima che scappassimo così
avventatamente. Mi sedetti sul letto con le lacrime che scorrevano
silenziosamente. I ricordi, tanti ricordi, mi assalirono in un attimo. E mi
sentii persa. La mia luminosa infanzia, e quello che ero ora. Così brutto,
così orribile. Mi rannicchiai così sul letto, sospirando. Mi avvolse
un bel profumo, di lavanda e ginestre. Quel profumo mi avvolse, come un
abbraccio. Ed io mi sentii consolata. Tijorn usava quella mistura per
allontanare le tarme. Quello,
stranamente, mi diede la voglia di continuare a lottare. In fondo, la vita continuava,
che io lo volessi o no.“sono tornata”. Dissi, ad alta voce. Il mio gracchiare di
corvo fendette il silenzio. E mi risposero i rumori allegri che venivano di
là, dove i bambini giocavano. Sorrisi debolmente. Avevo, perlomeno,
qualcosa da fare. La mattina dopo avrei avuto un gran daffare. Avevo i miei
amici, i miei affetti. Potevo tentare di raccogliere le macerie della mia vita.
Forse ne sarebbe uscito qualcosa di buono. Così, affondata tra le
coperte ed il cuscino, mi addormentai, cullata da quel profumo familiare. Quello
era il primo giorno della mia vita.