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Autore: Akita    05/02/2009    1 recensioni
Storia in fase di profonda revisione ed aggiornamento
Lsyn è una Spia, legata al suo regno fino alla morte da un vincolo d'obbedienza più forte di ogni cosa. Un orribile incidente le ha stravolto la vita. Per cinquant'anni, allora, vaga, alla ricerca del Principe. La sua redenzione. O forse la sua rovina. Perchè il compimento del suo destino di avvicina. Lei però non lo sa. [...]Da quel momento in poi, mi sarei giocata la vita. Beh, non che m'importasse molto. La mia esistenza si era svolta sempre così, perennemente a contatto con la morte, giocandoci come con una vecchia amica venuta a prendere il tè. Che cosa buffa. Vivere, per prepararsi a morire. Lo fanno tutti, o è il destino di ogni Spia?[...]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Memorie dei Rinnegati.'
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Ci apprestammo, a tornare, io ed Isnark, nel silenzio tombale che si era andato a creare dopo che Regis era scomparso, se n’era andato, facendo tornare tutto a quella normalità che tutto era tranne che normale, avviandoci di malavoglia verso i cavalli

T___________T

Il prossimo capitolo, beh, mi duole dirlo…

FINIRO’!!

xD

il prossimo sarà l’epilogo, perciò la storia in sé per sé finisce qui.

Ma attenti, perché ci sarà un seguito…e lì Lsyn ne vedrà delle belle xD preparatevi a ricevere altre mazzate con il, chiamiamolo “libro secondo” xD xD

Vi saluto tutti, e vi dico di non perdervi la prossima puntata xD

Nel prossimo capitolo provvederò a ringraziarvi per il vostro supporto, ma ora vi dono un bacio =*

Alla prossima!

Akita

 

 

Ci apprestammo, a tornare, io ed Isnark, nel silenzio tombale che si era andato a creare dopo che Regis era scomparso, se n’era andato, facendo tornare tutto a quella normalità che tutto era tranne che normale, avviandoci di malavoglia verso i cavalli. Io stringevo ancora in mano quello strano anello istoriato, mantenuto da quella semplice catenina, e mi sentivo quasi stordita. Era strano, quasi fantastico, quello che era accaduto in quei giorni convulsi. Di nuovo, la mia vita aveva subito un cambiamento drastico, in così poco tempo. Di nuovo, qualcuno a cui tenevo molto mi aveva lascito. Nemys se n’era andata, l’ultima mia ancora. La parte più pura di me era volata via, lasciandomi definitivamente sola. Dovevo ancora metabolizzare la cosa, pensare che non ci sarebbe stato mai più nessuno a guidarmi, ma che sarei stata io a dover guidare, senza spalle forti dietro. Avrei dovuto imparare ad usare le ali che mi erano state donate senza più sostegno. Non capivo ancora come fare, non lo nego. Né, tra l’altro, ancora l’ho capito. Come posso vivere una vita autonoma quando non mi è mai stato insegnato come si fa? Sono sempre stata di altri. Ombra, Nanetta, anche Mostro, Ch’argon. Mai Lsyn, mai di me stessa, in una vita tranquilla in cui tutti mi temevano e nessuno poteva osare mettermi i piedi in testa. Fondamentalmente, ero sempre esistita in virtù di una sfida ben più grande di me. Non so ancora vivere nella banale quotidianità, non so ancora rapportarmi in maniera sana con le persone, una nobile improvvisamente declassata al rango di contadina, non so ancora come non sprofondare nella vergogna tutte le volte che gli sguardi si posano sul mio viso disfatto, i mormorii pietosi che mi fanno andare su tutte le furie. Non riesco ancora a vivere, e tutto quello che riesco a fare è crescere dei piccoli in modo che siano autonomi ed indipendenti, mai plagiati da qualcuno più grande di loro, più potente, com’era successo a me. Su questo, sono intransigente. Quando Isnark mi parla di cominciare ad insegnare a Nilyan i precetti del governo, dando maggior importanza ad essi che magari ad altre cose, gli vorrei staccare la testa. Spesso gli rispondo che se vuole un re se lo va a cercare, e che non deve plagiare qualcuno che deve crescere sano e protetto. Ripetono sempre che quello che sto facendo ha davvero del bello, che davvero sono cambiata, nel meglio. Ma io non riesco a vedere questi cambiamenti. Sono ancora ossessionata, ossessionata da quel passato che non vuole saperne di andare via, di svanire una volta e per tutte, di farsi meno doloroso. Ancora, ad intervalli ora radi, ora fitti, mi vengono a visitare gli incubi più orribili. Sogno Chekaril, Tijorn, tutti i miei errori, tutte le mie perdite, né riuscirò mai a guarire quelle ferite che solcano il mio animo, numerose quanto quelle che mi sfigurano. Però cerco di non darlo a vedere. Mi sono rassegnata alla mia vita, rinunciando all’ambizione di brillare ad ogni costo, rinunciando al mio orgoglio, piegandomi docile al destino, una canna palustre al vento. Eppure, devo e dovevo vivere. Anche solo per chi è morto per farmi questo regalo. Anche solo per dispetto nei confronti di Lainay. Eppure, non mi farò vedere mai più ad una cerimonia a volto scoperto, né cercherò di legarmi a qualcuno che non siano i piccoli. Ho rinunciato alla maschera, ho rinunciato ad isolarmi completamente dalla vita, ma metto sempre una certa distanza tra essa e me. In fondo, ho sempre vissuto la bellezza di cinquant’anni in perfetta solitudine, no? Non mi sento pronta a vivere di nuovo, ad aprire gli occhi. Forse un giorno troverò la forza, forse no, affossandomi in un’esistenza senza vita, un’esistenza spesa solo per far vivere gli altri, tenere il proprio mantello affinché gli altri lo possano usare come tappeto per non sporcarsi i piedi. Eppure, quell’umano mi ha donato una speranza che ancora perdura. Mi ha fatto capire che sono ancora un essere senziente, che provo emozioni, che posso essere anche felice. Per quanto la gioia sia sempre funestata dalla tristezza, per quanto non esista mai una vera felicità, essere serena, per me, è possibile. Si tratta solo di me, ora, solo ed esclusivamente di me. Raggiungere una calma interiore, in quel mare che è ora in tempesta, potervi tornare a navigare con il vento in poppa. Questo pensiero mi fa sempre sentire vicina all’obiettivo, e, nello stesso tempo, diametralmente all’opposto di esso. Vedo la gioia vicinissima, e lontana come l’orizzonte. La vedo come una chimera vivente. Ho l’impressione che essa sia nascosta dietro un velo, e che basti un solo passo per sollevarlo e raggiungerlo. Eppure, ci sono ancora delle catene che bloccano le mie ali. Qualcosa non è mai morto, e lo stesso rimorso m’impedisce di essere felice, lo stesso senso di colpa. In quel momento, in quel bel pomeriggio caldo, in cui, assonnata, osservavo quelle rovine ormai vuote, mi sentivo così. Avvertivo la pace vicina, a portata della mia mano, ma non riuscivo a raggiungerla. Non riuscivo a rendere reale la lezione che Regis mi aveva dato. Non riuscivo a trasformare in sorrisi la speranza. E poi avevo troppo da fare. I bambini mi avrebbero aspettato per la notte, perché io li facessi addormentare, e dovevo riposarmi, se non volevo crollare prima di loro. Machin sicuramente stava ancora un po’ male per il dente, povero piccolo. Così, io fui la prima a scrollarmi, a muovermi. Guardai brevemente il monile che Regis mi aveva lasciato, incuriosita, facendolo scintillare alla luce del sole. Poi lo misi in tasca. Non l’avrei indossato fino a quando il  mistero sulla sua origine non si fosse chiarito. Chi era quella persona cara di cui mi aveva accennato? Che c’entrava, poi, quel villaggio dal nome così strano, sperduto chissà in quel buco montano? Cosa significava quell’anello? Non ne avevo la minima idea. Certamente, non avevo mai visto qualcuno con indosso un gioiello del genere. Un oggettino delicato, argenteo, di fattura più che elfica. Avevo visto cose simili a Galinne, ma più ci pensavo, meno la cosa mi convinceva. Non aveva senso. Io non conoscevo nessuno di Galinne. Mi risvegliò dai miei pensieri Isnark, ancora vagamente stordito. “dovremmo andare”. Io annuii. Nilyan era rimasta scoperta per troppo tempo. Era pericoloso: Lainay poteva approfittarsi di quel momento in cui Uruk era relativamente debole per attentare alla vita della giovane principessa, della minuscola principessa. Sangue di Rinnegato o no, era nata da poche ore, e certamente non poteva ammazzare le eventuali Spie a colpi di magia, cosa ridicola da pensare. Una neonata non è così difficile da uccidere, benché io l’avessi affidata nelle mani di Dae e di Amarto, che controllava come un cane da caccia benché fosse cieco, e da Zipherias. D’accordo che l’ultima persona era stata lievemente minacciata, perché se solo fosse successo qualcosa anche di minimo alla mia nipotina gli avrei cavato gli occhi dalle orbite con le mie mani, ma la cosa aveva lo stesso senso. Eravamo quindi in una situazione parecchio destabilizzante in potenza. Era quasi ora di parlare ad Isnark del mio piano. Magari sarebbe stata solo una soluzione momentanea, ma efficace. Quando era sola con me, potevo mettere una mano sul fuoco che sarebbe stata protetta da tutte le Spie. Non le avrei permesso di allontanarsi nel bosco di più di qualche metro. Sarei stata peggio di qualcosa di una mamma chioccia. Sperai solo che non ereditasse la mia natura. Di solito, da piccola, quando Amarto mi diceva di non fare qualcosa, di solito era quella la prima cosa che facevo. Alla fine nemmeno le bastonate servirono per correggere questo piccolo vizio. Me lo levai solo all’epoca del noviziato, quando ad ogni sgarro poteva corrispondere da una settimana a due mesi di servaggio, una cosa che proprio non mi andava giù, o punizioni decisamente peggiori, ed umilianti. Insomma, se solo Nilyan fosse stata una testa calda come me, proprio non avrei saputo che fare. Bisognava renderla responsabile ben presto. Tra me ed Isnark, il mio nuovo, insospettabile amico, c fu un altro momento di silenzio meditabondo. Chissà che cosa stava pensando. Io non lo guardavo nemmeno, tutta presa a pensare al futuro dei marmocchi. Alla fine, si rivolse di nuovo a me. Mi anticipò, ed io mi ritenni subito fortunata. Non so come avrei fatto a descrivere ad Isnark la mai idea di allontanare sua figlia per un po’ da Kyradon, dalle sue braccia. Sarebbe stato capace di sgozzarmi. M’intimoriva ancora molto. “ho parlato con i sacerdoti”. Disse, in un mormorio. Mi girai verso di lui, incuriosita. Mi stava fissando, con un’aria che m’insospettì. Sembrava cominciare a girare intorno ad una cosa, per poi dirla. Sembrava volermi dire qualcosa, e, nello stesso tempo, rifiutarsi di confidarmi quello che gli passava per la mente. Lo guardai, temo, in un modo un po’ strano. Voleva qualcosa da me, ne ero certa, ma non riuscivo a capire cosa. Le seguenti parole mi chiarirono di più la situazione. “sono tutti dell’opinione che sarebbe più saggio allontanare Nilyan per un po’ da Kyradon. Tu cosa ne pensi?”. Ah…ora capivo! Dovetti reprimere a stento un sorrisetto. Bene. Mi ero fatta tanti problemi per nulla. A quanto pareva, lui doveva essere arrivato alle mie stesse conclusioni. O era una cosa ovvia, o davvero era l’unica soluzione possibile al problema. Cercai di non dare a vedere che avevo capito. Temo, in questo, di aver miseramente fallito. L’elfo mi guardò alzando lievemente gli occhi al cielo. Gli risposi con una certa aria casuale, guardando la chioma di un albero a caso. “già… Lainay potrebbe ucciderla…non si sa mai”. Lui scosse un po’ il capo, come per dirmi che aveva capito che avevo compreso il suo gioco, e sapevo esattamente dove mi voleva portare. Arrossi lievemente, e non lo guardai più. Oh. Ma non doveva essere altro che felice, lui, di avermi fatto capire quello che voleva. Doveva essere contento di avere una Ch’argon così sveglia. Bah. A mio parere, solo gli dei devono sapere quanto stesse soffrendo in quel momento ad affidarmi la sua piccola gemma. Beh...era necessario. A ben pensarci se pure Nilyan avesse ereditato la propensione alla magia della madre, non sarebbe riuscita ad utilizzarla almeno per i primi vent’anni di vita, nemmeno involontariamente. Le capacità magiche, nei nostri piccoli,  sono completamente sopite fino a quell’età circa, per poi arrivare alla massima potenza al raggiungimento della maturità. Insomma: era come qualunque bambina umana, completamente inerme. Ci voleva qualcuno che la proteggesse almeno fino ai primi due o tre anni, anche se quel qualcuno non era altro che una maga da strapazzo, buona solo in semplicissimi trucchetti da Spia, e nient’altro, dalle dimensioni microscopiche, un ragno scheletrico, con tutta la sua forza nella protettiva buona volontà che si portava dietro. Davvero un’ottima guardia del corpo. Eppure, Isnark doveva fidarsi di me più di mille sacerdoti, per affidarmi quell’onere. Era davvero incredibile, e la cosa mi riempiva di gratitudine. Se solo mi avessero detto che un giorno quell’elfo mi avrebbe colmato di fiducia, beh, credo proprio che sarei scoppiata a ridere in faccia al malcapitato interlocutore. Beh. Il mondo girava davvero come voleva. Il sovrano di Uruk assunse la mia stessa aria, ben poco convincente. Cominciammo, così, ad avviarci verso i nostri cavalli, che ci aspettavano docili, legati ad un albero. “beh…il problema è uno”. Disse, guardando in aria. Ma che bravo attore innocente. “dove possiamo nasconderla?”. Oh, guarda. Proprio non mi ero accorta dove voleva arrivare. Saltai su Nina con aria sicura. Se Isnark me lo chiedeva…ma proprio… l’avrei fatto, certo. Decisi così, mentre il mio amico si sistemava sulla sua cavalcatura grigia, di abbandonare ogni finzione. Mentre ci avviavamo a passo lento verso il castello, tranquilli, inondati dalla calda luce del sole del primo pomeriggio, nella quiete del bosco di Sharilar, parlai, seria, sottovoce, come a non voler disturbare ciò che mi era attorno. “ci ho già pensato”. Dissi, guardando stavolta fisso Isnark, che non rifuggì il mio sguardo. “potrei portarla con me, a Sharilar…avevo intenzione di trasferirmi lì da un po’”. Arrossii di nuovo, lievemente. La mia idea era sempre stata quella, tornare nel luogo della mia infanzia, per vivere le ultime gocce di pace dorata, da assaporare prima di immergersi nuovamente nella vita tumultuosa.  Dovevo solo sistemare un po’ la casetta di Tijorn e poi tutto sarebbe andato al suo posto. Io lì ci ero cresciuta. Non esisteva luogo più bello. Affrettai così a spiegare la mia scelta, parlando rapidissima. “È vicino, a portata di mano in caso di pericolo, ma sufficientemente tranquillo per un bambino”. Isnark fece una smorfia. Sicuramente non doveva piacergli l’idea di separarsi dall’ultimo pezzetto di Nemys sulla terra per un po’. Ma era purtroppo necessario: era brutto, però, leggergli negli occhi il dolore. Dovevo trovare una soluzione, una via di mezzo. Sicuramente c’era. Non potevo privare il padre della figlia. “non è una cattiva idea”. Quelle parole parvero uscirgli di forza dalla bocca, come se le sputasse. Perlomeno, non sembrava avercela con me, affatto. “io avrò comunque da fare. Bisogna organizzare le difese: Lainay non starà per sempre a grattarsi la pancia”. Cosa purtroppo vera. C’erano ancora altri regni da aggredire, da fagocitare. Tra di essi, Uruk. Il mio stesso essere Ch’argon mi faceva annaspare come un passerotto in una trappola al solo pensiero. Il Regno non era mai sazio. Erano state fatte promesse su promesse, era vero. Impossibile sapere però quante e quali di esse fossero vere. Mai fidarsi del serpente che dorme. Il problema è che eravamo in una situazione difficile, per non dire drammatica. Avvolti, praticamente, nel Regno neonato. Strozzati. Un minimo passo falso, e ci saremmo trovati le armate degli Immortali a devastare la bianca Kyradon. Era un orrore pensare a quell’eventualità. I regni umani erano troppo deboli, spauriti, o lontani. I tempi non erano ancora maturi. “già…”. Asserii, sospirando, malinconica. Era così ingiusto che quella pazza avesse tutto. O non avevo fatto nulla di male, intenzionalmente, a qualcuno. D’accordo. Ammazzare Chekaril era stata una mia iniziativa. Ma penso di aver scontato abbastanza per quello, no? Perché accidenti a chi tutto ed a chi niente? Il mondo è cieco. “ma ora come ora sarà difficile. Dove trovare altri alleati? Nessuno ha il coraggio di mettersi contro il trono di Galinne”. Conclusi, amara. Lainay aveva i suo Cani, che la circondavano dappertutto, fedeli. Aveva un figlio intoccabile. Noi eravamo disperati. Combattevamo per un ideale ormai morto. E tutto questo, solo per sopravvivere. Era squallida, quella lotta senza valori di fondo. E pure così terribilmente vera. Nessuna guerra ha motivi di fondo. Solo stupide mire economiche. Vite e vite, per soddisfare la sete di potere di qualcuno, capace di trasformare i sogni sadici esistenti in tutti gli esseri viventi in una terribile realtà. Eravamo stretti in una morsa terribile. Come uscire da quella orribile situazione? Guardando Isnark, triste, mi accorsi di una certa aria meditabonda. Chissà cosa stava pensando. Non lo so ancora, né ho mai approfondito la questione. Non ne ho voglia. “se serve, chiederemo anche aiuto alle leggende, Lsyn…”. Sentenziò, solenne. Poi spronò il suo cavallo, in modo che non potessimo più parlare.

 

Il mese seguente fu tutto impegnato per rifinire il piano che avevamo costruito quel pomeriggio. Impedendomi di mettere piede in un luogo dove i ricordi mi avrebbero fatta annegare, Capouille, Benagi e Zipherias si accollarono la responsabilità di mettere un po’ a posto la casa di Tijorn, che non doveva essere altro che un rudere un po’ abbandonato, un focolaio freddo, gelido, senza il sole che l’aveva illuminato. Non vollero categoricamente farmi entrare, dicendo che mi sarei davvero distrutta, e che non ce n’era bisogno. Li vedevo molto di rado, immersa in una mole di lavoro che sembrava aumentare di giorno in giorno, ma ogni incontro era sempre molto bello. Tra me ed Isnark, dal rapporto cordiale che si era instaurato precedentemente, si andò a creare una certa confidenza, per non dire complicità. Avevamo subito entrambi lo stesso dolore, e lui si aggrappava a me per uscire dal baratro che il lutto gli aveva aperto sotto i piedi. Cercava di vivere, sopravvivere per la sua principessina, ed ogni giorno che passava sembrava cavarsela un po’ meglio. Non sentii mai più dalla sua bocca il nome di Nemys, e lui si rifiutò di andare a dormire nella loro camera, cambiando stanze, in un’altra ala del castello, togliendo di mezzo ogni cosa che potesse anche solo ricordargli vagamente l’amata, ma almeno sorrideva un po’ più spesso, senza quello sguardo perso nel vuoto, e si occupava alacre dei suoi affari da sovrano, aiutata da una solerte Ch’argon. Dovevamo ringraziare Nilyan, la piccola figlia, per quella ripresa veloce. Senza, penso proprio che non ce l’avrebbe fatta. La piccola diventava ogni momento più bella. Mi assomigliava molto, identica per molti versi a Nemys, per altri al padre, ed aveva una bella e liscia pelle olivastra, il colore di Isnark. Era una bambina tranquilla, tutto il contrario di quella peste di Machin, il piccolo che aveva imparato presto a darmi molte grane, che accettavo con entusiasmo. Piangeva proprio quando era altamente indispensabile. Se non altro, proprio come il cugino, non stava mai nella culla. Di solito, quando io arrivavo all’ora della pappa di Machin la trovavo sempre o tra le braccia di Amarto, di Dae o di Wynet, tutti innamorati. Il mio nipotino si era sentito un po’ trascurato in quell’ultimo periodo, ed ogni volta che mi vedeva, strillava forte. Avevo imparato a prendere in braccio e salutare sempre prima lui. Quando non lo facevo, mi tirava i capelli. Era già geloso in maniera parossistica. Di me, solo di me. Lo trovavo divertente. Metà della giornata la passavo così in mezzo ai bambini, giocando con Chekaril, Roxen e le gemelle, addormentando Nilyan, oppure battagliando aspramente per dare da mangiare alla peste, che ancora non riusciva a capire la differenza tra cibo e gioco. L’altra metà riempivo scartoffie o davo udienza con Isnark, una mansione seccante. Era una fortuna che, per un po’, mi sarei assentata. Odiavo ascoltare lamentele futili e varie, e dovevo anche essere gentile e giusta. Era sfiancante. Isnark era sempre più diverso da quell’elfo ostile che mi aveva accolta, ferita e disperata. Spesso, la sera, quando lui raggiungeva la figlia per stare un po’ con lei, parlavamo dei vecchi tempi, ci raccontavamo cose e storie. Lui era pazzo di Nilyan. Quelle volte che piangeva saltava immediatamente su, preoccupato come se fosse una cosa mortale. Per fortuna, mia principalmente, di Regis non rimasero altro che ricordi dolci. Era per un certo verso un sollievo enorme. La vita continuava, placida. Nessuno avrebbe mai saputo nulla. Beh. Tanto placida non fu. Io fui ad un soffio dal cadere in un agguato, dal quale me ne uscii solo con lividi, graffi, ed un’intera ciocca di capelli strappata via. Si trattava, quasi sicuramente, di Spie, venute ad uccidermi. Peccato che furono uccise loro, da me in persona, che, per fortuna, ancora so come si maneggia una spada, ed ancora so giocare sporco quando posso. Da allora nessuno mi ha più torto un capello. Bizzarro. Decidemmo così la compagnia che, per tre anni, si sarebbe dovuta eclissare da Kyradon. Io, ovviamente, I bambini tutti, Amarto e Dae. Ogni tre giorni Isnark, molto contrariato, ci sarebbe venuto a trovare, con una delle guardie preferite a rotazione. Venne così, un giorno freddo d’inverno, in cui ancora non era caduta la neve, ma gli alberi erano completamente spogli, in un tramonto nuvoloso, in cui tutto fu pronto. Zipherias mi venne ad avvisare che la casa era pronta. Ci muovemmo, con un carro che ancora è mio, un ronzino attaccato avanti, pieno delle nostre povere cose, tutti abiti. Gli oggetti più pesanti erano già stati portati via. Lasciai Kyradon quasi con gioia. Non vedevo l’ora di cominciare la mia nuova vita. Nella luce rossa della sera, guardai tutti, quelli che ci accompagnavano ed i miei futuri coinquilini. Nessuno di questi ultimi era triste. Roxen era invece eccitatissima: gli avevo descritto la casetta come un paradiso in mezzo al bosco. Non vedeva l’ora, lei ed il fratello, che scendesse la neve. Io avevo già dato loro via libera per i dintorni della casa, a patto che restassero sempre tutti insieme. Cicalava con un tranquillo, pacificato Amarto, chiamandolo nonnino, un appellativo che gli piaceva da impazzire. Io, a cavallo di Nina, ero un po’ nervosa. Non sapevo come avrei reagito alla vista della casa della mia infanzia, che avevo lasciato quando ancora Tijorn era vivo, felice e vegeto. Zipherias, che era quello pi di malumore di tutti insieme ad Isnark, mi cavalcò vicino tutto il tempo, facendomi sentire la sua vicinanza. Per poco, quando vidi la mia casa, non scoppiai in lacrime. Lasciai che tutti andassero avanti, ed ammirai l’esterno. Non era cambiato nemmeno una virgola. Era certo più grande, più spaziosa, perché avrebbe dovuto ospitare una tribù, ma nulla era cambiato dal giorno di primavera in cui me n’ero andata l’ultima volta. Ero rimasta così ipnotizzata che mi ero quasi aspettata di vedere uscire fuori un arrabbiato Tijorn, che mi diceva di farla finita con quei piagnistei, e di venire per una buona volta dentro perché si stava facendo tardi. Invece dalla porta emerse il timido Capouille, che mi abbracciò dolcemente, trascinandomi dentro senza parlare. Vissi quella sera come una sonnambula. Tutto era rimasto identico. Cambiava solo l’ordine delle stanze. Quella mia era stata trasformata in quella di Chekaril e Roxen. Manolìa e Nysha erano sempre al loro posto. Wynet, poverina, si sarebbe dovuta stringere un po’, ma la cosa non le dispiaceva. Amarto e Dae erano insieme. Facile prevederlo. Il Maestro non avrebbe mai superato l’oltraggio e l’amore per Lainay, ma almeno quell’elfa gli faceva del bene ai nervi. Il loro era una affetto davvero profondo, un’intesa incredibile. La mia era quella di Tijorn. Non so perché vollero farmi quel regalo. Quando lo seppi fui sul punto di sentirmi male. Mio fratello mi avrebbe perseguitata, per sempre. Quella sera mi ritirai senza mangiare, salutando tutti con un vago senso d’irrealtà. Zipherias mi aveva abbracciata forte, Isnark mi aveva stretto una spalla. Capouille aveva balbettato che era tutto diverso. Non m’importava. Raggiunsi la mia camera trascinando i piedi. Quando aprii la porta, fui assalita da un senso di sollievo, misto a dolore: più o meno era rimasto tutto identico, ma ciò che caratterizzava Tijorn era scomparso. I suoi abiti erano via, finiti chissà dove, quel quadro, la crosta che tanto amava, sparita. Al suo posto, una carta incorniciata. Il letto era stato spostato vicino al muro, per far posto alla scrivania ingombra già di scartoffie varie. Ma fu guardando quella carta appesa che mi venne un groppo in gola. Riconobbi immediatamente la lettera che mio fratello, il mio stupidone, mi aveva scritto prima di morire, prima che scappassimo così avventatamente. Mi sedetti sul letto con le lacrime che scorrevano silenziosamente. I ricordi, tanti ricordi, mi assalirono in un attimo. E mi sentii persa. La mia luminosa infanzia, e quello che ero ora. Così brutto, così orribile. Mi rannicchiai così sul letto, sospirando. Mi avvolse un bel profumo, di lavanda e ginestre. Quel profumo mi avvolse, come un abbraccio. Ed io mi sentii consolata. Tijorn usava quella mistura per allontanare le tarme.  Quello, stranamente, mi diede la voglia di continuare a lottare. In fondo, la vita continuava, che io lo volessi o no.“sono tornata”.  Dissi, ad alta voce. Il mio gracchiare di corvo fendette il silenzio. E mi risposero i rumori allegri che venivano di là, dove i bambini giocavano. Sorrisi debolmente. Avevo, perlomeno, qualcosa da fare. La mattina dopo avrei avuto un gran daffare. Avevo i miei amici, i miei affetti. Potevo tentare di raccogliere le macerie della mia vita. Forse ne sarebbe uscito qualcosa di buono. Così, affondata tra le coperte ed il cuscino, mi addormentai, cullata da quel profumo familiare. Quello era il primo giorno della mia vita.

  
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