Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |       
Autore: MartinaAnna    03/09/2015    1 recensioni
Partecipa al contest "21 prompt in cerca d'autore".
“Lei si tiene a lui per non crollare del tutto. E lui cerca di andare avanti sostenendo entrambi. E’ così che le dimostra che senza di lei non può vivere. E se lei non lo capisse, penserei che sia un po’ stupida”.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Nome sul forum: MartinaAnna
Nome su efp: MartinaAnna 
Prompt: 16- The Lovers, Brent Heighton
Titolo: “The Lovers”
Genere e rating: Introspettivo, Generale/ verde
Lunghezza storia: 3 minicapitoli, parole:7.239
Eventuali note: tutti i riferimenti a fatti o persone realmente esistenti all’interno di questa storia non sono assolutamente da considerarsi casuali.
 
 
 
1.
Se era arrabbiata? Sì, e molto. Come avrebbe potuto non esserlo? L’aveva messa da parte senza troppe cerimonie, si era sentita quasi usata, come se fosse l’ultima spiaggia, come se fosse un ripiego. L’aveva prima scrostata dal fango e poi l’aveva insabbiata. Nascosta, messa lì, che c’era- lei c’era perché voleva esserci, e sarebbe rimasta- ma c’era solo per bellezza, solo per esserci, non gli importava davvero di lei.
 
Haileen le aveva detto che avrebbe dovuto sentirsi così. Che era certa si sentisse così, ma non voleva ammetterlo. E allora Allen ci aveva provato, a sentirsi così. Arrabbiata. Con lui. Con l’unica persona che non meritava tutta quella rabbia. Lo aveva capito subito dopo avergli urlato contro cose orribili, cose che non pensava, cose che non riusciva nemmeno a credere fossero uscite dalla sua bocca e con la sua voce. Haileen si era sbagliata: non era con lui che ce l’aveva a morte. Era con se stessa.
Perché non ne poteva di più di sentirsi sempre di troppo, sempre fuori luogo se lui non c’era. Non ne poteva più di scoprirsi sempre diversa col passare del tempo; non ne poteva più di quella malsana sensazione che aveva quando, appena sveglia la mattina, si sentiva immediatamente fuori dal mondo. E lui lo sapeva, sapeva perfettamente di stare con una persona irrisolta, con una persona che aveva continuo bisogno di appoggio. Lo sapeva. E stava cercando di aiutarla. Allen lo capiva, lo sentiva dentro. Che quel suo modo di essere, di fare, era solo per aiutarla a crescere.
Mi dispiace, si disse tra sé e sé mentre svoltava a destra e un tuono cominciava a rimbombare in lontananza. Mi dispiace, ribadì. Non sapeva nemmeno a chi stesse parlando. Sapeva solo, con quella leggera nota di malinconia che ormai le si era incastrata tra le costole e risuonava ogni volta che respirava, che lo amava.
Lo amava ed era l’unica cosa che le permetteva di restare ancora in piedi.
Qualche goccia era già cominciata a scendere dal cielo quando Allen decise che non era il caso di bagnarsi, che faceva già abbastanza freddo così e che l’odore che proveniva da quel Cafè sull’altro lato della strada, quello proprio vicino all’angolo dell’incrocio, era decisamente invitante. Lanciando uno sguardo a destra e uno a sinistra, si affrettò ad attraversare la carreggiata e si ritrovò proprio di fronte all’entrata nel momento in cui il cielo aveva deciso di cominciare a piangere sul serio. Aprì la porta e si scrollò le spalle, un po’ per liberarsi del peso degli eventi, un po’ perché le era caduta dell’acqua gelata sul collo.
Il locale era piccolo, ma accogliente. A sinistra, un lungo bancone da bar metteva a disposizione dell’acquolina (per la gioia del suo stomaco che brontolava nonostante la tensione) una lunga fila di dolci, biscotti e torte varie; un assortimento tale da far ingrassare chiunque anche solo a guardarlo. Dietro, un ragazzo dagli occhi dolci e dai modi gentili puliva una macchinetta per il caffè logora- speriamo dal tempo e non dallo sporco. A destra, e nel complesso un po’ sparsi per la piccola sala, c’erano una serie di tavolini rotondi di legno scuro, contornati da qualche sedia e qualche divanetto di velluto rosso. In tutto, un solo cliente. L’ala destra del Cafè dava sulla via perpendicolare a quella da cui proveniva Allen e non era altro che un’enorme vetrata. Aldilà, le macchine passavano, la vita scorreva, la gente camminava. Tutti ignari del caos che regnava dentro di lei, nel silenzio del posto.
Andò a sedersi al tavolino più remoto che potesse trovare, con l’ingresso dietro la schiena e il vetro alla sua destra. Il giovane dagli occhi dolci le si avvicinò con cautela, come se percepisse un’aura di agitazione attorno alla ragazza e non volesse disturbarla- o, più probabilmente, temesse un’esplosione, ché si sa come sono le ragazze. Acide e riottose.
- Aspetta qualcuno?-. Allen lo osservò per un millesimo di secondo in più prima di capire che sì, si stava riferendo proprio a lei. Nei suoi diciannove anni suonati, ancora stentava a realizzare quando le si rivolgevano con il lei di cortesia.
Avrebbe voluto rispondere di no. Che non aspettava nessuno. Avrebbe voluto rispondere che era tutta la vita, breve, ma tutta, che aspettava, che si era stancata di quella parola, di un’attesa sfiancante che non aveva mai portato a nulla. E che nell’esatto momento in cui aveva smesso di aspettare, nel momento in cui aveva deciso di dimenticarsi di se stessa, qualcuno aveva bussato in punta di piedi alla sua porta e lei lo aveva lasciato entrare. E questa, solamente questa!, era la cosa su cui non avrebbe mai avuto rimpianti.
- Non lo so- rispose invece, rendendosi conto subito di quanto assurda fosse come risposta alla domanda: aspetta qualcuno? Eppure, la sua speranza era che, stavolta, stava aspettando, sì, ma sapendo perfettamente chi.
Il ragazzo dagli occhi dolci fece un sorrisino che lasciava intendere qualcosa come: questa qui ha bisogno di una camomilla. Allen si affrettò a rimediare:
- Nel senso… non so se verrà. Forse ho… sbagliato posto. Insomma, con questa pioggia, magari dovevo girare dall’altra par…-.
- Ho capito. Ripasso?- domandò lui. Nessun accenno di sarcasmo, nessuna risatina isterica. Era serio. Allen annuì. Non riuscì a dire altro, mentre la sua testa balzava rovinosamente sotto terra pensando: vorrei sparire. Era tipico delle persone impacciate ficcarsi in situazioni imbarazzanti da cui più tentavano di uscire più s’impantanavano o era una sua prerogativa?
Iniziò a guardarsi intorno per cercare di tenere occupata la mente. Il quadro che aveva davanti, quello sulla parete frontale rispetto all’entrata, era di una bellezza disarmante: un uomo e una donna, ritratti di spalle, si riparavano sotto un ombrello in quel di Parigi.
Soli. Soli in tutto il quadro e, a giudicare da come la donna stringeva forte lui, verrebbe da dire che lei si sente abbastanza sola anche nella vita. Forse, suppone Allen, lui è l’unico appiglio che ha. Forse, lui è l’unica cosa bella che le sia rimasta e sta solo cercando di tenerlo stretto come può. Sembrano intimi, per come si toccano, per come camminano, per come sembrano sfiorarsi con le teste.
- Brent Heighton- mormorò una voce alle sue spalle. L’uomo che era già lì prima dell’ingresso di Allen prese posto al suo fianco e si mise a contemplare con lei l’opera d’arte. –The lovers- continuò, come se per lui fosse del tutto normale attaccare bottone così con la gente. Allen si fermò ad osservarlo, mentre lui con una mano si pizzicava il mento e con l’altra tamburellava sul tavolino. Aveva circa 40 anni, notò Allen, oppure 50 ben portati. La giacca e la cravatta erano indossate con quella nochalance tipica di chi sa che sembra essere nato per portarle, beato lui, e che sarebbe elegante con qualsiasi cosa addosso, anche due pezzi di plastica attaccati con uno spago.
- Scusami- disse all’improvviso, come ridestatosi da un sogno. –Sono professore di storia dell’arte, sai… deformazione professionale-.
- Si figuri… e così, mi diceva, è Heighton?-. Allen si finse interessata. Non perché non lo fosse davvero: quel quadro le piaceva, e molto, ma odiava i professori di storia dell’arte. Perché, lo sapeva, erano in grado di snocciolarti per filo e per segno tutta la vita dell’artista, ma poi non facevano caso alle cose più banali. Quanto forte quella donna si aggrappasse a lui, ad esempio. E perché. Ecco, a lei era questo che piaceva dei quadri: pensarli come opere vive, a parte, come se nel momento in cui il pittore li avesse disegnati, avesse creato un mondo parallelo in cui quei personaggi diventavano persone, prendevano vita, erano vita.
- Sì, mia cara. E pensa che era uno tutto particolare: amava stare in Messico d’inverno, ad esempio-.
- E perché?-.
-Perché la luce gioca in maniera strana intorno agli oggetti, in quel periodo dell’anno. Sai, l’inverno in Messico è curioso. Hai notato?- le chiese di botto. Allen si sentì presa alla sprovvista e fu un’espressione sinceramente sorpresa quella che mise su chiedendo:
- Cosa?-.
- Quanto la donna tenga stretto l’uomo-.
Allen si girò a guardarlo incredula per qualche secondo. Non riusciva a crederci. E poteva anche immaginarli nel loro appartamento? Ci riusciva così, semplicemente, quanto Allen? Poteva anche lui vederli passeggiare per quella strada silenziosa, il cui unico suono era quello dei loro passi e della pioggia leggera?
- Secondo te sono felici?- domandò l’uomo. Lei si fermò un attimo a riflettere, continuando ad osservare il quadro. Lui, invece, guardava lei, ora, in attesa di una qualsiasi risposta. La scrutava con occhi indagatori, mentre la porta si apriva e si richiudeva alle loro spalle.
- Dovrebbero esserlo- concluse Allen, sorridendo appena.
- Dovrebbero?-.
-Be’- continuò lei, con la semplicità disarmante nella voce di chi sta dicendo una cosa così dannatamente ovvia da sembrare quasi banale. –Sono insieme. Non basta?-.
Si rese conto in un battibaleno del motivo per cui quel quadro le era piaciuto fin da subito, catturando la sua attenzione come un magnete. Perché quei due erano insieme sotto lo stesso ombrello, in mezzo alla pioggia. E, secondo Allen, erano felici.
- Non so, dimmelo tu. Basta?- rilanciò il professore.
Qualcosa dentro di lei si mosse, sonnecchiando, dicendole di andarci piano con quell’uomo. Perché c’era qualcosa nella sua vita che non andava e per lui risultava doloroso. E lei se ne era accorta solo ora.
- Secondo lei non basta?- gli chiese.
L’uomo si alzò in piedi, sorridendo appena, e le poggiò una mano sulla spalla. Quel fare paterno costrinse Allen ad osservarlo ancora un’ultima volta, come a cercare conforto in un viso che a mala pena conosceva.
- No, secondo me basta, ma solo per noi-.
Non lo guardò andare via, ma sentì la porta richiudersi mentre fuori imperversava la bufera. Secondo lui, bastava, ma solo a metà. Allen si spostò di lato, così da avere di fronte il ragazzo dagli occhi dolci e non più i due amanti intimi, ma infelici.
Si lasciò cadere mollemente sulla sedia, cercando di rimettere ordine nella sua testa. Ciò che era successo  prima di entrare in quel locale, le sembrava lontano anni luce. Chissà quanto tempo era passato… a giudicare dalla poca luce visibile fuori, poco più di un’ora o due. Nel mentre, aveva preso a grandinare. Pezzi di ghiaccio grandi come palline da golf erano cominciati a scendere giù e si sentivano ticchettare sul tetto o li si vedeva sbriciolarsi lungo la vetrata. C’era qualcosa nella pioggia, nelle giornate uggiose come questa, che risvegliava in Allen ricordi felici. Quegli attimi così veloci da sembrare sciocchi, ma consistenti tanto quanto il muro che la divideva dalla strada in quel momento. E tra i mille ricordi dello scorso inverno, ce n’era uno- uno che amava più di tutti, che se le avessero chiesto di salvare un ricordo e di cancellare tutti gli altri, avrebbe tenuto quello senza pensarci due volte.
Pioveva, faceva freddo, e loro due abbracciati, sotto le lenzuola. Allen si era accucciata contro la sua spalla e ne aveva respirato il calore. Lui le aveva appoggiato la testa contro la fronte e si erano addormentati così.
Si ritrovò a sorridere con lo sguardo che vagava lungo l’incrocio, senza vederlo.
Il ragazzo con gli occhi dolci le si avvicinò:
- Scusami… ecco il caffè senza zucchero e un pezzo di cioccolato fondente-.
Allen alzò lo sguardo su di lui, pronta all’ennesima figuraccia, quando si ricordò che lei non aveva ordinato nulla. Eppure, non c’erano altre persone ora nel Cafè, quindi non poteva nemmeno essersi sbagliato. Come se le leggesse nel pensiero (o la cosa era talmente ovvia che bastò poco per capirla) il giovane disse:
- Prima, mentre lei e il professore vaneggiavate verso il quadro, è entrato un ragazzo, ha ordinato questo per lei, ha pagato e se ne è andato-.
Ad Allen bastò un’occhiata al vassoio per capire di chi si trattasse. Sorrise. Solo una persona al mondo conosceva così bene ciò che lei amava di più: il caffè e il cioccolato. Solo una persona sapeva che prendeva il caffè rigorosamente senza zucchero nonostante il mal di stomaco perenne; solo una persona sapeva che per lei la cioccolata era sacra solo se fondente. Solo una persona avrebbe fatto una cosa del genere, nonostante ciò che lei gli aveva urlato contro.
- Non vaneggiavamo- si limitò a dirgli. Lui alzò le spalle, posando il vassoio sul tavolo, e, nell’evidente sforzo di essere comunque garbato e gentile, disse:
- Non credo a quelle cose sull’arte che salva-.
Allen si accigliò:
- Mai detto che l’arte salva-.
Lui lasciò cadere la conversazione, sistemò la tazzina di fronte ad Allen e il piattino azzurro lì accanto e tornò ad affaccendarsi dietro il bancone. Allen osservò il tutto per un po’, cercando di non chiudere gli occhi mentre le si annebbiava la vista. Lo sapeva. Sapeva che non avrebbe retto ancora a lungo. Cominciò a sentire un blocco in gola e si rese conto troppo tardi che le lacrime le stavano già scivolando lungo le guance. La mano andò istintivamente a coprire gli occhi. 
Bastò quel gesto, come il fischio dell’arbitro all’inizio della partita, e il temporale le esplose dentro. Era sempre così quando cominciava a piangere: sentiva come una bolla d’acqua troppo carica che finiva per scoppiare, in qualche modo. Rabbia, tristezza, frustrazione. Nemmeno lei sapeva bene quale fosse il punto. Quando le capitavano questi crolli, si sopportava ancora meno del solito. Perché avrebbe pagato per tornare l’insensibile di un tempo; invece qualcosa si era spezzato ed ora era semplicemente se stessa… ma non sapeva ancora quanto di positivo ci fosse nell’essere se stessi contro tutto il mondo. Non era dei giudizi che si preoccupava, né nell’apparire diversa da ciò che la gente conosceva di lei. Ciò che la spaventava era qualcosa di più recondito, qualcosa che si portava dietro da tempi immemori e che le faceva compagnia ogni giorno, da quando si alzava dal letto fino a quando ci si rinfilava per dormire.
Era quell’innata capacità di sentirsi fuori luogo sempre e comunque, ovunque si trovasse, con chiunque si trovasse. Tranne che con lui. Lui aveva la facoltà di farla sentire a posto anche se niente era ancora “a posto” nella sua vita. E lui ci riusciva: era come se bastasse un abbraccio, un bacio, una carezza e i cocci andavano a disegnare una prima bozza di vita. Non si sa come, nemmeno Allen riusciva a spiegarselo.
Si costrinse a calmarsi. Abbassò la manica della felpa e si asciugò in fretta gli occhi, poi prese in mano la tazzina e con deliberata lentezza si gustò il caffè.
Non stava andando da nessuna parte, era questa la verità. Se qualche mese fa si sentiva bloccata, ora per muoversi si stava muovendo, ma era come girare a vuoto. Avrebbe dovuto trovare qualcosa per cui valesse la pena davvero continuare ad andare avanti, qualcosa che esulasse da tutto e che le permettesse di ricominciare a respirare come prima, a pieni polmoni, senza avere paura della propria ombra. Non si conosceva così bene, Allen, da poter dire quanto forte fosse; né conosceva così bene la vita da poter affermare quante altre botte avrebbe dovuto sopportare. Più che provarci e continuare a provarci non sapeva che fare. E anche provarci non implicava la riuscita dell’impresa: continuava a fare male a chi le stava intorno, continuava a sbagliare e a non sapere più come rimediare. Ci bastava così poco, quando eri piccolo, che dopo dieci minuti ti scordavi perché eri arrabbiato e ricominciavi a giocare con quello che, per quei lunghi dieci minuti, era stato il tuo più acerrimo nemico. Poi cresci e ti guasti, pensò.
Tornando per pochi minuti con la mente lungo la via della vetrata, Allen si ritrovò a scrutare una scena che non avrebbe più dimenticato per tutta la vita. Due ragazze stavano litigando ai margini del marciapiede, poco distanti dalla strada. La più alta era Haileen. Quando Allen se ne accorse sentì gli occhi fuoriuscire dalle orbite. Gesticolava all’impazzata, come faceva sempre quando era fuori di sé, e puntava il dito contro la malcapitata ad intervalli regolari di circa 5 secondi, il che significava –ormai Allen la conosceva come le sue tasche- che non stava improvvisando: il discorso era già bello che preparato da giorni, forse da mesi. Nel giro di un secondo, Haileen piombò nel locale, piantando in asso la ragazza sul marciapiede e lasciando Allen ad osservarla al suo fianco sulla sedia. Indicò fuori, lentamente:
- Poi un giorno mi spiegherai come fai ogni volta a spostarti nel giro di venti secondi-. Haileen sbuffò:
- E’ la gente che è stupida-. Classica affermazione che stava a indicare: fatti gli affari tuoi, ok? Ok. La sua mano andò immediatamente al pezzo di cioccolata fondente ancora intonso, ma Allen fu un fulmine a sottrarglielo e a mangiarlo. Haileen fece una smorfia allibita, ma Allen sorrise. Anche se gliel’avesse spiegata, la storia del caffè e della cioccolata, non l’avrebbe capita. Non perché non la conoscesse o perché fosse troppo stupida. Ma solo perché quella cosa, per come era stata fatta- un gesto così piccolo, così nascosto- non l’avrebbe capita nessuno. E in realtà Allen si stava chiedendo ancora perché non lo avesse rincorso ovunque fosse andato o perché non gli avesse ancora mandato un messaggio o perché non lo avesse ancora chiamato. Ma una parte di lei, riconosceva i suoi tempi. E sapeva che lui era ancora adirato per le cose che erano uscite quella mattina: il suo era stato un modo per dirle che c’era. Che si preoccupava che stesse bene. E all’improvviso, mentre Haileen si era lanciata in un monologo sul perché stesse polemizzando con quella povera anima, Allen si preoccupò che fosse lui a stare bene. Da quanto non glielo chiedeva?
- Mi stai ascoltando, amica?- le chiese Haileen, perplessa. Allen si grattò la testa, cercando nel suo repertorio la faccia più innocente che avesse. – Non mi stavi ascoltando- concluse. Un’eloquente scrollata di spalle e uno sbuffo furono sufficienti a far ridacchiare il ragazzo del bancone. Allen lo fulminò, ma Haileen parve divertita. –Eddai!- le sussurrò. –E’ carino- aggiunse, magnanimamente.
- Ah?-. Allen si scoprì ad osservarlo solamente ora per davvero e concluse che sì, carino era carino, ma nulla di eccezionale, nulla di così eclatante da poter giustificare quel suo fastidioso modo di essere. Occhi dolci, modi gentili e carattere di un porcospino. Quando espresse questi pensieri ad Haileen, la sua risposta fu quanto mai scontata:
- Parli tu che stai con un orso, praticamente-.
In effetti, sospirò Allen. In effetti era vero. Ma che ci poteva fare se di lui amava anche quel suo modo di essere scorbutico e nerboruto, quell’essere un po’ scontroso, spicciolo, pratico, esuberante, egocentrico? Ne aveva colpa se amava di lui anche quando sembrava non importargli nulla di lei?
- Piuttosto- continuò Haileen. –Che hai deciso?-. 
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: MartinaAnna