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Autore: L Ignis_46    03/09/2015    2 recensioni
"[...] Chi se lo aspettava quel giorno che sarei finita qui, da sola, a dormire in un prato secco a margine di una strada ingombra di polvere, catorci e resti di cadaveri putrefatti. [...]"
Genere: Drammatico, Malinconico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Braccata
 
Urla, le mie orecchie sono piene di urla: di donne, di bambini, di uomini.
Intorno a me solo il caos, gente che corre terrorizzata, senza una meta precisa.
Indietreggio spaventata ed inciampo in qualcosa di abbastanza morbido; crollo a terra di schiena, senza avere il tempo di attutire la caduta. Cerco di tirarmi su e guardo ciò che mi ha fatto cascare: è un corpo; no, non “un” corpo qualsiasi, è quello di mia madre.
È riversa a terra in un lago di sangue, la gola completamente squarciata, un fianco a brandelli.
Le lacrime iniziano ad offuscarmi la vista, scatto in piedi, senza riuscire a staccare gli occhi da quella che era mia madre. La rivedo mentre mi sorride, mentre mi parla, mentre prepara il pranzo, mentre parla con mio padre.
Finalmente alzo gli occhi, mi guardo intorno, inizio a cercare quest’ultimo fra questo marasma di gente. Inizio a camminare lentamente, fra i cadaveri; riconosco dei volti, persone che conoscevo, ma non lo vedo, né fra quelli a terra, né fra quelli che fuggono.
Sento gli spari, le pallottole mi volano intorno, senza mai toccarmi; la gente mi passa accanto, ma non mi sfiora nemmeno. Come se non ci fossi.
Continuo a camminare, a cercare, e finalmente lo trovo: è riverso a terra, supino, gli occhi vitrei che, spalancati, fissano il vuoto; anche lui ha la gola lacerata.
Le lacrime riempiono di nuovo i miei occhi. Mi accascio a terra, senza più forze. Mi compro il viso con le mani e piango, i singhiozzi mi scuotono il corpo.
Non so cosa fare.
Ad un certo punto qualcosa cambia: c’è silenzio, un silenzio assoluto.
Alzo lo sguardo ed osservo ciò che mi circonda: morti, solo corpi morti, nessun sopravvissuto.
 Sento un rumore, un fruscio.
Mi volto e lo vedo: è su un cadavere, le mani affondate nel ventre, mi dà le spalle.
Mi alzo di scatto e lui si volta, gli occhi ciechi mi cercano, ma non possono scovarmi; allora anche lui si alza, ed inizia ad annusare l’aria, tendendo anche l’orecchio per sentire anche il mio più piccolo movimento. Resto immobile, trattengo il respiro; tutto inutile, si volta: mi ha trovata.
Lo vedo scoprire i denti, del sangue gli cola giù lungo il mento, fino a terra. La goccia non fa in tempo a toccare il suolo, che lui scatta e mi è addosso.
Poi, tutto è nero.
 
Mi sveglio all’improvviso: un altro incubo, anzi, quell’incubo, sempre lo stesso, da settimane. È da quando è successo che non sogno altro, sempre che non sia benedetta da una notte tranquilla, buia, in cui il mio maledetto cervello, sempre all’erta, non riesumi ciò che è successo, rendendolo ancora più terribile.
Mi guardo attorno è ancora buio, ma ad est c’è un tenue bagliore: l’alba si avvicina, saranno quasi le cinque del mattino. Potrei provare a riaddormentarmi, ma, nonostante abbia riposato pochissimo, non ho più sonno: l’incubo me l’ha portato via tutto. Decido quindi di rinunciare e prendo lo zaino con le mie provviste, che ormai sono estremamente poche. Sbocconcello qualcosa ed osservo la rinascita del sole, che lentamente si fa spazio nel cielo estivo, privo di nuvole. Anche oggi il tutto promette una giornata afosa. Fantastico. Meglio del freddo, comunque: sarebbe complicato dormire all’aperto.
Continuo a fissare il lontano est, l’avanzata di quei raggi, e la mia mente mi riporta a tre settimane e mezzo fa, a quando ancora avevo una casa, se un edificio decadente privo di qualsiasi comodità può essere definito tale, a quando avevo ancora una famiglia. Ripenso anche all’incubo, l’immagine di quegli occhi bianchi mi si fissa nel cervello, abbasso le palpebre e lì rimane impressa, in agguato.
Chi se lo aspettava quel giorno che sarei finita qui, da sola, a dormire in un prato secco a margine di una strada ingombra di polvere, catorci e resti di cadaveri putrefatti. Avevo pensato molte volte che, magari, un giorno saremo stati costretti ad andarcene da là, ma fino ad allora era sempre stata una possibilità remota, quasi inesistente. Lì eravamo riusciti a costruire qualcosa, un posto sicuro, che potevamo considerare casa. Non eravamo mai stati attaccati, a parte qualche piccolo gruppetto che riuscivamo benissimo a eliminare, senza che si avvicinasse mai troppo alle abitazioni.
E poi, da un giorno all’altro, era successo il peggio: ne arrivò un gruppo numerosissimo, un intero branco, troppi per noi. Sembrava che sapessero esattamente dove andare; attaccarono la parte più scoperta della recinzione, entrarono nella nostra zona sicura e ci uccisero uno ad uno. Niente poteva fermarli; gli sparavamo addosso, ma ne arrivavano altri, troppi. Alla fine, ci sopraffecero.
Pensavo che avrebbero ucciso anche me, che mi avrebbero aperto la gola e mi avrebbero strappato ogni singolo lembo di carne dalle ossa, come avevano fatto con i miei genitori, ma riuscii a scappare. Fui capace di arrivare alla rimessa ed a prendere l’ultimo veicolo funzionante e con un pieno che c’era rimasto, riuscii a caricarci delle provviste che tenevamo lì per l’evenienza e delle cartucce di scorta. Poi me ne andai per una direzione a caso.
Ed ora sono qui, senza nessuno e braccata, come un animale. Perché quando sono fuggita da casa, da quel campo di morte, alcuni di loro mi hanno seguita. All’inizio li avevo seminati, ma quando finii la benzina, mi toccò continuare a piedi e, giorno dopo giorno, iniziarono ad avvicinarsi, sempre di più e sempre più sicuri e veloci, perché sentivano che la loro pista diventava sempre più forte, sempre più vicina.
Dieci giorni più tardi, li vidi: mi trovavo in un punto rialzato e girandomi indietro potei notare cinque figure in movimento, che seguivano veloci la mia stessa strada.
Da quel momento iniziò la mia corsa contro il tempo, ma avevo indugiato troppo da quando avevo lasciato la macchina, e così neanche cinque giorni dopo mi raggiunsero. Ero pronta, non avevo più niente da perdere, se non la mia stessa vita, e se la volevano, dovevano sudarsela.
Riuscii ad ucciderne uno, ma quando gli altri capirono che ero armata si ritirarono, per cercare un modo per uccidermi senza perdite. Sono furbi, bestiali e violenti, ma furbi, non ripetono lo stesso errore, quando hanno capito la situazione.
Negli attacchi successivi delle volte riuscirono quasi a mettermi all’angolo delle volte, si divertivano a braccarmi, a giocare al gatto ed al topo, ma alla fine riuscii ad ucciderne altri quattro. Il quinto no, era, anzi è, il più scaltro; mi aveva studiato tutto il tempo, aveva osservato i miei movimenti, aveva fatto andare in prima linea gli altri, li aveva usati come cavie.
Alla fine attaccò anche lui, era riuscito a prendermi di sorpresa: aveva aspettato che crollassi, sfinita, e poi mi si era avventato contro. Fortunatamente i miei riflessi mi permisero di restare abbastanza lucida da non cadere preda del panico: lo colpii con la prima cosa che mi capitò sotto mano, prendendolo alla testa e stordendolo quel tanto che bastava per allungarmi fino al fucile. Lui però fu più veloce e capendo le mie intenzioni si diede alla fuga, così che lo presi solo di striscio.
Da allora non l’ho più visto, ma so che mi sta seguendo, i miei sensi sono sempre all’erta, non riesco a dormire più di qualche ora per la tensione. Devo trovare un buon riparo, delle provviste e nuove armi, perché, anche se ho perso tutto, non voglio morire.
Mi rimetto in cammino; il sole è sorto ed all’orizzonte vedo chiaramente il profilo di una grande città.
 
Via via che proseguo, le case si fanno più fitte e riesco a riposare anche in un letto vero.
Non c’è nessuno, né umano, né animale, né altro: tutto è deserto. Mi accompagna solo un afoso alito di vento, che fa cigolare qualche altalena che non so come possa stare ancora in piedi, o qualche cartello. Mi chiedo chi abitasse prima qui, che fine abbiano fatto tutti quelli i cui resti non si trovano per la strada o nelle case abbandonate.
Molto probabilmente non lo saprò mai.
Continuo il mio passaggio silenzioso, ogni tanto mi fermo in qualche abitazione messa in una situazione migliore, in qualche supermarket e cerco del cibo che non sia scaduto da troppo tempo e soprattutto acqua. Trovo anche un rivenditore di armi e riesco a recuperare qualche cartuccia del mio calibro.
La notte mi fermo in una casa ad un piano, piccola, solo due porte di ingresso, finestre quasi tutte dotate ancora di persiane. Sprango tutto, blocco le porte con della mobilia che non sia troppo pesante da spostare in caso di emergenza, ma che non permetta un’entrata facile. Poi mi metto a letto, completamente vestita, il fucile con la sicura inserita ancorato alla schiena, la borsa con le cartucce legata alla coscia sinistra e lo zaino dei viveri stretto al petto.
L’ultimo mio pensiero va ai miei genitori ed al fatto che domani entrerò finalmente nella città.
 
Mi sveglio, spalancando gli occhi. Una luce soffusa arriva dalla finestra priva di una persiana.
Ho dormito tutta la notte, senza incubi e senza pensieri, tranquilla; mi sento riposata, ma qualcosa mi attanaglia lo stomaco, sento l’adrenalina che inizia a scorrermi in corpo, i miei sensi mi mettono in allarme.
Ora ricordo: qualcosa mi ha svegliato, un rumore proveniente dall’esterno. Mi alzo veloce e silenziosa e mi metto lo zaino in spalla, assicurandomelo sul petto con la cinghia, poi, mi metto in ascolto. Cerco da capire da che parte sia venuto quel suono, ma non sento più niente. Inizio a seguire il perimetro interno della casa, tenendomi bassa, per non far notare la mia figura dalle finestre. Le passo in rassegna tutte, compresa la porta principale, e lì lo risento, non come prima, più flebile, un leggero ansimare. Non mi azzardo a fare nulla, non mi muovo più e trattengo il fiato: è lì fuori, mi ha raggiunta. Lo ascolto muoversi. C’è  un leggero impaccio nei suoi movimenti: forse quando l’ho colpito, l’ho ferito ad una gamba. Probabilmente è per questo che ci ha messo così tanto ad arrivare.
Non so cosa fare, l’adrenalina mi dice di muovermi e sparargli, ma se non riesco a prenderlo? E soprattutto non posso permettermi di sprecare pallottole.
Ha ripreso a spostarsi, va verso la finestra priva di una persiana. Sente benissimo il mio odore, sa che sono qui, perché allora non attacca?
Perché sa che sono armata, che se prova ad entrare, lo riempirò con così tante pallottole che sembrerà un colabrodo.
Continua ad aggirare la casa, seguo con l’udito i suoi movimenti, il cuore che batte all’impazzata. Poi, lo sento allontanarsi, ma non permetto al sollievo di arrivare, perché non mi illudo che abbia rinunciato solo perché a dividerci c’è un’abitazione ed il mio fucile, aspetterà solo il momento propizio: sa che anch’io devo nutrirmi, prima o poi finirò le mie provviste e dovrò uscire se non voglio morire di fame, e, se anche non uscissi, lui potrà sempre entrare quando sarò troppo debole per contrastarlo.
Devo trovare un modo per scappare.
 
Il tempo passa lento ed inesorabile, tengo sempre un occhio puntato sulla finestra con la persiana rotta ed il fucile carico in mano, il dito sul grilletto, pronto a fare il suo dovere.
Riposo poco per volta, senza mai finire addormentata, per paura che ne approfitti per entrare. Il cibo inizia a scarseggiare ed anche l’acqua. La casa inizia a puzzare più di prima a causa delle mie deiezioni.
Se prima non era sicurissimo che io fossi qui, ora ne ha la certezza.
Non so che fare, mi sento messa all’angolo.
 
Sono quattro giorni che sono intrappolata in questa casa, non si è mai riavvicinato, ma so che tiene d’occhio l’edificio.
Mi sono stancata di questa immobilità, di quest’attesa infinita, ho deciso che devo fare qualcosa, qualsiasi cosa.
Ho un’unica possibilità, devo essere veloce. Sono certa che sia vicino, ma non eccessivamente, se mi affacciassi ad una qualsiasi finestra o porta, non lo vedrei. Quindi, non so dove sia; so solo che quando quattro giorni fa se n’è andato è andato verso la direzione da cui sono arrivata, ma potrebbe essersi benissimo spostato, potrebbe essere anche dalla parte opposta. Non ho modo di saperlo e non mi provo a guardare fuori, perché potrebbe tentare di attaccarmi o potrebbe pensare che ho in mente qualcosa.
Devo cercare di capire da dove lui pensa che io possa uscire. La finestra rotta? La porta sul retro? O quella principale? La finestra del bagno che dà sul vicoletto?
Se sapessi come pensano quelli come lui, tutto sarebbe più facile.
Basta, devo scegliere un’uscita, quella che mi sembra la migliore. Analizzo le mio opzioni e decido.
Sposto un mobiletto sotto il rettangolo aperto lasciato dalla persiana rotta, stando attenta a non farmi vedere da fuori, poi indietreggiando fino alla porta sul retro, tenendo sempre un occhio sulla finestra, inizio a spostare lentamente e silenziosamente i due comodini che ho messo davanti all’entrata.
Quando ho finito, mi appoggio un attimo al muro, chiudo gli occhi.
Inspira, espira.
Mi stacco dalla parete, prendo lo zaino e metto le tre barrette energetiche rimastemi nella borsa con le cartucce, lego la borraccia alla cinta e mi assicuro che il fucile sia legato al cinturone che mi permette di tenerlo legato alla schiena, quindi lo imbraccio e mi posiziono davanti alla porta.
Espira, inspira.
Do un calcio alla porta, sfondo completamente il legno debole e la scardino.
Subito sento un rumore provenire dalla mia sinistra, fuori dalla casa, un suono di passi affrettati. Scatto anch’io, ma verso la finestra rotta a destra. Appena metto piede sul mobiletto per lanciarmi fuori, con la coda dell’occhio lo vedo: sposta con forza la porta a pezzi e volta la sua faccia dagli occhi bianchi su di me.
Quando si rende conto di quello che sto facendo, io sono già in strada. Lo sento ringhiare dietro di me e gettarsi all’inseguimento. Mi fermo appena un secondo e sparo alla cieca. Sento un leggero rantolo, ma non mi fermo a vedere dove l’ho colpito.
Corro, corro più veloce che posso, verso la città, sperando di riuscire a seminarlo là, sperando che non ce ne siano altri, nascosti nella megalopoli.
 
Mi muovo rapida, cercando di non inciampare nelle macerie che mi circondano, cosa ardua, visto che mi trovo in una metropoli in rovina, abbandonata da anni: asfalto pieno di buche e spaccature, vetri in frantumi ovunque, parti di palazzi e grattacieli in mezzo a quelle che un tempo erano le strade, scheletri di macchine ed altri mezzi di trasporto che ingombrano ancora di più la via o che si trovano conficcati in qualche palazzo sfondato e mezzo crollato.
Non ho mai visto niente del genere.
I miei genitori ed io venivano da una città del genere, ma non mi ricordo assolutamente nulla, ero troppo piccola quando fummo costretti con altre migliaia di persone a scappare.
Le grandi città furono le prime a cadere, poi lentamente tutte le altre, fino ai villaggi più sperduti del mondo.
Un rumore in lontananza: mi fermo di schianto e mi nascondo dietro un catorcio di un vecchio taxi giallo. Tendo l’orecchio e mi metto in ascolto: niente. Resto comunque dietro il mio riparo, non c’è da fidarsi del silenzio. Aspetto ancora qualche secondo, poi inizio a spostarmi lentamente, stando sempre attenta a qualsiasi rumore o fruscio, ma ancora non percepisco alcun suono.
Giro attorno al taxi e mi riporto allo scoperto, mi guardo attorno: rovine, solo rovine e nient’altro; ma io so che lui è lì da qualche parte.
Ricomincio a camminare, prima lentamente e con circospezione, poi accelerando sempre di più il passo, riprendendo a correre. Cerco di restare sulla strada principale, per avere una migliore visuale di ciò che mi circonda e per cercare di intercettare un possibile attacco del mio inseguitore. In fondo ho un unico vantaggio: i miei occhi.
Un altro rumore, sempre abbastanza lontano.
Aumento l’andatura, procedo zigzagando fra le rovine, sorpasso saltando le buche. Il fucile mi batte con sempre più insistenza sulla schiena, la borsa con le cartucce e la borraccia mi pesano l’una sulla coscia sinistra, l’una sulla destra.
Le gambe iniziano a dolermi sempre di più: i muscoli sono indolenziti e tirano, le congiunture sfregano dolorosamente fra loro, i piedi mi mandano fitte ad ogni passo, il fiato diventa sempre più corto, ma non posso fermarmi, se mi fermo mi raggiungerà.
Tento di guardarmi attorno, di trovare un punto che mi permetta di scovare il mio nemico ed ucciderlo, ma non riesco a scorgere niente che mi sembri adatto.
Mi lancio un veloce sguardo alle spalle, non vedo niente.
Provo a continuare a correre, ma lentamente la mia velocità diminuisce, i miei polmoni si contraggono sempre di più in cerca d’aria. Sono costretta a fermarmi. Getto un’ultima occhiata dietro di me e poi mi appoggio dietro un autobus ribaltato.
Inspiro ed espiro velocemente, i muscoli di tutto il corpo mi vanno a fuoco, la testa è pesante, la stanchezza si fa presto sentire, ma cerco di restare vigile; mi costringo a regolare il respiro ed a non pensare alle fitte che mi trapassano le gambe.
Alzo gli occhi al cielo, il sole è già a metà della sua discesa verso ovest, ma visto che è estate, ho ancora un po’ di ore di luce; per quando sarà buio avrò bisogno di un riparo.
Lentamente mi tiro su, la schiena sempre appoggiata al tetto del bus. Ho indugiato anche troppo a lungo e, sebbene i muscoli mi dolgano ancora, ora che ho ripreso un po’ il fiato, devo muovermi. Faccio dei lunghi respiri e mi metto in ascolto: nessun rumore sospetto; imbraccio il fucile ed esco dal mio nascondiglio.
Mentre cammino velocemente, mi metto a pensare: il mio inseguitore non è una bestia qualsiasi, è furbo ed intelligente, ma soprattutto ha un olfatto ed un udito sviluppati, che vanno a compensare i suoi occhi inutili, come posso nascondermi da un essere del genere?
Intorno a me ci sono solo palazzi vuoti, alcuni ancora in piedi, altri semidistrutti. Mi guardo attorno, ma non mi viene in mente nulla di buono, sono tutti troppo grandi per permettermi di controllarli da sola.
Continuo a camminare fino a quando non inizia veramente a fare buio. Sento il panico che inizia a farsi spazio ed ad annebbiarmi la ragione: quella creatura sa che la mancanza di luce è per me un intralcio.
Decido di fermarmi, ne ho bisogno in tutti i sensi.
Non mi azzardo ad entrare in nessun palazzo, perché non so cosa possa esserci dentro, anche se, se ci fosse stato qualcosa, probabilmente l’avrei già scoperto, visto che scorrazzo per queste vie da tutto il giorno e non credo di essere passata inosservata. Sono l’unica cosa viva, escluso il mio inseguitore.
Davanti a me c’è una vecchia jeep: i vetri sono quasi tutti sfondati, il cofano ed uno sportello sono aperti; mi avvicino e sbircio all’interno: tolto il fatto che è lurida, non sembra male. Mi do un’ultima occhiata intorno e mi infilo dentro, accostando lo sportello, che cigola debolmente.
Il soffio del vento mi culla; alla fine crollo e mi addormento.
 
Mi sveglio a notte fonda, l’unica luce deriva dalla luna e dalle stelle: devo aver dormito qualche ora. La posizione scomoda mi fa dolere le ossa del collo e della schiena ed una gamba si è leggermente addormentata; almeno i muscoli non mi bruciano più come prima.
Tendo l’orecchio per carpire tutti i suoni intorno a me, ma non sento niente di strano. Mi alzo lentamente e mi guardo attorno, aspettando che i miei occhi si abituino al buio: vedo veramente poco.
Resto in questa posizione, con la testa addossata al poggiatesta, aspetto che accada qualcosa.
Inspiro ed espiro un paio di volte, mentre il mio sguardo guizza di qua e di là, occhieggiando anche gli specchietti dell’auto, per cercare di vedere il più possibile.
Alla fine mi decido ad uscire, non ha senso restare altro tempo qui dentro, comincio a sentirmi carne in scatola.
Imbraccio per bene il fucile con la mancina e dischiudo vigile la portiera con la destra, poi esco lentamente e tolgo la sicura all’arma.
Continuo ossessivamente a setacciare la notte, cercando di sforzare la mia vista, tendendo l’orecchio al massimo.
Alla fine mi do pace ed incomincio a camminare. Sono costretta a guardare per terra, per non inciampare nei miei stessi piedi, oltre che nei vari impedimenti che rendono la strada un campo minato.
Poi, un guizzo, alla mia sinistra.
Costringo i miei piedi a non fermarsi, né ad accelerare il passo; cerco di mantenere la calma.
Mi stava aspettando fuori, ha atteso che uscissi allo scoperto per rendersi l’inseguimento più eccitante, per farmi sentire di più che è lui il cacciatore ed io la preda, la braccata. Adesso giochiamo ad armi pari, l’unico vantaggio che avevo se n’è andato con l’ultimo raggio di sole e, sebbene abbia ancora il mio fucile, mi ritrovo comunque al suo stesso livello, se non in leggero svantaggio, perché sarà difficile centrare qualcosa che posso a mala pena vedere.
Continuo a camminare, con passo stoico, cercando di non dare a vedere l’agitazione che mi attanaglia le viscere e la paura che mi fa tremare leggermente le gambe e me le sta facendo diventare molli.
Non deve capire che so che mi segue, non deve capire che sono terrorizzata. Se inizio a cedere ora, avrò perso.
Rumori sommessi arrivano dalle mie spalle: si sta preparando, ha finito di aspettare.
Inspira, espira.
Persisto nella mia andatura, mi trattengo dal voltarmi per vedere cosa sta facendo. Lo sento muoversi sempre più velocemente e sempre più vicino. Riesco quasi a percepire la sua eccitazione e la sua sete di sangue.
Espira, inspira.
Mi volto di scatto e premo il grilletto, una, due, sei volte.
Sento un ringhio, più di frustrazione che di dolore. Non mi fermo a controllare, ma inizio a correre meglio che posso, cercando di evitare tutti gli ostacoli che mi si parano davanti.
Ma è ancora troppo buio: non distinguo affatto la lamiera che mi ostruisce il passaggio, così ci finisco contro, il piede destro mi resta incastrato sotto ed io finisco faccia a terra, picchiando uno zigomo. Il dolore mi si irradia da quel punto in tutta la testa, velocissimo, come se fossi stata colpita da una scarica elettrica. Cerco di ignorare la pulsazione che si propaga fino al cervello e mi districo dal rottame, mentre con una mano cerco il fucile.
Trovo la cordicella a cui lo avevo legato, la tiro e mi accorgo che l’arma non c’è più: il filo si è rotto, sono disarmata.
Mi tiro di scatto su, provocandomi una fitta alla testa ed una maggiore fuoriuscita di sangue dalla ferita, e mi guardo istericamente attorno, cercando la mia unica possibilità di ucciderlo.
Basta un secondo, sono distratta, presa dal panico, dal dolore e dalla stanchezza: non lo sento arrivare.
Mi è addosso senza che me ne accorga. Sento il suo fiato sul mio viso, le sue unghie mi graffiano, il suo corpo magro ma muscoloso mi tiene giù, mi impedisce quasi il movimento. Quando incontro i suoi occhi ciechi li vedo brillare alla luce della luna e delle stelle.
Urlo.
Inizio a scalciare, a contorcermi, cerco di liberarmi le mani per spingerlo via, provo addirittura a prenderlo a testate ed a morsi. Ma lui riesce a bloccare tutti i miei tentativi; probabilmente non dura nemmeno troppo fatica, sono allenata, ma lui è più forte di qualsiasi umano.
Le lacrime cominciano a solcarmi il viso, il respiro mi si fa corto ed i muscoli dolgono nuovamente per lo sforzo.
Lui mi si avvicina con calma serafica ed io sento il suo fiato caldo sulla gola.
Mi ucciderà, mi trancerà la carotide e darà inizio al suo banchetto mentre ancora mi contorco e muoio dissanguata.
Mi sono quasi abbandonata all’idea di quest’orribile fine, la stessa della mia famiglia e dei miei amici, quando il silenzio cala sulla mia mente, il panico scompare ed un unico pensiero di fa spazio in me: non voglio morire.
Resto ferma, un ringhio leggero, di vittoria, esce dalla gola del mio cacciatore: pensa di aver vinto. Lo sento che si prepara a scrivere la parola “fine” sulla mia esistenza con i suoi stessi denti.
No, io non voglio morire.
Scatto.
Mentre lui cala su di me, io mi muovo tutta insieme: riesco a colpirlo con una testata ed a sbilanciarlo quel tanto che basta per non ritrovarmi più sotto di lui. Sento che è sorpreso, non se lo aspettava, pensava che avessi rinunciato a vincerlo.
Ma la partita non è ancora finita.
Strattono le mani dalla sua presa ferrea e riesco a liberarne una, con cui riesco ad afferrarlo alla gola. Un debole suono di sconcerto esce dalle sue labbra e per un secondo allenta la morsa in cui mi ha intrappolata. Riottengo controllo anche sull’altra mano, che si va ad aggiungere all’altra, mentre riesco a sgusciare via dalla presa del suo corpo.
Tutto ciò accade in appena un paio di secondi, perché lui riesce a ritornare padrone di sé e con furia risponde al mio attacco.
In un attimo mi afferra, mi strappa da sé e mi scaglia per terra.
L’impatto fa fuoriuscire dolorosamente tutta l’aria che ho nei polmoni; resto senza fiato e leggermente intontita, con la testa che pulsa ancora di più.
Con la coda dell’occhio lo vedo avvicinarsi. Mi volto ed inizio a strisciare per allontanarmi il più possibile. Mi ferisco i palmi delle mani con vetri rotti e detriti vari, mentre procedo alla cieca, cercando inutilmente di mettere spazio fra me e lui.
Tutto inutile: in pochi passi mi è addosso, mi afferra per una spalla e mi volta verso di lui, schiacciandomi nuovamente a terra.
Riprendiamo a lottare, io che mi muovo e scalcio come una furia, non pensando a colpirlo in un punto preciso, e lui che tenta nuovamente di immobilizzarmi.
Ad un certo punto riesco ad afferrare un calcinaccio ed a schiantarglielo contro la testa. Sento un leggero scricchiolio proveniente del suo cranio. La creatura mi si stacca di dosso, stordita, e si porta un po’ indietro, premendosi le mani sul punto d’impatto.
Io ne approfitto e mi alzo, malferma, in piedi. Inizio ad indietreggiare, quando sento il piede sbattere contro qualcosa. Istintivamente abbasso lo sguardo e lo vedo: il mio fucile.
Mi abbasso di scatto e lo afferro.
Nello stesso istante mi arriva alle orecchie un ringhio lugubre.
Riesco a malapena a girami, ancora accucciata, ed a tirare il grilletto alla cieca, un un’unica volta.
Il rinculo, più forte per la vicinanza del bersaglio, mi coglie di sorpresa e mi scaglia all’indietro.
Batto la testa contro qualcosa di duro. L’asfalto, un pezzo di cemento armato o chissà cos’altro.
L’ultima cosa che vedo è il cielo che inizia lentamente a schiarirsi verso est; poi, è il buio.
 
Apro leggermente gli occhi: la luce ferisce le mie pupille sensibili, così sono costretta a richiuderli subito. Mi fanno male ogni singolo osso e muscolo, ma soprattutto la testa. Il dolore lì è quasi insopportabile, mi manda fitte terribili. Non riesco nemmeno a pensare: so di essermi fatta male, ma non mi ricordo minimamente come abbia fatto, né che stessi facendo, né dove mi trovi.
Vorrei provare a darmi un’occhiata intorno, ma le palpebre sono così pesanti, ed io così stanca.
Ricado nell’incoscienza quasi senza accorgermene.
 
Fa caldo.
Il mio corpo è dolorate ed in una posizione scomoda. Mi sembra che il cervello mi voglia schizzare fuori dal cranio, da quanto pulsa.
Riesco a vedere la luce del sole, che filtra attraverso la sottile membrana delle palpebre.
Mi schermo gli occhi con una mano e li apro lentamente, aspettando che si abituino alla luce di mezzogiorno. Mi giro di lato per parami ancora di più dai raggi insistenti e finalmente riesco ad osservare ciò che mi circonda.
Rovine, macerie e catorci di auto.
Mi accorgo di avere il fucile stretto convulsamente in una mano.
Ora ricordo.
Mi tiro con calma su a sedere. Sento scricchiolare le ossa ed urlare di dolore tutti i muscoli, la testa comincia a pulsare più forte di prima.
Mi guardo attorno e finalmente scorgo il cadavere.
Automaticamente stringo più energicamente la mia arma, ma non ce n’è bisogno, è morto.
Mi alzo in piedi e con lentezza estrema, traballando da un piede all’altro, mi avvicino alla creatura, il mio cacciatore.
È riverso a terra, supino, un buco enorme all’altezza del plesso solare, deve essere morto sul colpo. L’intero corpo è contratto dal rigor mortis e si inizia già a sentire puzza di decomposizione (devo essere rimasta là a terra per due, tre giorni), le mosche hanno già iniziato il loro lavoro. Sul suo volto, macchiato dal sangue proveniente dalla ferita che gli ho inferto alla testa, è stampata un’espressione furiosa; la bocca è spalancata e fa mostra dei denti, macchiati del suo stesso sangue, che gli è sgorgato in gola per lo sparo. Gli occhi sono sbarrati e rivolti al cielo, ancora più ciechi di quanto siano stati prima.
Continuo a fissare il mio inseguitore dall’alto.
Ora, riesco a vedere le somiglianze che ha con me: non è più qualcosa di mostruoso, è solo un essere vivente che un tempo era come me e che poi si è ritrovato ad essere un demone per la sua stessa gente.
Come me, lui non ha mai voluto tutto questo.
Chissà chi era, prima di diventare così, prima di trasformarsi in una bestia cannibale e priva di ragione.
Forse aveva una famiglia, dei figli, qualcuno che lo amava, un buon lavoro; forse era una persona di spicco, un grande magnate; forse, invece, era un poveraccio che non voleva nemmeno più vivere. Non mi è dato saperlo.
Getto un ultimo sguardo a quegli occhi vacui e bianchi.
Non c’è più rabbia nel mio cuore.
Né paura.
Né tormento.
Né rimpianto.
Solo un velo gelido che mi avvolge l’anima ed un’unica consapevolezza.
Ora sono veramente sola.





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Salve a tutti, questa è la prima cosa partorita dalla mia mente iperattiva che decido di mettere per iscritto e soprattutto far leggere a qualcuno (prima fra tutti la persona che mi ha più o meno costretta a pubblicarla qui <3 ). Spero che, se siete arrivati fin quaggiù, vi sia almeno piaciuta un pochino. Se avete voglia, lasciate un segno del vostro passaggio =)
Grazie per avermi letto ^-^

Ignis 
   
 
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