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Autore: Aluah    04/09/2015    1 recensioni
- Morirò vergine. -
Più che osservazioni, quelle di Sakura sembrano condanne scritte a fuoco sulla pelle, come se per ognuno il destino fosse racchiuso in quelle poche parole - pronunciate per altro con una tale sicurezza da far impallidire le Tre Norne e fargli chiedere il pensionamento anticipato-, senza possibilità di appello. E la sua è di morire sola, vergine e in compagnia di cinque gatti, tutti di nome Sasuke.
Risponderle, come sempre, mi sembra superfluo: servirebbe solo a ricordarmi che, se si mette in testa qualcosa, è irremovibile. E in questo momento Sakura è convinta di morire vergine, per cui tutto ciò che posso fare è sperare che domani si convinca di voler fare l'astronauta, o anche la commessa, poco importa.
- Morirò vergine con i miei Sasuke. -
I cinque gatti, per l'appunto.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ino Yamanaka, Sakura Haruno, Shikamaru Nara | Coppie: Shikamaru/Ino
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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vergine








UNICORNS






                                                                                                                                                                                                                                  I'll be yours 'till the end of time
'Cause you made me feel
Yeah, you made me feel
I've nothing to hide
 






- Morirò vergine. -
Più che osservazioni, quelle di Sakura sembrano condanne scritte a fuoco sulla pelle, come se per ognuno il destino fosse racchiuso in quelle poche parole - pronunciate per altro con una tale sicurezza da far impallidire le Tre Norne e fargli chiedere il pensionamento anticipato-, senza possibilità di appello. E la sua è di morire sola, vergine e in compagnia di cinque gatti, tutti di nome Sasuke.
Risponderle, come sempre, mi sembra superfluo: servirebbe solo a ricordarmi che, se si mette in testa qualcosa, è irremovibile. E in questo momento Sakura è convinta di morire vergine, per cui tutto ciò che posso fare è sperare che domani si convinca di voler fare l'astronauta, o anche la commessa, poco importa.
- Morirò vergine con i miei Sasuke. -
I cinque gatti, per l'appunto.
Gatti che, per scaramanzia, sarebbero stati tutti neri, pelosi, irascibili e randagi, a ricordarle che sarebbe stata sempre vergine per lui, se non fisicamente, almeno mentalmente.

Quanto a me, vivo da sola. Vivevo da sola almeno, fino al momento in cui il mio monolocale non è stato invaso dalla mia vicina di casa, piangente e mezza nuda, che si lamentava del fatto che il suo fidanzato immaginario fosse gay e si sbattesse l'altro suo fidanzato immaginario, quello a cui da bambina aveva brutalmente spezzato il cuoricino e rubato i cioccolatini, accusandomi nel mentre di non aver fatto nulla per impedir loro di fornicare in palestra, sul balcone di fronte e nel vicolo che separa i due condomini.
Perchè lei si era già immaginata tutto: il matrimonio a Phoenix in primavera in quella deliziosa chiesetta all'incrocio tra la seconda e la quarta, lui in smoking nero e lei bellissima, la loro casa senza vialetto a tre piani, con mansarda e suite matrimoniale e gli apericena a bordo piscina con gli amici.
Scoprirlo omosessuale aveva sconvolto i suoi piani e l'ennesima delle sue predizioni, mandandola in crisi. Crisi iniziata in quarta liceo, quando mostrargli le sue allora inesistenti tette aveva suscitato solo la sua ilarità, un mezzo sorriso di compatimento e nemmeno l'ombra della reazione che un qualunque ragazzo avrebbe dovuto avere, e culminata con l'accettazione nel suo futuro della presenza di Sasuke in sola veste di gatto nero, obeso, e drogato di scatolette da discount.
Credo lo amasse veramente, quel ragazzo tanto introverso da sembrare sociopatico. Credo lo amasse dalla prima liceo, quando le aveva chiesto, - ordinato a mio avviso - di levarsi di torno per lasciagli il suo posto. Casualmente accanto alla sua attuale e indefinita relazione.
Inutili congetture, a suo dire.
- Moriremo tutte e due vergini. -
La guardo da dietro il giornale che sto leggendo, sdraiata sul tavolo della cucina con le gambe all'aria, mentre lo smalto non accenna ad asciugarsi; è sdraiata sul mio letto e si sta torturando i capelli, mentre con la mano libera disegna lettere all'aria. Anche il suo smalto non accenna a volersi asciugare, eppure non se ne cura, poggiando le gambe sulle lenzuola bianche, quelle vinte alla pesca di beneficenza da sua nonna, ora imbrattate di viola.
So che amava Sasuke Uchiha, e altrettanto bene so che a lui, di quella ragazza impacciata e collerica con i capelli color confetto, non fotteva assolutamente nulla. Non erano amici e non erano amanti, solo compagni di scuola, in quel collegio dove ogni giorno ci si dimenticava un volto.
- Potresti evitare di comprendere anche me in questo tuo scenario apocalittico? - chiedo.
Sakura scatta a sedere, guardandomi allucinata.
- E i moschettieri? - mi chiede, alzando le braccia al cielo nel modo più teatrale possibile, piombando poi in uno stato di trans.
Il laboratorio di teatro ha lasciato strascichi indelebili in lei, rendendola, al momento opportuno, una perfetta vittima di questo crudele ed indigesto mondo. So che intenderebbe dire ingiusto, ma preferisce definirlo indigesto, in conformità con quella originalità che non l'ha mai abbandonata e che ora trova la massima espressione nei suoi capelli rosa e cotonati male, profumati di lavanda e sigaretta.
Sbuffo, tornando al mio Vogue.
So cosa vorrebbe dirmi: che in questa cosa chiamata merda ci siamo entrambe, che essere innamorati di un gay dichiarato non è peggio di esserlo del proprio ex ragazzo, mollato il giorno di Natale, dopo quell' incontro troppo ravvicinato con la sua famiglia e la consapevolezza che lì, tra quelle quattro mura alla periferia di New Orleans, mi sentivo troppo a casa per i miei gusti. Rido, ripensando allo zelo della sua famiglia nell'accogliermi e presentarmi ai parenti, nell'offrirmi spumante e gamberetti in salsa rosa, sorrisi e abbracci. E piango, pensando a come mi sentivo in quei mesi appena finiti, conclusi con la scusa di un telefono scarico ed un trasloco improvviso.
- Lo pensi ancora? - chiede, e poi tace.
La imito, incapace di esprimermi come vorrei e dovrei. Sono sempre stata quella di troppe parole, mentre ora, paradossalmente, tutto ciò che riesco a dire è " ombrellone ", la parola che usavo a diciotto anni per mascherare non troppo abilmente il fatto che stessi per offendere qualcuno. Eppure, in questo momento, mi rendo conto che non va bene neppure quella parola che mi aveva sempre salvata dal silenzio assordante che riempiva molti momenti.
Taciamo per una buona mezzora, io ancora con le gambe all'aria e questo smalto scadente ad imbrattarmi la pelle attorno all'unghia, lei sdraiata a macchiare le lenzuola candide, usate per qualche scopata occasionale, senza che nessuno, a parte me e Sakura, vi fosse davvero rimasto per più di una notte.
- Sushi? - mi chiede, rompendo l'atmosfera pesante che si era creata.
Ed io annuisco, mi infilo le espadrillas verde fluo ed una canotta mentre Sakura spulcia nel mio armadio alla ricerca di quella maledetta magliettina succinta rosa gelly che le faceva tante tette e poco cervello. La guardo trafficare nel disordine di abiti sporchi ammucchiati nell'angolino destro e quelli puliti, non stirati ovviamente, accatastati in quello sinistro, mentre mi parla di quanto io debba assolutamente conoscere il nuovo cameriere del nostro ristorantino di fiducia.
- Mi sembra uno di quelli insomma, uno dei surplus - dice, tutta convinta, gesticolando animatamente quando riemerge dal caos che regna sovrano nel mio guardaroba, ora nostro.
Nel linguaggio di Sakura un surplus è uno da una botta e via, così chiamato perchè, a detta sua, ha la classica espressione di chi "ha preso più vagine che cappuccini ". Espressione da me non ancora identificata, ma poco importa, è Sakura il segugio.
Ho il telefono scarico e sono senza ombrello, sono struccata e sono già le otto.
Usciamo di casa senza chiavi, senza mutande e senza inibizioni.
Voglio conoscere quel surplus.
Voglio essere felice.





'Cause when I'm with him 
I am thinking of you 
Thinking of you 



Voglio morire.
Inizio a pensare che non sia così male conoscerla, la signora nera incappucciata. Spero non somigli a mia madre, nè alla mia ex suocera.
I nigiri al salmone sono l'unico lato positivo di questa serata iniziata male e credo, destinata a finire peggio.
Non vedo Sakura da quando siamo entrate nel ristorante; non appena ha visto l'oggetto dei suoi pensieri, che ha per altro occupato tutto il tragitto a piedi, quello in autobus, e quello in compagnia del solito venditore ambulante di ombrellini difettati, è scomparsa, appoggiata al bancone bar con aria sognante e troppo Gin Tonic in circolo. La sento ridere, parlare di gatti, di preservativi e di sogni infranti, anche se fondamentalmente non la ascolto.
Ride, in quel modo artefatto che mi da sui nervi, mentre io non posso fare altro che ingozzarmi di cibo e pregare che il cameriere giapponese superdotato non sia la sua massima aspirazione nella vita e che, sopratutto, non entri nel mio letto già macchiato di smalto. 
Scuoto la testa: Sakura è vergine e convinta di conservare quel piccolo dono per chi davero l'avrebbe potuto apprezzare, devo avere fiducia.
Tengo lo sguardo sul piatto, convinta, senza mai schiodarlo dalla decorazione ornitologica che adorna le stoviglie di seconda mano che ho davanti. Venivamo qui un tempo, quando eravamo felici e progettavamo di vivere in Italia sulla riva del lago di Como, in quella villa che avevo visto anni fa su una rivista e che ora, con annessa la pubblicità del fluido anticellulite, sta appesa al muro della mia stanza, accanto al poster di Robbie Williams nei suoi anni d'oro.
Non voglio guardare le pareti, i quadri, la carta da parati rossa e verde. Non voglio ricordarmi che un tempo, quando tutto era bello, filava e si poteva ancora sognare, amavo bere sakè in abiti da sera e tacchi a spillo. Non voglio ammettere che mi manca e pagherei, sangue sudore e lacrime per riavere ciò che ho buttato nel cesso e che ora, a distanza di qualche anno, rivivo ancora con tanta fatica e la nausea lì, ad attendermi e a stringermi lo stomaco, togliendomi il sonno.
Sento il campanello che suona, segno dell'arrivo di qualche cliente.
Sento anche il rumore di tacchi a spillo, non troppo alti, che con ben poca eleganza e ritmo si dirigono nella mia direzione, qualche tavolo più in là forse, accompagnati da un profumo forte che mi ricorda i biscotti di Natale e quelli della nonna, chiusi nel barattolo di latta che sarà poi destinato ai mille mila fili e aghi da cucito. Ed insieme a quel pungente aroma uno delicato, fine, maschile, che mi solletica le narici e mi riporta indietro alle grandi città.
Non oso alzare la testa, nè confrontarmi con i ricordi che riemergono dal tunnel in cui la mia coscienza, armata di vanga e piccone, li ha democraticamente stipati in compagnia del mio primo bacio, il mio primo amore e di tutte quelle prime volte disastrose che ingrigiscono la reputazione di ogni femme fatale.
Addento l'ennesimo maki imbevuto di salsa di soia e chiudo gli occhi, seminascosta dalla colonna crema che spezza la monotonia dei tavolini del locale. Era il nostro tavolo, quello dall'altra parte della colonna; ora sto dalla parte opposta, nascosta alla vista di chi entra e di chi esce, alle volte anche di chi mi circonda. Non voglio essere additata come la single disperata in cerca d'amore, di pena e di sguardi; sono forte, lo sento, mi sento capace di sopravvivere senza il peso degli sguardi altrui, senza la realizzazione nascosta dietro quel portone. E so che quella dannata porta sta lì, socchiusa, con quello spiraglio che mi invita a mandare a quel paese la mia coscienza e ad andare a dissotterrare tutto, dal college a mia madre, perchè la tentazione di poter rivivere qualcosa di così grande è forte, pulsa, esattamente come farebbe un cuore.
Sakura mi raggiunge, sedendosi di fronte a me.
Ha un sorriso felice e i capelli scompigliati, un succhiotto sul collo e il rossetto sbavato. Ha l'aria di una donna, una vera, le mani intrecciate e i denti bianchissimi; vorrei essere felice per lei, gridarle di buttarsi in questa nuova avventura, senza pensare ai gatti, al passato, al biondino che si sbatte il suo unico amore, a me. Vorrei prendere quel surplus e dirlo anche a lui, di dare una botta di vita a Sakura, e una botta a lei direttamente, che ha bisogno di voltare pagina e ricominciare. E poco importa che ascolti Nirvana remixati e One Direction, che ami più Star Trek della sua igiene personale, o che sia semplicemente un nerd con più voglia di passare le nottate al pc che in un letto caldo in compagnia di una bella ragazza: voglio che Sakura si immagini un futuro vero, una casa, uan carriera, un marito, magari senza amarlo come avrebbe amato Sasuke Uchiha, ma comunque felice, per sempre.
- Mi guardi come se fossi una povera scema. -
Scuoto la testa, sono sempre fraintendibile.
- Mi ha detto che è stato qui il mese scorso, con una donna, li ha serviti Ten Ten. -
Ogni volta che veniamo qui lei chiede ciò che io non ho il coraggio nemmeno di pensare, troppo presa a ricordarmi che no, non devo sapere che fine ha fatto il mio passato, che non lo voglio sapere, perchè mi bastano i miei unicorni depressi che mi impongono la felicità attraverso Absolut e scopate occasionali, consumate con il terrore di un preservativo rotto o una pillola dimenticata. Amo i miei unicorni e loro amano me, lì nel mio cervello, a ingabbiare la mia coscienza che, sotto sotto, sebbene abbia sepolto ciò che mi faceva tanto male, è ancora in agguato per farmi cambiare idea riguardo il mio futuro di parrucchiera perditempo.
Eppure stavolta non sento nessun unicorno gridarmi nella testa, nessuna critica, nessuna morsa allo stomaco: non sento semplicemente nulla di ciò che dovrei, se non il sapore della realtà che infida, si insinua nella mia mente. Che poi, infida non credo sia il termine esatto; la paragonerei più ad una mandria di gnu, quella del Re Leone, che travolge tutto senza esclusione di colpi, anche Mufasa, paragonabile a me e alla mia maledetta tendenza ad aggrapparmi alla menzogna che ho traslocato per le bollette troppo alte, per avere un appartamento migliore, più centrale, per essere felice.
Pagherei gli unicorni in questo momento perchè mi intontiscano ancora non le loro vocine. Ma l'inusuale silenzio che aleggia tra i miei neuroni mi spinge a credere che questa volta abbia vinto la mia coscienza, e che assieme a tutto ciò che non voglio vedere abbia sepolto anche loro.
- Voglio rivederlo. -
E Sakura sorride, porgendomi un indirizzo.
Inizio a pensare che la mia coscienza altro non sia che lei, tramutatasi in un'amica con i capelli rosa confetto ed una vita disastrata.
Guardo il foglietto pieghettato, leggendovi il nome di una vecchia via tra la periferia e il centro città.
E sorrido io adesso.
Che forse quegli unicorni non mi mancheranno per niente.





I know this is a feeling that I just can’t fight. 
You’re the first and last thing on my mind. 
You make me wanna love, you make me wanna fall. 





Non ho voluto Sakura con me stanotte.
Siamo io e la mia coscienza, quella vera, che applaude sorniona al mio gesto sconsiderato di attraversare la città alle tre del mattino, in pigiama e pantofole, senza telefono, ancora senza mutande. Questa volta però, con un progetto che non vuole sfociare in una mera notte di passione senza nessuna conseguenza nè coinvolgimento.
Non so esattamente perchè sono venuta in questo stato: avrei potuto vestirmi bene, riesumare qualche vestito decente, truccarmi e lavarmi la faccia con quel meraviglioso detergente che profuma di vaniglia, mettermi il profumo e comprare una bottiglia di spumante. Invece indosso pantaloni sgualciti, macchiati di sugo e olio, di quell'odioso detersivo che puzza di marcio e una maglia rosa troppo lunga, abbinata alle pantofole pelose, spelacchiate e vecchie. Sono spettinata, la coda bassa e le occhiaie profonde, scavate nelle mie guance. Eppure non vorrei essere altrove e nemmeno in uno stato migliore.
Guardo il condominio davanti ai miei occhi, lussuoso rispetto a quello in cui vivo io, normale rispetto alla media; mi ricorda quello del film La casa sul lago del tempo, con gli alberi all'esterno a contornare il marciapiede e le luci della portineria, a renderlo dorato, imponente, seppur accogliente e famigliare. E' quella classica struttura dove ti immagini le famiglie di ceto medio, il padre con la ventiquattrore e la madre insegnate, con i figli che frequentano l'asilo di quartiere mentre guardano Bambi dopo pranzo assieme ai fratellini e alle sorelline minori. E te li immagini crescere lì dentro, con il fidanzatino che aspetta la ragazzina all'angolo per prendere il gelato assieme, che entra di nascosto dal portinaio a sedici anni e che, infine, a trenta, accompagna all'auto sua moglie, venuta a trovare i genitori.
Sospiro, mentre un curioso portinaio mi fissa da dietro il vetro della porta.
Lo fisso di rimando, e non posso fare a meno di pensare che mi ricordi tremendamente uno stoccafisso ingessato nel suo completo rosso e nero, come quello dei film, mentre fuma la sigaretta che probabilmente segna la sua pausa dal lavoro. Gli sorrido e lui ricambia, con quei capelli che si intonano tanto alla sua uniforme e quegli occhi che intuisco essere contornati di matita nera; guardandolo bene scorgo un bracciale borchiato, degli anfibi e una cintura nera e istintivamente mi fido di più di quell'essere tanto freddo quanto cordiale, quando mi apre la porta e non fa domande.
- Shikamaru Nara abita qui? -
Annuisce.
- Secondo piano, appartamento 58. -
Un cenno con la testa e mi indica l'ascensore davanti a me. Ma non lo ascolto, ho smesso di farlo quando ha annuito; mi sento un automa quando premo il pulsante e le porte si aprono, quando si chiudono davanti ai miei occhi e sento l'elevatore salire, prima di giungere alla mia destinazione. Corro, guardando i numeri degli appartamenti susseguirsi, dal cinquanta al sessanta, prima di fermarmi e fare un unico passo indietro per accostarmi alla porta che stavo cercando.
Sempre con porte devo avere a che fare; quella del mio passato da sempre socchiusa, rossa, come la passione che l'aveva sempre caratterizzato da che l'aveva conosciuto, e anche prima, quando l'unica cosa chiara che aveva nella vita era il fatto di volersi divertire, di essere libera come quegli uccelli che vedeva volare nel cielo tra l'ora di matematica del professor Iruka e quella di storia della professoressa Tsunade. MI piaceva quella porta, mi è sempre piaciuta, forse è per questo che non l'ho mai chiusa per davvero del tutto, per poterci sbirciare e vedere come da lontano sembrassi davvero felice ai miei occhi, quando vedevo Big Bang Theory con troppi pop corn e voglia di fare sesso.
E quella di camera mia anche, bianca, con le foto della mia infanzia in altalena, qualche adesivo dei Pokemon e pezzi di stoffa logora appartenuti ai miei body di danza classica e moderna, per non dimenticarmi chi sono stata davvero, una bambina felice.
Non ho un copione, non ho un discorso nè delle parole sensate.
Ho delle pantofole, una maglia troppo larga e dei capelli biondi estremamente lisci, profumati di lavanda, che a me tanto piace.
Sono le tre del mattino e i miei unicorni hanno finalmente taciuto quando suono quel campanello, nascondendomi dallo spioncino; non voglio che mi veda attraverso un disco di vetro che mi fa sembrare grassa, bassa e deforme, nè che mi veda prima di quando possa farlo io, rifiutandosi di incontrarmi perchè a causa di quel vetrino appaio più simile ad un pesce di quanto in realtà non sia.  Non voglio vederlo prima che sia lui a vedere me, non voglio che sia un'ombra al di sotto di una porta a rendermi schiava per il resto della vita di un ricordo sbiadito.
Ma ancora sorrido, quando premo di nuovo il tasto bianco accanto allo stipite marrone, quando per la terza volta, la quarta e la quinta ritento.
Quando busso.
Quando impreco.
E quando infine realizzo che quella casa è vuota.
Esattamente come me.






I'll never be the same - if we ever meet again
Won't let you get away-ay - say, if we ever meet again






- Non hai bevuto il latte. -
Sakura mi guarda storta, mentre mangia il suo croissant alla ciliegia, quello della Bauli che vendono al distributore di merendine sotto casa. Somiglia molto ad una madre in questo momento, di quelle severe che impongono le verdure ai propri figli, assieme al calcio al karate e alla pallavolo.
Non ho voglia di parlarle.
Allunga una mano a stringere la mia, delicata, questa volta come una sorella preoccupata per me, sinceramente. In effetti il mio aspetto lascia parecchio a desiderare: le occhiaie profonde, ancora più scavate dalla sera prima, i capelli arruffati, le labbra screpolate. Mi sento uno straccio consunto dal tempo e dalle emozioni, logoro, poggiato sull'angolo del lavello quell'attimo prima di essere buttato nella spazzatura, perchè ormai incapace di pulire davvero. Non l'ho visto, nè lui, nè la sua ombra, anche quando mi sono messa davanti allo spioncino di casa, sperando mi vedesse, si affacciasse da dietro quella porta chiusa ermeticamente.
- Non l'hai visto vero? -
Scuoto la testa, piangendo.
Avrei davvero voluto entrare in casa sua, salutarlo, prenderci un caffè e parlargli dei miei unicorni, quelli bianchi, che quelli rosa sono più antipatici. Sakura si alza dallo sgabello e viene ad abbracciarmi, stretta, lasciando che le mie lacrime si asciughino sulla maglia nera che indossa, quella dei Nirvana, con un piccolo divieto sul termine remix che campeggia sul suo seno sinistro, in segno che no, non vuole voltare pagina lei, che sta bene con i suoi gatti neri di nome Sasuke e il suo divano fiorato in quel monolocale in centro città. Alla fine penso, la periferia non è neppure così bella.
- Sushi? -
Sono solo le dieci, rifiuto con un cenno e le chiedo di stare sola. Voglio andare al parco, a fissare gli uccelli, vederli volare nel cielo blu che mi ricorda tanto il mare, il lago di Como e la maglia del pigiama che era solito indossare prima che gliela togliessi, che facessimo l'amore. Voglio prendermi un gelato alla fragola, alla mela e al lampone, fare una passeggiata, contare i cigni del lago come facevo da bambina e andare allo zoo, che Madagascar mi ha ispirata spesso ad andarci. Mi vesto di fretta, quei pantaloncini che ancora non puzzano di usato e un golf leggero vista la stagione imprevedibile. Rimango in infradito e prendo il telefono mentre mi chiudo la porta di casa alle spalle, salutando Sakura che scende le scale poco avanti a me, strizzandomi l'occhio.
Cammino attraverso le strade gremite di gente. Ho sempre amato New York anche per la vitalità che emana da lontano, anche in Europa, anche nei piccoli paesi sperduti; le persone che camminano ad ogni ora del giorno, le caffetterie ad ogni angolo, i locali illuminati a giorno anche durante la notte, la vita che scorre nei taxi e nei cappuccini caldi di metà giornata, nelle ventiquattrore nere di pelle e negli incontri casuali che puoi fare sulla settima, tra il supermercato e il negozio di scarpe.
Quando raggiungo il parco ancora sorrido pensando alla bellezza della Grande Mela.
Guardo il camioncino dei gelati, il carretto dei coni di pizza con doppio formaggio filante ed il giornalaio; hanno in comune il sorriso e la cordialità con cui si rapportano alla gente, le guance rosse e la carnagione chiara. Saluto il pizzaiolo, Choji, il ragazzo che andava matto per il cibo e la buona cucina e la sua compagna, lì accanto a lui, mentre servono un uomo d'affari ingessato nel suo completo nero, serio, anche mentre addenta quel cibo che ha tutto fuorchè le raccomandazioni dei dietologi.
Continuo a camminare, a camminare, e ancora a camminare, persa nei ricordi del college e del liceo, quando eravamo una famiglia ancora, di quelle vere, dove tutti si amavano all'oscuro dell'altro e si immaginavano solo di poter scopare con la loro cotta, quella della quinta C, stretta nella divisa scolastica del tempo, o in quella dell'università. Mi siedo su di una panchina solo quando iniziano a dolermi i polpacci per la lunga camminata, rilassandomi contro lo schienale di legno e chiudendo gli occhi; il profumo dell'autunno si avvicina, le foglie iniziano a cadere ed io mi innamoro sempre più dei colori del mondo e di questa città, delle piante rosse e gialle e dell'erba appena tagliata.
Mi manca la mia infanzia.
Un leggero movimento d'aria mi mette i brividi, tanto da farmi aprire gli occhi.
Il sole è stato coperto da una nuvola passeggera, spezzando il tepore da cui ero avvolta.
- Non sei mai stata brava ad azzeccare la stagione. -
Non li ho aperti davvero, quei dannati occhi. Ho gli occhi chiusi e gli unicorni han sconfitto la mia coscienza, quelli rosa, quelli antipatici.
- Se sei un miraggio sei pregato di andare a farti fottere. -
Sorride l'allucinazione, mentre si siede accanto a me. Ha la coda alta e nera, più lunga di come la ricordavo, più da uomo; indossa uno di quegli smoking da rivista, da Vogue, che non avrei mai pensato di vedergli addosso nemmeno in punto di morte. Lo immaginavo con la maglietta dei Metallica e i jeans strappati che aveva rubato alle superiori a quello che a suo dire, si sbatteva la sua attuale ragazza, ma mai, mai, con un completo tanto elegante. da farlo sembrare irreale anche a me, che con lui avevo condiviso tutto, dal primo all'ultimo gemito, dal primo all'ultimo giorno, prima di scappare.
Sbuffa.
- Vieni a prenderti un caffè, mi annoiano gli insulti. -
Sbuffo io ora.
- Pago io il tuo latte. -
Sorrido, seguendolo.
Degli unicorni ancora nessuna traccia.






And I’m thinking ‘bout how people fall in love in mysterious ways
Maybe just the touch of a hand
Oh me I fall in love with you every single day





Sorrido.
Indosso un abito rosso e sandali bassi, ho i capelli sciolti e l'umore giusto per andare ad un matrimonio in Central Park. Lo scialle mi ripara le spalle dall'aria che tira in questo periodo, la fine di ottobre. Sakura, accanto a me, cammina svelta, un abito verde e delle scarpe da tennis, una spilla con il divieto sulla parola remix, un gatto al guinzaglio, il primo Sasuke.
Nel mio appartamento un divano fiorato, il primo di una lunga serie.
Mi stringe il polso e ride alla consapevolezza che siamo felici, finalmente, lei con il suo gatto ed io con lei.
Arriviamo alla porta dell'edificio maestoso ed imponente, gotico forse, grande tanto da farmi sentire un granello di polvere sulla mensola dei dvd, dei cd, incrostato tra la copertina di Alexander e Shall we dance?. La porta è marrone, diversa, aperta spalancata sulla navata lunga ed addobbata con fiori freschi e nastri blu scuro, in tinta con lo smoking dello sposo, già in piedi davanti all'altare, impaziente.
Mi guarda e io guardo lui.
Non sta aspettando me.
Mi avvio lungo la navata a passo svelto, voglio congratularmi, salutare e dirgli che non me lo sarei mai aspettata questo finale, un po' come quello di How I Met Your Mother, che mi ha lasciato l'amaro in bocca ed allo stesso tempo il sollievo nel petto. E quando gli stringo la mano sorridendogli, ghigna, come è sempre stato solito fare, che un Uchiha si limita a questo, nulla di più; ricordo di averlo visto sorridere solo alla laurea, quando era accanto a Naruto, con la toga e il tocco neri per celebrare ciò che per lungo tempo avevano atteso, la libertà.
Sakura gli stringe la mano, gli presenta il peloso e noto anche da lontano lo stupore velato negli occhi del moro quando tutta contenta si allontana anche lei, sedendosi accanto a me.
- Cosa gli hai detto? -
- Gli ho solo presentato il primo dei miei cinque Sasuke, vero cucciolo? -
Strofina il micio contro al suo naso, facendolo distendere per la piacevole sensazione di coccole gratuite.
Sorrido ancora, sono felice.
E quando lui entra dalla porta e mi cerca con lo sguardo mi sento ancora più sollevata, non felice, sollevata, come se avessi espulso tutta l'aria pesante che mi grava sullo stomaco da anni, millenni, forse di più. Lo guardo di rimando, ci guardiamo e ci sorridiamo di sottecchi, mentre si avvicina e si siede tre file dietro di me, in jeans questa volta, con una semplice camicia e la solita coda da uomo maturo, che è davvero ciò che dimostra di essere.
La marcia nuziale inizia, Naruto stranamente in orario sulla soglia; niente bouquet, niente scarpe col tacco e niente abito bianco, ma uno smoking arancione inaspettato ed originale, un tatuaggio sul collo vicino al succhiotto rosso che non è stato coperto, un sorriso bianco come la neve e tutto l'amore del mondo. In mano una scatolina nera, un segreto che custodisce probabilmente, un simbolo.
Ed io sono felice per lui, davvero felice.
E quando sento le parole Lo voglio pronunciate con così tanta certezza e sicurezza, assieme all'affetto più puro e sincero, non posso che voltarmi a guardare l'uomo tre file dietro di me.
E lo trovo lì, che mi fissa di rimando.
Non stiamo assieme.
Ci prendiamo un caffè di tanto in tanto, quando il mondo smette di girare e il tempo di passare.
Quando lui non è con sua moglie ed io non sto al lavoro, o al parco, a far correre i miei pensieri.
Non ci amiamo più.
Ma siamo felici.
E finalmente, in pace.
Stranamente gli unicorni non hanno nulla da ridire.



















Angolo dell'autrice:
Avete già visto questa storia. Doveva essere una long rating rosso ed è diventata una One Shot rating giallo, in cui Naruto sposa Sasuke ed io mi sento cretina. Sarei scaduta nel banale, avrei fatto una storia cazzosa senza ne capo nè coda.
Questa, questa è più vera.
A presto,
Alu.



   
 
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