“Finché morte non vi separi…”
ATTO II
L’universo
poggia in perfetto equilibrio su di un filo invisibile, estrapolato dal caos
primordiale da cui il tutto ha avuto origine.
Dita
soprannaturali lo hanno srotolato con pazienza, palmo a palmo lo hanno
intrecciato di materia indistruttibile, ricavata dall’impasto di secrezioni
orali e polvere infinitesimale.
Flessibile
agli scuotimenti e pronto a rigenerarsi ad ogni strappo, il collasso di un
pianeta non è altro che un punto di sutura che cede d’improvviso: su un tessuto
di metraggio incalcolabile, seppure di manifattura divina, esistono difetti
lasciati apposta a decretarne l’autenticità.
Dal
caos, dunque, discendono perfezione ed equilibrio.
Stelle,
pianeti, galassie e sistemi, assecondando l’estro di un sarto raffinato e la
logica di una mente matematica, sono incastonati geometricamente su di un
drappo scuro impreziosito di diamanti, ma esiste un pianeta sul quale, per le
dimensioni assai ridotte, questa perfezione ed equilibrio, questa sintesi di
creatività e rigore, si sono concentrate più che su tutti gli altri.
Non
c’è filo d’erba che nasca tanto per spuntare, né granelli di polvere sospinti
dal vento solo per la leggerezza del loro essere.
Esegue
una danza su sé stesso senza improvvisazioni; con un ritmo sempre uguale,
scandisce l’alternarsi del giorno e della notte dall’origine della sua
creazione.
Gli
esseri che lo popolano hanno una mente talmente vivida da far credere quasi, a
chi viene da lontano, che abbiano creato loro l’aria, la luce, il fuoco, il
buio.
Sono
una popolazione folta, gran parte ammassata in spazi assai ristretti.
Amano
l’arte, la musica, fanno la guerra e l’amore.
Uomo
e donna, con la perfezione simmetrica dei rispettivi corpi, sono creati per
fondersi in una carne sola, di generazione in generazione, e la maggior parte
di essi, per assicurare la sopravvivenza della razza, non segue istinti
primitivi, ma si avvale di riti assai antichi che sanciscono la loro unione e
la rendono sacra.
Nessun
pianeta è talmente perfetto e bello quanto questo.
La
Terra.
***
Era
davvero graziosa vestita di bianco, il filo di perle intorno al collo, le
peonie color rosa tra le mani, un fiore bianco tra i capelli raccolti.
Per
tutti aveva avuto un sorriso, come si confà ad una sposa nel giorno più bello
della sua vita; un accenno appena abbozzato - seppur non ricambiato - persino
per il principe dei saiyan, che adesso se ne stava in
piedi, con la schiena poggiata contro la corteccia di un alto cedro del Libano
e le scarpe nere e lucide inzaccherate di terriccio e di fili d’erba.
Non
c’era stato modo di convincerlo ad indossare una cravatta, ma la camicia grigio
chiaro, nella quale se ne stavano compressi i suoi muscoli, camuffate le
cicatrici, sedate le vene pulsanti di istinti guerrieri, era di manifattura
assai elegante ed emanava un pallido riflesso ai raggi del sole.
A
sancire la libertà di quel pomo d’Adamo sempre proteso ed indurito, neppure
l’ultimo bottone era stato agganciato.
Così
agghindato, nel punto preciso in cui l’invalicabile natura aliena diradava
verso quella appena più umana e dove Bulma era
incappata qualche anno addietro, si accentuava del suo aspetto quel non so che
di fascino selvatico e tenebroso.
Son
Goku sopraggiunse alle sue spalle.
Pure
lui, dismessa la consueta tuta arancione, faceva insolitamente sfoggio di una
giacca nera ed una cravatta bianca, della quale, se non fosse stata per
l’intransigente moglie Chichi, avrebbe fatto
volentieri a meno.
Un
saiyan costretto a mangiare con la cravatta non è
diverso da un fuggiasco costretto a correre con le catene ai piedi.
“E’
da cafoni togliersi la giacca. Non è un pranzo qualunque, siamo ad un
matrimonio”, si era sentito rimbeccare davanti all’enorme arrosto di cinghiale,
tutto per lui, portato sulla spalla da quattro camerieri in divisa bianca.
In
un banchetto tanto lauto, tra profumi di spezie, carni alla brace, pesci
fritti, pregiati calici di vino, cesti di frutta di ogni specie, pignatte di nabemono, vassoi
zeppi di onigiri,
piatti traboccanti di gyoza
con salsa di soia e di aceto di riso, era difficile esigere compostezza persino
da un terrestre a dieta.
Figurarsi
un alieno, e tra quelli più ingordi, per giunta!
Così,
avendo ingaggiato una strenua battaglia contro quel nodo scorsoio che aveva al
collo e le scarpe che gli andavano strette sotto al tavolo, con la compostezza
di un terrestre e la voracità di un saiyan, aveva
inghiottito tutto quello che gli era stato portato avanti, nell’ordine rigoroso
indicato dal papiro arrotolato su ogni tavolo.
Non
solo aveva consultato il menù a più riprese per assicurarsi che ogni portata
non fosse l’ultima, ma addirittura aveva chiesto a Chichi
di conservarlo e di portarlo a casa, così da riproporre a pranzo o a cena, in
un giorno qualsiasi, almeno la metà di quello elencato.
“Scommetto
che anche tu detesti ballare”, disse allentando il famigerato nodo al collo e
lanciando finalmente un sospiro di liberazione.
Su
per l’esofago, di riflesso, gli ritornò il sapore piccante del brodo di polipo.
Da
lontano sopraggiungeva una danza popolare eseguita al ritmo dei taiko e con le
corde dei biwa.
Vegeta
continuò a restare nella posa granitica di chi non si sarebbe schiodato da lì
neppure in cambio della vita eterna.
Non
che questa gli suscitasse interesse - sia chiaro - in quella fase della sua
vita, dove il radar cerca-sfere era a portata di mano nel cassetto di Bulma accanto al letto, tra le mutandine ricamate, i
reggicalze, il sacchetto di lavanda e le pillole anticoncezionali.
“Mai
mi metterei a ballare”, seguitò Goku, osservando una lucertola attraversare
pericolosamente un ramo, appena al di sopra della spalla di Vegeta. “Forse, lo
farei soltanto se, mettiamo il caso, da questo dipendesse il futuro della
Terra…”, la mise in salvo, deviandola in direzione della sua mano e adagiandola
sul terreno.
“In
tal caso, per me la Terra potrebbe pure collassare”, ribatté Vegeta.
Fu
quando egli tolse le mani dalle tasche dei pantaloni, per incrociarle
significativamente al petto, che Goku si accorse di una macchia scura che
ghermiva poco alla volta il polso sinistro.
“Ehi,
ti sei ferito?”, gli indicò il polsino della camicia.
A
Goku parve proprio sangue e non cioccolato e - poiché il suo interlocutore
aveva un passato di stragista intergalattico - si guardò intorno per vedere se
tra l’erba spuntava il cadavere di qualcuno, magari proprio di quel cameriere
con i baffi rossi che, per ben due volte, aveva dimenticato di passare con il
vassoio di yakitori
arrostiti intorno al suo tavolo.
Solo
un istante durò la contrazione preoccupata ai lati dell’ampia stempiatura:
“Bada
agli affari tuoi. Neppure la tua cravatta è pulita”, accennò ad una chiazza
giallognola di fritto e tornò a fiondare le mani nelle tasche, al sicuro.
Un
calpestio di erba annunciò l’arrivo di Bulma, ed il
principe dei saiyan, allora, capì che la quiete di
quel cedro del Libano, conquistata alla fine del banchetto, quando ormai
l’ultimo vassoio di cubetti di gelatina alla frutta era stato portato via e
sugli orli dei bicchieri erano rimaste soltanto le impronte unte delle loro
labbra, era irrimediabilmente compromessa.
“Ti
stavo cercando per la fotografia di rito…”.
E
allora Goku vide le fronde dell’albero scuotersi all’improvviso e non era certo
che fosse stato il vento.
“Questo
è troppo, ti basta Trunks al mio posto!”.
“E
dai! Cosa vuoi che sia una fotografia? Persino Piccolo si è messo in fila!”.
E
dove non riusciva più la prospettiva di vita eterna, ci riuscivano due occhi
azzurri ed una graziosissima frangetta dello stesso colore.
Pure
un bel paio di gambe e due turgidi seni, si sarebbe aggiunto in uno spogliatoio
di uomini.
Si
schiodò alla fine da quel tronco e si incamminò con lei, ma soltanto quando gli
fu garantito che non c’era nulla per cui mettersi in posa, che lo scatto
sarebbe stato rapido ed indolore, che non era tenuto a guardare l’obiettivo,
che Trunks aveva tutto il diritto di conservare per
intero il ricordo di quel giorno che ormai volgeva al termine.
Per
non affondare con le scarpe nel terriccio più molle, Bulma
dovette allungare una gamba e sondare la stabilità di una zolla ghiaiosa, ma
per farlo poggiò la mano sulla spalla di Vegeta, producendo un tintinnio tra i
grossi bracciali con cui aveva coperto il polso sinistro.
Il
saiyan registrò quel dettaglio con un’altra di quelle
sue contrazioni ai lati dell’ampia stempiatura, ma non disse nulla.
“Non
riesco a capire per quale ragione Gohan e Videl si siano voluti sposare in questo posto!”, si lamentò
la donna. “Potevano permettersi gli alberghi più lussuosi, le residenze più
eleganti, per non parlare della villa di suo padre! Avrei messo a disposizione,
volentieri, anche i giardini di casa nostra!”.
Ma
Videl, prima di archiviare il costume da paladina
della giustizia nell’armadio, si era conservata gli ultimi scampoli di
mascolinità giusto per imporre, contro il parere di Mister Satan,
una cerimonia semplice, senza troppi fronzoli; e così, alla fine, era stata
allestita una grossa tenda berbera, color dell’oro, ai piedi dei Monti Paoz, accanto ad un suggestivo casale con le assi di legno
e le tendine di velluto antico.
Mister
Satan aveva dovuto rassegnarsi ad accompagnare la
figlia senza la presenza delle telecamere, su di un tappeto bianco neppure
tanto lungo, dispiegato tra fiori di campo con le teste all’ingiù.
La
pioggia della notte, infatti, aveva impaludato il terreno circostante ed anche
ora, sull’imbrunire, le nuvole avevano ripreso ad ammucchiarsi con intenzioni
minacciose.
“Tanto
valeva che organizzassero un picnic sull’erba!”, seguitò a lagnarsi, schivando
appena in tempo un’altra pozzanghera, senza che Vegeta le rivolgesse un minimo
di attenzione o le offrisse un’altra spalla.
Ma
tra i tavoli di vimini disposti sotto la tenda berbera, addobbati con vasi di
ranuncoli selvatici, non si era badata ad alcuna forma di risparmio ed i
migliori chef erano stati convocati per satollare intestini fuori dal normale.
Lì
si erano radunati gli amici più intimi, quelli di ogni battaglia, di ogni
nemico.
Giusto
qualche mese dopo la sconfitta di Majinbu, Muten si era domandato, sulla sdraio della sua isoletta,
sventolando l’invito ricevuto, se la fretta di quelle nozze fosse dovuta ad
un’imprudenza commessa da Gohan.
Ma
Gohan era un ragazzo a posto, che aveva soltanto
voglia di sposare quanto prima la sua prima ed unica ragazza, emancipandola da
un padre un tantino geloso.
Lo
conosceva bene sua madre Chichi, che per la prima
volta, dinanzi alla prospettiva di imparentarsi con Mister Satan
e con tutto il suo impero - guai prima a ricordarle che questo fosse stato
conquistato a spese di suo marito! - non aveva pensato su quale spiaggia gli
studi di suo figlio sarebbero andati a naufragare dopo il viaggio di nozze.
Anzi,
era fermamente convinta che la vita da sposato e, in seguito di padre, lo
avrebbero allontanato, una volta per tutte, da quel gruppetto di supereroi
fanatici di cui suo marito era il leader.
I
preparativi delle nozze, in effetti, avevano già smussato un po’ la massa
muscolare del ragazzo e l’oculista gli aveva riscontrato qualche cenno di
astigmatismo.
“Non
c’è niente di più romantico di un tramonto tra i monti Paoz!
Non dimenticherò mai i pomeriggi trascorsi insieme a Gohan,
lì ad allenarci!”, con questa osservazione tanto appassionata, inclusa nella
strategia di figlia femmina alla quale niente si nega, Videl
aveva guardato il buon Mister Satan, e questi non
aveva potuto far altro che sospirare in segno di resa - cosa che gli riusciva
assai bene - e dimenticare le schiere di giornalisti, le telecamere, i fuochi
d’artificio, i castelli, le isole private e accompagnare la sua prediletta su
di un tappeto bianco in mezzo a comunissimi fiori di campo, neppure tanto
rigogliosi.
Purtroppo,
la povera Videl, neanche a farle il peggiore dei
dispetti, aveva dovuto rinunciare ad assistere, proprio nel giorno più felice
della sua vita, al dipinto infuocato che il sole, al tramonto, abbozzava dietro
le cime smerlate dei monti Paoz.
Un
ticchettio leggero, difatti, prese a battere sul tessuto impermeabile della
tenda berbera quando Bulma raggiunse il gruppo, in
procinto di eseguire, ciascuno con le rispettive famiglie, la foto di rito con
gli sposi, seguita a debita distanza da un riluttante consorte, che, per la frazione
di un flash, volentieri avrebbe rispolverato il suo passato di stragista
intergalattico.
***
"Possiate essere
felici ogni giorno della vostra vita, nelle grandi e nelle piccole
cose...".
Bulma
aveva più dimestichezza con i numeri piuttosto che con le lettere, ma quel rigo
scribacchiato su di un cartoncino augurale di colore bianco, tanto per
accompagnare l'assegno sostanzioso che fungeva da regalo di nozze, era stato
scritto con il cuore.
Nessuno
meglio di lei sapeva come la felicità di una coppia risiedesse nelle piccole
cose di tutti i giorni: due tazze di cioccolato caldo mentre fuori piove, ad
esempio, oppure un risveglio indolente tra due possenti braccia e la scoperta di
non esserci finita lì per caso.
Nella
sua vita di coppia, persino un battito di ciglia, la carezza di una mano senza
guanto, un respiro accelerato al di fuori della stanza gravitazionale,
l'indugio di uno sguardo, una ruga in più ai lati della bocca avevano avuto importanza.
Così
sarebbe sempre stato.
E
quando persino un bacio a fior di labbra, scambiato d'improvviso in un momento
qualunque della giornata, riesce ad essere appagante quanto una notte
infuocata, è lì, allora, che si trova la felicità.
Il
rovescio della medaglia, semmai, è riflettere qualche istante in più del dovuto
se menzionare il nome di Vegeta in basso al cartoncino, e alla fine optare per
un più comodo "Con affetto, famiglia
Brief".
Gohan
si aggiustò gli occhiali sul naso per sincerarsi di averci visto giusto:
"E'
davvero generoso da parte tua... Sono senza parole!".
"Figurati!",
minimizzò Bulma."Sono cifre alle quali ti
abituerai. Piuttosto, fanne buon uso".
"Credo
che mi pagherò tutti gli studi universitari e anche oltre...".
"D'accordo",
gli strizzò un occhio. "Ma divertiti pure! Che darei per avere ancora la
vostra età!".
Ma
il seno, che spuntava al di sopra del voilà di un’elegante camiciola a pois con
le spalline basse, poteva ancora competere con quello di una ragazza dell’età
di Videl.
Ci
furono altri scambi di regali e molti altri brindisi.
La
sposa, ancora una volta, ringraziò i piccoli Goten e Trunks per il dono dell’acqua termale attinta direttamente
alla fonte.
Non
fu chiaro, sul finire della cerimonia, quando i due novelli sposi furono sul
punto di accomiatarsi in direzione del casale con le assi di legno e le tendine
di velluto - dove avrebbero trascorso la prima notte - da quale tavolo partì lo
scroscio di applausi, ma pure Dende, sacerdote di
quelle nozze, con lo slancio della sua giovane età, finì per unirsi al coro
acclamante “Bacio! Bacio!”, per poi incrociare lo sguardo severo di Piccolo e
tornare a piegare il collo intimidito.
“Tu
sei una divinità, queste cose lasciale ai terrestri!”.
Orbene,
se c’era un pesce fuor d’acqua a quel banchetto era proprio il namecciano, forse anche più di Vegeta, perché a lui
sfuggiva quella logica per cui un uomo, ad un certo punto della sua vita, ha
bisogno di trovarsi una donna e tra le tante ne sceglie una in particolare.
Vomitato
dalla scellerata bocca del suo genitore sotto forma di uovo, la gamma dei suoi
sentimenti non andava oltre quella di un padre per il figlio e tale era il suo
bene per Gohan.
Per
il resto, nell’attrazione tra terrestri e saiyan
percepiva qualcosa di torbido - seppure utile alla loro riproduzione e sancito
da riti sacri - che un cuore puro come il suo non ammetteva.
E
quell’impurità si fece ancora più ignota quando Muten,
un po’ su di giri, dopo il bacio casto che un imbarazzato Gohan
poggiò sulla bocca della sua sposa, esclamò: “Farebbero meglio a riscaldarsi un
po’ quei due…”.
Vegeta,
intanto, trovò più interessante osservare la pioggia che tornava a raccogliersi
nelle stesse pozzanghere scavate dalla notte prima.
Il
tappeto bianco era ormai un tutt’uno con il fango e con l’erba, anzi dava
l’impressione di essere una sequenza di grosse pietre di porfido.
Quando
vide gli sposi correre in direzione del casale ed il velo impigliarsi nella
porta sbattuta dal vento, trovò quell’immagine di un’eloquenza… sarcastica ed
intuì finalmente che quella giornata volgeva al termine.
Eppure,
quando si voltò, vide che gli ospiti se ne stavano ancora a chiacchierare,
comodamente in piedi, e che nessuno mostrava l’urgenza di volersi accomiatare,
tanto meno Bulma che, per tutta la giornata, non
aveva fatto altro che lamentarsi dell’unghia incarnita dell’alluce destro a
causa della scarpa troppo stretta.
Vegeta
pensò che le avrebbe incarnito anche l’altra unghia se solo ella gli avesse
chiesto di trattenersi ancora.
Terminato
un banchetto, un saiyan che si rispetti gira i tacchi
senza troppi convenevoli, ma Kakaroth non era un saiyan
come tutti gli altri e, libero dal nodo scorsoio della cravatta e dimenticata
la giacca nel bagno, se ne stava seduto sopra un tavolo ad inghiottire manciate
di confetti:
“Deliziosi
questi… gnam… gnam… ma a che gusto sono? Sembrano gnam… gnam… al sapore di
ricotta e pera! No… gnam gnam…”, arraffò da un’altra
ciotola. “Questi sanno di limone! Ah, che bontà! Io adoro i matrimoni! Ci
andrei anche solo per mangiare confetti!”.
“Anche
a me piacciono i matrimoni”, aggiunse Bulma. “Ma
bisognerebbe permettere agli invitati di venire scalzi. Ho i piedi distrutti!”.
“A
proposito…”, le fece Goku, puntando nella sua direzione un dito accusatore. “Tu
sei stata un po’ cattivella…”.
“Dici
a me?”, Bulma smise di centellinare lo champagne.
Per
la sua spontaneità ed il buonumore, Goku aveva la capacità innata di calamitare
l’attenzione di tutti e persino Vegeta si ritrovò a prestargli ascolto,
domandandosi, però, se i confetti fossero ripieni di vodka e di rum piuttosto
che di ricotta e pera.
Goten
e Trunks, invece, continuavano a rincorrersi tra i
tavoli, gettandosi l’uno contro l’altro i coriandoli bianchi sparati al momento della torta.
Agitati
dai loro sbuffi, parevano fiocchi di neve danzanti sopra i tavoli sparecchiati.
“Sì,
esatto. D’accordo che io ero all’altro mondo…”, mandò giù un altro pugno di
confetti al gusto di cocco. “Ma potevi almeno invitare Chichi
quando tu e Vegeta vi siete sposati”.
“Idiota
che non sei altro!”, l’apostrofò questi.
Nell’impeto,
liberò la mano sinistra dalla tasca dei pantaloni, ma nessuno si accorse del
sangue ormai coagulato sull’orlo del polsino.
“Io
e Bulma non ci siamo mai sposati!”.
“Ah
no?”, si grattò la testa pensieroso. “E allora perché dite… mia moglie o mio
marito?”.
Goku
ricordava bene che, in merito alla fotografia di Bulma
promessa a Kaioshin, Vegeta aveva dichiarato senza
mezzi termini che Bulma era sua moglie.
“Io
chiamo mia moglie come mi pare e piace!”.
Ecco
che proprio lì, sugli zigomi di Vegeta, geneticamente predisposti a ricevere
pugni e cazzotti quando non era egli a suonarne di santa ragione, si addensò un
inusuale velo di imbarazzo.
“Che
ti dicevo? Anche ora l’hai chiamata moglie!”.
“Tesoro…”,
intervenne Chichi, ma non fu affatto di aiuto. “Non è
il caso di essere invadente, né di fare l’ingenuo. Se si chiamano così è
perché, evidentemente, si vogliono bene, anche se non sono sposati”.
Ora,
Vegeta ebbe la sensazione che il tappeto fosse sprofondato e che tutti si
fossero messi in circolo ad osservare la sua fossa.
Solo
Bulma, vedova che non si lascia prendere dallo
sconforto, esibiva tutta la sua forza d’animo nella fermezza con cui sosteneva
il calice di champagne tra le dita.
“Eh,
no, cara Chichi, mi dispiace contraddirti, ma io e Vegeta
ci siamo davvero sposati. E’ accaduto esattamente tre anni fa, ma non eravamo
qui sulla Terra”.
Trunks
e Goten continuavano a raccogliere e a lanciarsi
addosso coriandoli di neve, come se il
tronco d’albero piovuto dal cielo, dopo aver sfondato il tendone e travolto
tutti gli altri, tra cocci immaginari di piatti e bicchieri, avesse scansato
volutamente le loro cervici.
Persino
il principe dei saiyan, un tempo stragista
intergalattico, ebbe bisogno più di un secondo per risalire dalla fossa e
sbottare:
“Tu
sei completamente matta! Anzi, no, sei ubriaca! Noi ci saremmo sposati? Io non
mi metto a fare queste pagliacciate!”.
“Come
sarebbe a dire… pagliacciate?”, balbettò offeso Mister Satan,
nelle sembianze di una parentesi insignificante che non cambiò l’impostazione
del discorso, né spostò l’attenzione degli altri.
“Hai
dimenticato il pianeta Oiko?”, insistette Bulma.
Un
cameriere le passò accanto con un vassoio e lei si liberò, senza molta
delicatezza, del calice di champagne, che finì tra gli altri mezzi vuoti - o
mezzi pieni - con lo stelo tranciato in due.
“E
quel sovrano? Come si chiamava?”.
Ma
Vegeta le aveva già messo le mani addosso, lì sulle belle spalle nude, con una
brutalità a sua portata, e la spingeva ad indietreggiare in direzione
dell’uscita.
“Io
non ti ho sposata! Ti ho letteralmente comprata!”, gli sentirono dire, mentre
la pioggia, fuori dalla tenda berbera, li coglieva in pieno ma senza
sorprenderli.
Tutti
restarono inermi a fissarli da lontano, con l’espressione intontita di prima tramutata
in un’altra più interrogativa.
Non
era chiaro ciò che i due si stessero dicendo, ma non dovevano essere parole
gentili.
Bulma
parlava concitata e si strappava i bracciali dal polso con un gesto nevrotico.
Ad
un certo punto, la videro afferrare la mano di Vegeta, ma nessuno pensò che
fosse con l’intento di trattenerlo, perché un tipo come Vegeta non si trattiene
prendendogli semplicemente la mano.
Poi
il saiyan agitò un dito nella loro direzione, come ad
indicarli con fare quasi minatorio, e tutti, di riflesso, fecero un passo
all’indietro.
E
infine, mentre Trunks e Goten
continuavano a mettere in moto migliaia di coriandoli bianchi tra i tavoli e le
sedie, intrappolando tutti in un souvenir di vetro da capovolgere all’ingiù,
accadde, più in là, qualcosa che mai nessuno di loro si sarebbe aspettato di
vedere.
***
“Vegeta racchiudeva in
sé i misteri dell’universo intero, la genesi di un buco nero, lo spegnimento di
una stella, il collasso di un pianeta; e il suo universo era per davvero
infinito, senza linee di demarcazione, senza un epicentro…”.
Ma
questo già si è detto.
C’è
da aggiungere, però, che quest’universo, ad un certo momento della sua storia,
contrariamente a qualsiasi teoria scientifica, aveva finito per inglobare in sé
un altro cosmo, altrettanto misterioso, caotico, interminabile, e con delle
profondità scavate apposta per finirci dentro.
Allora,
e solo allora, era terminato il suo universo, quando, pur preservandone tutte
le altre caratteristiche,
“Come
sarebbe a dire che mi hai comprata?”, replicò Bulma.
“Tu non mi hai affatto comprata! Io ti sono stata data in moglie!”.
La
pioggia sottile - ma fitta - ticchettava sulle spalle nude, a pochi passi
dall’alto cedro del Libano.
“Fammi
il piacere! Era soltanto una farsa e lo sai bene!”.
Dietro
di lui, il tappeto bianco, neppure così lontano, sembrava adesso un rigagnolo
d’argento che declinava tumultuosamente a valle, e la luce proveniente da una
finestra del piccolo casale, dietro le calate di velluto, una stella che
rischiarava appena il sentiero.
“E
allora perché questa ferita è tornata di nuovo a bruciare terribilmente?”.
I
bracciali tintinnarono un’ultima volta tra di loro e poi si sparpagliarono tra
l’erba bagnata.
Vegeta
strinse il pugno e vide che pure la sua ferita era tornata a sanguinare.
Succedeva
ogni anno, di quella ricorrenza, come in un sortilegio, man mano che si
approssimava la notte.
Tre
anni precisi erano trascorsi da allora.
“Tu
sei abituato alle ferite, io no!”.
Quanto
si sbagliava!
Nessuna
ferita di battaglia aveva mai bruciato quanto quella, né lo sfregio a
tradimento di Yajirobei, né il buco diritto al petto
scavato da Freezer, e neppure il ridursi in cenere in virtù del sacrificio.
Piccola
e sottile, quasi invisibile negli altri giorni dell’anno, dava una percezione
del dolore assolutamente sconosciuta.
Forse,
non era neanche propriamente dolore corporeo, ma qualcosa di più interiore.
Vegeta
fissava quelle stimmate con l’incredulità di un miscredente, mentre il sangue
si raccoglieva nel palmo della mano e si mescolava alla pioggia.
Ora,
c’era solo un modo per placarne il dolore, ma quello non era il momento, né il
luogo.
“Sta
zitta! Che ne puoi sapere?”.
Bulma
continuava a stringere i denti.
Dov’era
il cielo stellato di quella lontana notte cosmica?
Ora
c’era solo un ammasso di nubi, che non lasciava filtrare altro che pioggia, e
l’unica stella che rischiarava il sentiero era stata appena spenta.
La
bellezza contemplata dalla sua capsula spaziale quella volta, tutta concentrata
nei colori più brillanti dell’argento e dell’amaranto, le era rimasta impressa
nella mente come la cosa più straordinaria che avesse mai visto.
Col
più potente telescopio, nei giorni successivi al rientro sulla Terra, aveva
cercato di trovare una nebulosa che le rinnovasse quell’estasi e quando ne
aveva trovata una con lo stesso impatto visivo, aveva capito che a rendere
spettacolare quel quadro erano stati anche altri dettagli: un materasso avvolto
ancora dal cellophane, una ferita martellante sotto un fazzoletto, sempre più
martellante, finché i loro polsi non erano tornati a cercarsi, un po’ esitanti,
un po’ turbati, quasi sconosciuti.
Solo
allora avevano sentito quel dolore scemare, man mano che il piacere scalpitava
nelle ossa e i loro corpi diventavano un tutt’uno per un bisogno disperato ed
impellente.
Poco
importava che fosse debilitata dalla febbre o che le pillole contraccettive fossero
rimaste accanto al radar cerca-sfere nel suo cassetto.
L’orgasmo
che li aveva colti era sembrato essersi diramato proprio dai polsi piuttosto
che dal basso ed ambedue avevano urlato nel vuoto cosmico come mai erano stati
liberi di fare tra il cemento.
Di
pianeta in pianeta, di razza in razza, di rito in rito, volente o nolente, la
prima notte va vissuta in questa maniera e quel taglio netto sul polso sarebbe
continuato ad andare a fuoco, una volta all’anno, fino a quando il corpo di Bulma non sarebbe stato gravido.
Ma
la suddetta aveva già un figlio all’epoca dei fatti e, tornata sulla Terra,
ogni sera, prima di coricarsi, apriva puntualmente il cassetto accanto al
letto, rovistava tra il radar cerca-sfere, le mutandine ricamate ed il
sacchetto di lavanda, e schiacciava sull’apposito blister calendarizzato la dose
giornaliera di estrogeni e tranquillità.
E
quando per distrazione aveva saltato qualche compressa, a metà della confezione,
il seme di Vegeta, per quanto prezioso e regale fosse, non aveva il potere soprannaturale
di attecchire su un terreno non fecondo.
“Ti
prego, dammi la tua mano…”, lo implorò.
“Smettila!”,
le disse, ma il respiro mancò un battito quando si ritrovò la mano dell’altra aggrappata
con ardore alla sua.
L’acqua
sembrò accelerare la scarica elettrica e Vegeta si ritrovò a sudare freddo,
sotto la pioggia e con un vento che gli ululava nelle orecchie con assillo
maggiore.
Forse
aveva bevuto troppo, pensò lui, forse era colpa di quelle bretelle basse e
della pioggia che inzuppava il voilà sopra il seno, ma incominciava a
fermentare un desiderio, diverso da tutte le altre volte, nel momento più
inappropriato che potesse esserci, mentre i polsi, finalmente vicini
incominciavano a pulsare all’unisono ed il bruciore trovava conforto.
“Vedi
che va già meglio…”, sussurrò lei, come corroborata, facendo fremere le ciglia.
Ma
la tenda berbera riprese ad avere contorni più netti alla vista del saiyan e le sue luci sembrarono meno lontane di quanto
fossero apparse prima, tra la nebbia del dolore e del desiderio.
“Piantala!
Io me ne vado! Hai dato già troppo spettacolo!”.
La
suola in cuoio delle scarpe si scollò dal fango, ma non fece in tempo a
decollare.
“Ho
detto solo la verità. Perché dovevo nasconderla?”.
Vegeta
la fissò con l’ovvietà di chi quella cosa l’aveva taciuta per tre anni.
Pure
nelle passate ricorrenze, era bastato un fazzoletto intorno ai polsi ed un incontro
nel cuore della notte, più urgente e violento del solito, per non tornare
sull’argomento.
“Perché
era la cosa più sensata da fare, ma tu, evidentemente, hai bevuto qualche
bicchiere di troppo”.
Bulma
gli intralciò ancora il passaggio, esibendo fra due gomiti appuntati una
camiciola ormai fin troppo aderente.
“Un
bicchiere di champagne non mi ha mai dato alla testa! E la cosa più sensata da
fare era che tu, una volta tanto, non mi contraddicessi. Non davanti agli
altri, facendomi passare come la farneticante di turno”.
“No,
sono io che non tollero certe cose alla presenza di altra gente. Dovresti
conoscermi bene”.
Qualificare
il suo rapporto con Bulma gli veniva naturale già da
un po’ di tempo.
Non
sapeva come e quando lo era diventata -
sia chiaro - ma Bulma era sua moglie. Punto.
Ora,
gli altri non erano tenuti a domandarsi il perché.
Per
il fatto che dietro quel perché si
spalancava quell’universo dove,
seppure infinito, c’era spazio soltanto per due persone.
A
stento.
Tanto
meno dovevano farne oggetto di conversazione in sua presenza, considerato che,
a parte voltare la schiena, non esisteva corazza contro quel rossore che gli prendeva
a pugni gli zigomi.
Ebbene,
mai e poi mai avrebbe saputo spiegarsi la ragione per cui Bulma,
proprio quel giorno, avesse deciso di aprire una breccia e mostrare agli altri
qualcosa del loro mondo, né poteva immaginare quello che di lì a poco sarebbe
accaduto.
“Evidentemente,
ti conosco così tanto bene che mi sono stufata di essere complice dei tuoi
silenzi e delle tue distanze. Chi ha stabilito tutta questa rigidità di
protocollo? Sai cosa ti dico? Credo proprio che, una volta tanto, farò qualcosa
per cui valga veramente la pena di farti arrabbiare e lo farò apposta davanti a
tutti gli altri. Non mi importa! A volte bisogna pur prendersi delle
soddisfazioni!”.
Al
cospetto del principe dei saiyan - ma non solo - Bulma, determinata più che mai, sapeva tenere la schiena
diritta alla pari di qualsiasi avversario giunto dalle profondità dello spazio.
Già
il mascara a lunga tenuta, applicato fin dal mattino, aveva mostrato una
resistenza alla pioggia considerevole; pure le unghie, grazie allo smalto
semipermanente, non erano mai state così scintillanti di rosa confetto.
“Mi
stai sfidando, non ti conviene”, sogghignò ancora indulgente. “Commetti sempre
l’errore di confidare troppo nella tua lingua. Perciò, te lo do come consiglio,
Bulma: non attaccar briga con chi è più forte di te. Prima
o poi, ti troverai di fronte qualcuno che ti darà la lezione che meriti”.
“Avrei
voglia di prenderti a schiaffi, lo sai?”.
Graffiate
da rivoli di pioggia, le braccia non stavano tremando per il freddo.
“Su
che aspetti, allora? Vedo che stai scalpitando dal farlo. Togliti la soddisfazione di schiaffeggiarmi davanti
a tutti i tuoi amici. Avanti, fallo!”, puntò un dito nella direzione della
tenda berbera. “Così sapranno che non sono impazzito d’un colpo quando ti avrò
risposto con la stessa moneta”.
La
conversazione stava rotolando su di una piega difficile da riassettare e il ticchettio
della pioggia, per discrezione, si ritirò in silenzio, concentrandosi soltanto
tra le fronde dell’alto cedro del Libano.
“Non
fare il gradasso, tanto non avresti il coraggio di colpirmi”.
“Ah,
no? Tu faresti perdere la pazienza persino agli dei”.
“Sei
soltanto uno stupido… quando ho detto che ti avrei fatto arrabbiare non stavo
pensando certo di prenderti a schiaffi davanti a tutti. Che soddisfazione
potrei mai ricavarne?”.
“E
a cosa diavolo pensavi?”, fece furente.
“A
molto peggio”, disse alla fine.
Con
le gambe divaricate e le caviglie sprofondate eloquentemente nel fango, le
braccia non fecero in tempo a prevedere l’assalto e rimasero sospese in avanti,
raggelate, intorno ai fianchi morbidi di quell’avversario sottovalutato.
Nessuna
mossa fu mai più efficace di quella con cui Bulma, trovato
il varco giusto per fronteggiare quel corpo senza armatura, agganciò i polsi
intorno al suo collo, strofinando pioggia e sangue sul colletto della camicia
da cerimonia.
Qualcosa
di umido e di molto caldo si trattenne per un breve istante sulla bocca di
Vegeta, proprio mentre una raffica di vento più gagliarda sollevava migliaia di
coriandoli bianchi e li faceva danzare sulle loro teste.
FINE