Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |      
Autore: VGpanzera    04/09/2015    0 recensioni
Edipo è un quindicenne la cui vita è stata sempre dura con lui: non socializza a scuola perché la ritiene corrotta e deplorevole, e non va d'accordo con il padre, che dopo la morte della moglie (cioè sua madre) , si è dimostrato un buono a nulla che chiede i soldi ai propri genitori.
Genere: Introspettivo, Thriller, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

La vita non è altro, che un susseguirsi di problemi, una sequenza di fenomeni complicati. L'esistenza è un pacco preconfezionato ed ognuno di noi ne tocca uno. Ciò vi fa credere che io alludi al destino immutabile? Al fato? Ebbene si, cari miei! La verità è che qualcuno o qualcosa di divino si diverta a consegnare questi pacchetti in modo totalmente casuale. Non esiste una legge o una regola che determini la consegna, ma solo il compiacimento del mittente. Forse, ad alcuni di voi, verrebbe in mente che costui sbagli, che non venga dato troppo peso alla faccenda, in quanto, ad ogni essere intelligente pare che il proprio pacco sia meno ricco, movimentato o meno grosso di qualcun altro. Infatti, è così! Codesta divinità si diletta dall'alto nel lanciare a destra e a manca, infischiandosene dove giungerà il pacco, se in una famiglia povera o benestante, se in una piena di prìncipi o princìpi, poiché nulla ha importanza per costui. La realtà è che ognuno di noi ha un ruolo nella vita, perfino egli, e come ogni ruolo può essere fatto bene o male; evidentemente lui lo svolge male.

Non per vanto, ma il peggiore fu il mio e, per quanto mi sforzi di ricordare, non mi viene in mente uno meno appetitoso. Ora che ci penso bene, è quasi buffo che sia toccato a me e non a te, e forse mi farei una risata se la vita non mi avesse levato anche quella. La cosa più strana fu che quegli elementi che compongono il mio pacchetto, come l'amore, l'amicizia e il rispetto, vennero alterati. Ciò mi fa credere che il pacco venne sballottato durante il viaggio, tanto da rovinarne il contenuto; o peggio, non escludo la possibilità che il mittente mi odiasse così tanto, da toglierne metà. Ma oggi poco importa, quei giorni sono così lontani che perfino la malinconia e il dolore che li accompagnavano, sono spariti. Oramai il ricordo ha il gusto che hanno i sogni, quel tipo di sogni che, una volta svegli, non riesci mai a ricordare, e più ti sforzi e più si annebbiano.

 

 

 

 

 

CAPITOLO I

 

 

Avevo la nausea, gli occhi bruciavano e sentivo freddo. Udivo un ronzio nelle orecchie, come se fossi stato colpito, in pieno viso, da un pallone da calcio. E, per di più, tutti gli arti del corpo, a partire dalle dita dei piedi fino alla testa, erano intorpiditi; non riuscivo a muoverli. Le giunture delle braccia e delle gambe erano bloccate. Lo stomaco mi brontolava come se non avessi mangiato per giorni; sentivo una voragine all'altezza della pancia. Inoltre si soffocava, l'aria era così opprimente e fredda che sembrava che fossi sigillato in una scatola di surgelati.

Pian piano, il ronzio si affievolì e fece spazio a strazianti pianti che provenivano dall'esterno. Non riuscivo ancora a muovermi, ma sentivo suoni ovattati. Fra tutti quei lamenti distinsi solo una parola: “Vegliamo”. Evitai di pensarci per non alterarmi troppo.

Ho capito!” pensai, “Sto vivendo una paralisi del sonno!”. Avevo sentito parlare in un documentario della paralisi del sonno: non era altro che un particolare modo di risvegliarsi. In sintesi, il cervello si svegliava prima del corpo, ed esso era costretto ad aspettare che quest'ultimo facesse lo stesso, prima di muoversi. Ciò mi tranquillizzò, poiché, tra una manciata di minuti, avrei ripreso il controllo del mio corpo. Bisognava attendere. Inoltre, avevo sentito, che in tale fase c'era un margine di possibilità, di percepire, sentire o vedere cose che non esistevano. C'era gente che immaginava rapimenti alieni, altri folletti e, altri ancora, demoni. Quasi li invidiai: a me toccava ascoltare strani lamenti. Tolto ogni dubbio di essere sopra il mio letto, decisi di occupare il tempo riflettendo. Era una cosa che facevo spesso e che mi divertiva, in qualche modo.

Il buio che, poco prima, riempiva la mia vista, divenne sfondo delle immagini che attraversavano la mia mente; fu come guardare dentro un binocolo. Mi capitava spesso: quando chiudevo gli occhi i pensieri si catapultavano davanti. Pensai che il buio si poteva definire un treno, poiché, come il paesaggio ti viene incontro da solo, senza il minimo sforzo, la stessa cosa accadeva ai ricordi. Infatti, si presentò, di fronte a me, il viso della mia mamma.

Egli aveva un bellissimo volo, dolce, sorridente e ornato da una graziosa lentiggine che partiva dal naso e si propagava per tutta la faccia; anzi il corpo. Ricordai che amava pensare che quelle macchioline marroni erano segno che il suo animo era puro. Supponeva che l'animo, non potendo essere corrotto, rigettava quelle scorie di male da sé, trasformandole, così, in lentiggini. Quindi, ogni macchia, doveva rappresentare un peccato la cui anima non accettava; secondo lei, anche solo un pensiero peccaminoso poteva generarle. Poi aggiungeva, che, come lei lo diceva a me, sua madre le ripeteva che ogni qualvolta compiva una monelleria, le faceva notare che un'ulteriore macchia era apparsa sul suo corpo. Sembrava strano, ma quest'idea la invogliava ad essere una persona sempre corretta.

La peculiarità di mia mamma era proprio quella: essere una persona etica. Si distingueva per questo. Fu sempre ospitale con le persone, fu una grande studiosa per i suoi genitori e una madre premurosa per me. Ma, purtroppo, fu. Oramai non c'era più da quattro mesi. Una cosa terribile era accaduta, tanto che, quando potevo, evitavo di parlarne o, perfino, di pensarci. Il solo fatto, quando mi tornava alla mente, creava in me un senso di vuoto nel petto, come se mancasse qualcosa a riempirlo. E lo stesso, stava accadendo, in quel momento. Era proprio una persona fantastica.

Ma, ahimè, lo stesso, non si poteva dire di mio padre. Lui era l'opposto di lei. Non era bravo in nulla. Certo, tranne in cucina, lì era un mago, poiché era stato assistente culinario del capocuoco, ma da quando la mamma era morta, cioè da quattro mesi, non metteva più piede nella cucina, perché gli ricordava lei. Nonostante, avessimo, cambiato casa, tre mesi fa, perché entrambi pensammo che ci avrebbe fatto bene.

Ma cosa ci trovava di bello in lui? Era da quando lei se n'era andata che me lo chiedevo. Il dover affrontare le giornate da solo, con mio padre, mi aveva aperto gli occhi su chi lui era veramente: un fallito. Non solo egli era un buono a nulla, ma era diventato anche la piaga della mia vita, la mia fonte di rabbia giornaliera. Per di più, era diventato un peso per tutta la famiglia, da quando avevo conosciuto un agente aziendale che gli propose di intraprendere la vita da artista, dopo aver visto qualche suo disegno. Da allora, aveva preso l'idea della carriera d'artista più seriamente. S'impegnava anche più di quando era adolescente, quando frequentava il liceo artistico. Quell'agente lo aveva convinto che il futuro d'artista gli avrebbe fruttato molto. La faccenda non sarebbe pesata a nessuno, se non fosse stato che venne licenziato, dal suo lavoro, poiché incominciò ad addormentarsi sul lavoro; nonostante mio padre avesse pregato il direttore della banca di riprenderlo, ma oramai era troppo tardi. Quindi, più deciso di prima, mio padre passava la maggior parte del suo tempo nel suo studio. La cosa era diventata quasi insopportabile per mia madre, che qualche settimana prima di morire, aveva litigato con lui con le lacrime agli occhi, dicendogli che non ce la faceva più. Ma lui continuava a ripeterle che primo o poi l'azienda gli avrebbe commissionato un qualche progetto che gli avrebbe cambiato la vita. Lo stesso ripeteva ai nonni, che, fortunatamente, ci sostenevano dandoci la maggior parte delle loro pensioni, sopratutto da quando la mamma non c'era più.

I nonni continuavo a dire che non gli dispiaceva poter aiutare economicamente il proprio figlio, l'unica cosa di cui si lamentava suo padre era quella che lui era un “portaborse” (amava insultarlo con quelli che lui reputava i lavori più inutili del mondo), come aveva detto l'ultima volta che ci avevano fatto visita. Infatti, oltretutto, non aveva rispetto per chi compiesse lavori, che secondo lui, non avevano una dignità. E non coincidevano con i lavori che di norma vengono reputati dalla società di basso livello, come il muratore o piastrellista; anzi, a loro portava mero rispetto.

Il nonno era un vero pezzo da museo, un fossile vivente, non certo dall'aspetto, anzi sembrava un fanciullo a confronto dei suoi novantaquattro anni. Aveva attivamente partecipato alla Seconda Grande Guerra come colonnello, e adesso, come allora, mostrava la stessa energia. Si teneva in forma con esercizi che faceva a casa, e seguiva una dieta rigida, come gli avevano insegnato ai tempi bellici: a base di verdura e carne. Non che avesse un fisico da culturista, ma era snello, asciutto e in forma come un ventenne. Però, a tradirlo, erano quei suoi capelli bianchi, e quei folti e rigidi baffi sotto il naso, che erano indice di un carattere forte e sicuro, proprio come lo era lui.

La nonna, invece, aveva settantadue anni ed era l'opposto di lui. Acqua e fuoco, cielo e terra, ma sopratutto, etica e ragione. Era una paffuta anziana, che spesso usciva di casa con bende colorate sulla testa, che si abbinavano ad altrettanti vestiti colorati. Bassa, tozza, e resa ridicola da diverse perle che ornavano il suo corpo, poiché, secondo lei, erano magiche. Lei aveva una personalità tutta sua, tanto che ogni tanto diceva una delle sue “stranezze” come le definivo io; cioè dei ragionamenti tutti suoi. Uno spirito libero, in sintesi.

Infine, c'ero io. L'ultimo arrivato della stretta famiglia Bolluce, o almeno, quella che si faceva vedere. Gli altri componenti della famiglia ci stavano distanti, non si facevano visita mai, non per qualche motivo particolare, solo che non eravamo una di quelle famiglie che ci riunivamo tutti a Natale sotto lo stesso tetto. In poche occasioni accadeva, perlopiù alla morte di un parente; non era una bella cosa, visto che gli unici ricordi che avevo dei familiari erano in occasioni tristi, con facce ricoperte da lacrime. Non un bello spettacolo, a dirla tutta.

 

La paralisi, pian piano, sembrava svanire. Finalmente stavo per ricominciare a muovermi. I lamenti ovattati, però, continuavano ad esserci, e parevano più distinti di prima, tanto che mi venne il dubbio che fossero veri. Riuscì ad aprire gli occhi. Era completamente buio, non si vedeva un palmo dal naso, diversamente dalla mia stanza. Dopo diversi tentativi riuscì a muovermi, ma con difficoltà. Allungai le mani verso avanti, mi accorsi che investirono contro una parete legnosa. “Hanno sigillato il mio letto!”. Lo realizzai solo in quel momento. Potevo sentire sotto la mia testa il mio morbido cuscino. “Chi farebbe una cosa simile?”, non mi sarei mai aspettato che i ladri, adesso, agissero con tali stratagemmi; pratica del tutto innovativa. Ma chi poteva essere interessato ad un povero quindicenne che stava attraversando un momento duro della sua vita? Sicuramente c'era stato un malinteso, forse avevano agito totalmente nel buio e non si erano accorti che stavano prendendo la persona sbagliata.

Però non mollai, spinsi nuovamente la superficie di fronte a me che non mi permetteva di uscire, però, stavolta, con tutte le mie forze. Era pesante, ma con stupore mio, notai che essa si alzò un po', ma non facendocela la lasciai andare, e nel ricadere fece un fracasso che non mi aspettavo. Sentì un “Oh” di stupore collettivo provenire dall'esterno della scatola. Non ci pensai. E tentai una seconda volta, ma finì come la prima. La terza, invece, fu quella buona: spinsi con ancora più forza e si aprì, facendo un gran baccano, che risuonò come un'eco. Dopodiché, sollevai il busto per vedere dov'ero finito; da subito notai che quella non era la mia stanza.

Il soffitto era molto alto, a forma di cupola. Ad ornarlo delle costole in legno tipiche dell'antica architettura romana: pieni di affreschi di angeli, aventi come sfondo un blu, che fungeva da cielo. Da me, fino all'entrata, delle colonne corinzie di colore bianco, erano in fila indiana. Poco più in alto, al di sopra dell'entrata, un grande rosone, tre volte più grande del timone. Le pareti erano verniciate di giallo. Infine, degli incavi nella parete, dove al loro interno c'erano delle statue in marmo, ognuna rappresentante delle scene. Una, in particolare, catturò la mia attenzione, essa era caratterizzata da un arcangelo armato di spada che trafiggeva uno scheletro vestito di una tunica nera, che brandiva una falce. Alla base della figura, sul piedistallo, inciso sul marmo una scritta a lettere cubitali: CARPE DIEM.

Distolsi lo sguardo dalla statua. Intorno a me moltissime persone, il quale molti erano componenti della mia famiglia. Tutti vestiti di nero, con un'espressione triste e sconvolta. Mi fissavano come se avessero visto un fantasma. La mia attenzione fu catturata da un uomo grassoccio dai capelli rossi, che cadde in terra, come se non ce la facesse a sorreggersi. Lo riconobbi subito: era mio padre. Accanto a lui i miei nonni, entrambi con uno sguardo altrettanto stupito.

«È VIVO!» esclamò qualcuno dal fondo della sala. Fu allora che capì dove mi trovavo: al mio funerale! “Sono seduto sulla mia bara!”.

Il pensiero di essere morto, o meglio, di essere ritenuto morto, mi fece improvvisamente stare malissimo, la stanza incominciò a girare su sé stessa, tanto da farmi sentire la nausea; inoltre, le viscere dello stomaco si stavano attorcigliando. Andai a ritroso con la memoria, per capire cos'era successo, il perché mi ritrovavo lì. Non riuscì a ricordare. Però, stranamente, i miei occhi finirono su quell'incapace di mio padre. “È stato lui!” pensai. Ne ero sicuro lui c'entrava sempre in qualche modo; solo lui poteva essere stato così stupido da darmi per morto.

Non ci pensai più di tanto. Gli occhi fissi su mio padre, che al sol guardarlo mi faceva provare una rabbia cieca. Alimentato dall'odio di quel momento e dall'istinto, saltai fuori dalla bara e mi direzionai verso il colpevole di quell'equivoco. Gli saltai addosso e cominciai a tiragli pugni sul viso. «È colpa tua!» gli gridai, mentre i mie pugni finivano sulla folta barba rossiccia, incolta di due mesi, che mi pungevano la mano chiusa a pugno. Lui, intanto, provava a parare i colpi usando come scudo la bibbia che teneva in mano. Potei sentire un secondo “Oh” di stupore riempire la sala, e viaggiare velocemente come un'onda di mare.

Poi sentì qualcuno che mi tirava da dietro: era mio nonno che mi allontanava da quel cretino di mio padre. Quando, mi lasciò mi rivolsi dalla parte opposta a quella di mio nonno, e diedi di stomaco, quanto più potevo, poiché mi trattenni fino a quel momento. Riempì il pavimento di una melma verde. Infine, esausto, ci svenni di sopra.

 

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: VGpanzera