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Autore: maty345    04/09/2015    1 recensioni
Piccolo sfogo su Animal Crossing,
nella speranza che possa far ridere qualcuno :)
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Dal giorno in cui mi ero trasferito, avevo imparato un paio di cose.
Heland non era una città come tante altre, e solo in quel momento capì perché nessuno ne aveva mai sentito parlare, o perché sul treno ci fossi solo io.
Ad Heland erano tutti animali. Io ero l’unico umano, e custodivo la mia razza gelosamente.
Il sindaco era una tartaruga decrepita.
La sua assistente un cane.
I negozianti procioni e porcospini.
I miei vicini altri animali ancora.
E poi c’ero io, uomo.
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Maty345
Genere: Angst, Demenziale, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
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La pazzia prese inizio in una giornata piovosa. Il cielo era grigio, così come l’umore dei miei genitori, vedendomi uscire di casa con due valigie nella mano sinistra e un biglietto del treno diretto ad un paese sconosciuto nella mano destra a soli diciott’anni.
 All’epoca mi sembrava un’idea vincente: ero finalmente un adulto, avevo appena concluso il liceo e non c’era niente di meglio che cominciare una nuova vita lontano da tutto e tutti. Nessuno mi accompagnò in stazione, ma ancora peggio, non c’era persona che prendesse il mio stesso treno. All’inizio mi agitai un po’-accarezzai l’ipotesi di cambiare destinazione, scegliere una meta un po’ più gettonata come New York, Miami o addirittura Los Angeles.
Ma il biglietto era già stato pagato, i soldi che mi portavo dietro non sarebbero bastati nemmeno per comprarmi una tenda e ormai avevo detto a tutti i miei conoscenti che mi sarei trasferito a *Heland, paesino sperduto nel mondo ma l’unico abbastanza economico per ricominciare un cammino che forse sarebbe durato qualche annetto.
Col senno di poi mi convinsi che sarei potuto anche diventare famoso: il diciottenne scappato di casa da San Francisco approda  nel classico villaggio di campagna, con una burrascosa storia alle sue spalle.
La pioggia aveva cominciato a battere forte, ma per fortuna il mio treno era arrivato.
Salì nel mio vagone, speranzoso di incontrare facce nuove.
Con mio profondo rammarico, c’ero solo io. Mi sedetti vicino al finestrino, e salutai il cartello della stazione di San Francisco ipotizzando che lì sotto ci fosse la mia famiglia.
Non mi accorsi, oh almeno non immediatamente, che qualcuno dall’aspetto piuttosto singolare si fosse seduto sul sedile di fronte al mio.

“Questo posto è occupato?”


I miei occhi si spalancarono, e se avessi mangiato qualcosa a colazione, avrei vomitato sui vestiti-vestiti- di chi avevo davanti. Accennai un “no” con il capo giusto per rimarcare il concetto che non poteva essere vero che un gatto si sedette e mi parlasse come niente fosse…Ero forse impazzito?
Tuttavia il…felino…non si accorse che ero turbato, e si lasciò andare a convenevoli.
“Io sono Girolamo! Tu sei?...”

“Christian.”


 Sputai, cercando di trattenere l’urlo di terrore che mi stava nascendo in gola. Il gatto, Girolamo, stiracchiò… le labbra?...La bocca?...beh, mi sorrise, e rispose nel modo più leccaculo che avessi sentito negli ultimi tempi.

“E’ un nome proprio mascolino per un uomo come te!”

“Hm…già…proprio, ehm….da duro.”

“E dimmi, Christian, dove sei diretto?”


Ormai avevo perso tutta la lucidità, ero diventato un malato di mente. Questo era quello che pensavo, ma nonostante ciò, attribuì le mie strani visioni alla stanchezza e al distacco da casa. Il vomito minacciava d’uscire, avevo assunto un colorito verdognolo e l’unico mio desiderio era arrivare a destinazione, scendere da quel fottuto treno e dire addio a quel fottuto gattaccio.  Risposi, cercando di trattenere qualsiasi tipo di gesto inconsueto. E se fosse stato pericoloso?
“A Heland.”

“Hm…mi sapresti dire quale città è fra queste?”

E non seppi come, dal  vuoto avrei osato dire, uscirono una decina di mappe diverse, raffiguranti città su città, paesi di ogni tipo e villaggi di ogni genere. Tentando di non incrociare i fiammeggianti occhi di Girolamo, indicai la raffigurazione della mia città, Heland. Nel frattempo, la pioggia era cessata, ed il cielo ora era azzurro. Nemmeno una nuvola viaggiava nell’aria, se ne accorse pure il gatto.

“Oh, ha smesso di piovere!”
“Fermata: Heland. Fermata: Heland.”
La voce metallica mi fece gelare il sangue. Invece della classica, pacata vocina femminile questa in confronto sembrava uno scimmiottare. Ingoia ripetutamente saliva.

“Oh, sei arrivato! E’ da tempo che non passavo un viaggio in treno così piacevole.”

Quanto avrei voluto che per me fosse lo stesso. Afferrai le valigie, salutai tremante il gatto (che, cosa ancora più inquietante, non aveva mai smesso di sorridere) e scesi dal treno.
Avrei potuto giurare di aver visto il conducente grattarsi la testa, come una scimmia.
Infine, con una velocità impressionante, il treno prese velocità e ripartì, sparendo su un ponte che si ergeva dalle acque.
Accadde quello che mi sconvolse di più nella giornata. I miei bagagli presero a scintillare, ad illuminarsi di luce propria e a ruotare su stessi.

 Okay. Che qualcuno mi rintani in un manicomio. Sto impazzendo.
Come ciliegina sulla torta, quest’ultimi si trasformarono in foglie. Eppure, quando le toccai per capire che cazzo stesse succedendo, mi parve ovvio che non fossero vere foglie.
Di un verde insolito, quasi sgargiante, pesavano come un sasso. Me li misi in tasca, per poi accingermi a correre come un forsennato a scovare la questura, il municipio o qualunque cosa mi avrebbe aiutato a farmi tornare alla normalità.
Fortuna vuole che una struttura di pietra con un orologio incastonato nel centro non fosse tanto lontana dalla stazione. Mi catapultai dentro, fregandomi di tutto, sperando solo che qualche essere umano mi potesse aiutare.
Invece no.
Un… cane, un fottuto cane con un codino in testa mi rivolse un sorriso zuccherato che si estendeva fino a piccoli occhi neri. Caddi, stremato dalla corsa, dallo shock degli animali parlanti e dai bagagli che si erano tramutati in piante.




§§§


Era da quattro mesi che vivevo a Heland, il paese degli orrori. Vivevo in un buco, e non avevo nemmeno tutti gli spazi necessari per vivere. Non avevo il bagno, per esempio. Da Mirko e Marco, l’unico negozio di arredamento in città gestito da due procioni poppanti, un cesso o un lavandino erano rari come il diamante, così come il cibo. Mi nutrivo esclusivamente di frutta locale, come pesche, arance, ciliegie e caffè, tanto, tantissimo caffè. Tuttavia, ero ancora vivo.
Dal giorno in cui mi ero trasferito, avevo imparato un paio di cose.
Heland non era una città come tante altre, e solo in quel momento capì perché nessuno ne aveva mai sentito parlare, o perché sul treno ci fossi solo io.
Ad Heland erano tutti animali. Io ero l’unico umano, e custodivo la mia razza gelosamente.
Il sindaco era una tartaruga decrepita.
La sua assistente un cane.
I negozianti procioni e porcospini.
I miei vicini altri animali ancora.
E poi c’ero io, uomo.
Ad Heland non c’era possibilità di lavoro. Per guadagnare soldi dovevi vendere i pesci che pescavi, gli insetti che catturavi, i fossili che scavavi. I soldi li ricevevi dagli abitanti, se gli facevi dei favori. A volte un certo Bartolo, un piccione che lavorava all’unica caffetteria del paese, ti concedeva un lavoro da cameriere. Non era una grande offerta, però, dato che rimanevi impiegato solamente per un giorno. E come paga ti consegnava una confezione di caffe, con aggiunta latte di piccione. Ma i piccioni sanno fare il latte?
La moneta di scambio era differente, ad Heland. Non c’erano i dollari, le sterline, gli euro o le rupie. C’erano le stelline. Mi ero spaventato all’inizio, quando seppi che il mutuo da pagare era di 10.000 stelline. Non avevo così tanti soldi, e soprattutto, non sapevo quanto tempo ci avrei impiegato per guadagnarle. Scoprì però che diecimila stelline sono un gioco da ragazzi da guadagnare, basta dare qualche minerale, un fossile, e ci ricavavi l’appartamento più spazioso.
Il mistero delle foglie, per mia grande fortuna, fu svelato. In un certo senso era comodo: oggetti pesanti come macigni, tipo frigoriferi, pianoforti e letti diventavano leggeri come piume, assumendo la forma di una foglia sgargiante color verde. Erano pratici, potevi portarli da un luogo ad un altro, e, dopodiché, ritornavano alla normalità dentro le mura della propria casa. Stesso discorso per i vestiti, ma tali si trasformavano in una singola maglietta a righe rosa e bianca, per i pantaloni in jeans blu, per le scarpe in snikers rosse, per  i cappelli in un berretto con la visiera rosso e bianco. Mentre sul corpo della persona tornavano un vestito a pois, dei leggins, degli stivali, un cappello da cowboy…
Ancora una piccola nota sugli abitanti di Heland: erano degli imbecilli ritardati, dalle personalità multiple e affetti da memoria a breve termine e/o Alzheimer.
Primo: non ti ascoltavano mai, non rispettavano le tue opinioni, ne’ ti facevano proporre un discorso.
Secondo: Anche se gli urlavi contro, gli lanciavi i peggio insulti, gli facevi gestacci, loro non ti capivano. Non riuscivi ad attaccare briga, c’era una sorte di campo invisibile sopra ogni abitante che ti impediva di fare a botte o nei peggiori dei casi, ucciderli. Tuttavia li potevi colpire con il retino, e se ti facevi beccare, si offendevano. Passai un buon week-end della mia vita a colpirli ripetutamente in testa con questo arnese, solo per il gusto di poter interagire un minimo con loro.
Terzo: erano dei prepotenti del cazzo, che ti chiedevano dei favori a manetta con una “ricompensa” di dubbia provenienza. Per quanto ne sapevo, su quella carta da parati poteva averci pisciato, quel cane di merda. Dopotutto, dove minchia facevano i loro bisogni questi animali del cazzo? Forse, fra tutti, era il mistero più grande.
Quarto: Avevano una memoria da far invidia a mia nonna. Capitava che dicessero la stessa cosa, la stessa fottuta frase nell’arco di una giornata, o peggio, di un minuto. Senza parlare del loro IQ. In confronto, io, colui che era uscito a culo dal liceo con 60, parevo un matematico promosso con lode, da far crepare di gelosia Einstein e Newton.
Quinto: il mezzo col quale gli abitanti si contattavano fra loro erano delle preistoriche lettere. All’inizio pensai che la tecnologia di Heland si limitasse ad una televisione e ad un telefono fisso, che magari non sapessero che cosa fosse uno smartphone, un cellulare. L’avrei accettato, era la stranezza più facile con cui convivere (non a caso il mio Iphone si era volatilizzato nel nulla, e anche se alla fine mi ero incazzato di brutto, perché cazzo, era nuovo di zecca, costava qualcosa come 500 dollari, mi ritrovai a pensare che era solo la punta dell’iceberg di tutto ciò che mi era successo.)
No, invece. L’avevo carpito quando un ippopotamo di nome Rocco intavolò il discorso “posta” sputandomi tutta la sua bavosa saliva:
Noi abitanti di Heland preferiamo scriverci delle lettere piuttosto che usare quegli aggeggi! Lo trovo molto più magico, non trovi?”
Lì per lì lo avrei preso a pugni. Una paghetta di una vita  incenerita con una frase. Vaffanculo ippopotamo del cazzo.
Sesto: erano gli esseri più puri ed innocenti che avessi mai incontrato. Pure un bambino di tre anni saprebbe essere più malizioso di tutti gli abitanti di Heland. Il che, per un ragazzo di soli diciotto anni, in cerca  di divertimento e un po’ di complicità rappresentavano l’anticristo più assoluto.


Ora, molti di voi si staranno chiedendo: come mai non hai abbandonato la città?
Beh, amici miei, ero in procinto a farlo. Era da tre mesi che ufficialmente non ce la facevo più. Mi mancava la mia famiglia, mi mancavano i miei amici, e più di tutti, mi mancava la normalità.
Mi mancavano gli esseri umani. Mi mancavano un sacco di piccole cose che davo per scontate, quando vivevo a San Francisco. Ora erano di vitale importanza.
 Per molto tempo l’orgoglio mi aveva trattenuto: ce la potevo fare, ma ancora di più, dovevo farcela.
Dopo tre mesi senza gabinetto e senza una doccia in casa  i miei propositi erano cambiati.



§§§


“Sei sicuro?” l’espressione di Fuffi, una sorte di barboncino che faceva da assistenza al sindaco dietro il bancone del municipio, era di lutto.
“Si, voglio trasferirmi.” C’erano poche frasi che gli abitanti riuscivano a percepire quando parlavo, e quella appena pronunciata era una di quelle, per mia grande fortuna.
“Non potrai più tornare indietro, e tutto ciò che lascerai non potrà più ritornare da te. Vuoi ancora trasferirti?” Il russare del sindaco, Tortimer, invadeva il silenzio. Si trovava più lontano da Fuffi, su una poltrona di pelle. Per qualche attimo, mi ritrovai a pensare da dove venisse quella pelle. Da una mucca? C’erano state mucche, nella mia permanenza ad Heland. E anche se non fosse stata di mucca, era senz’altro di un animale. Possibile che ci fossero state guerre, che ad Heland non fosse sempre stato tutto rose e fiori? C’erano molte incongruenze, in questo strano e folle villaggio.
“SI.” Non ero mai stato così sicuro in vita mia.

Ero alla stazione, e, con mia grande giubilo, le foglie che avevo in tasca si erano ritrasformate in vere e proprie valigie. Vedere qualcosa che non fosse una foglia mi faceva lacrimare dalla gioia.
Non portavo niente che avevo guadagnato ad Heland, sarebbe stato solo un peso ed uno sbaglio. Avevo tutto ciò che avevo con me all’arrivo, ed ero finalmente felice.
Un sorriso vero. Un sorriso che nasceva dalla vittoria. Non sarei stato internato.
Avrei rivisto la mia famiglia.
Un treno arrivò, e quasi le ruote mi solcarono i piedi. Fui più veloce, per fortuna.
Le porte si aprirono, e potei chiaramente vedere alla postazione di comando una scimmia in divisa guidare la locomotiva. Non dissi niente, c’ero troppo abituato. Non fu l’unica cosa che ignorai.

“AHI!”
“Oh, scusa!”

Arretrai di qualche passo, e una visione celestiale mi si parò davanti.
Una ragazza mi fissava smarrita con un trolley rosa shocking in mano, le labbra semi-aperte e gli occhi cristallini stupiti. Ma dubito che reggessero il confronto con i miei.

“Come ti chiami?”

Mai approccio più diretto rivolsi ad una ragazza, lo dovetti ammettere, ma il mio non era un modo patetico per accalappiarmi un mammifero con entrambi i cromosomi X. No, ero solo stupefatto che un essere umano che non fossi io respirasse, camminasse e parlasse sul suolo di Heland.

“Ehm…Aubree Hills. Tu?”

“Christian. Christian  Grey. No, scherzo, Christian Cross.”


La feci ridere. Feci ridire una ragazza su argomenti che un tempo erano esistiti, che non erano solo un frutto della mia immaginazione. Anche perché se avessi ideato io 50 sfumature di grigio avrei avuto dei seri dubbi sulla mia sessualità.

“Senti, non per offendere, ma  sono un po’ stanca…”
Capì dalla sua espressione che molto probabilmente si era già imbattuta in animali parlanti, non poteva essere altrimenti. Aveva una certa espressione negli occhi, quasi di incredulità.

“Beh, si, va’ pure a riposarti. Sarà stato un viaggio lungo…”

Uscì dalla stazione. Non volevo assistere alla morte del trolley di Aubree, ne’ alla sua espressione di sconforto nel vedere tutto ciò che credeva impossibile diventare reale.
Anche perché, quasi per certo, avrebbe richiesto delle risposte all’unico che sembrava capire la sua situazione. Ed io non ero certo la persona adatta, anche se l’apparenza poteva ingannare.
Una cosa era assodata: non sarei partito, non quel giorno.


§§§


Passarono altri tre mesi. Si stava avvicinando il Natale, e tutti ad Heland fremevano alla visita di Babbo Natale. Io compreso. Avevo in programma di addormentarmi presto, sul mio nuovo letto rustico al calore del camino che Salomone, un topo gonfio di steroidi, mi aveva regalato dopo avergli compiuto l’ennesimo favore.
I miei piani si sciolsero come burro al sole quando mi accorsi di aver finito la scorta di caffè. Va bene tutto, ma senza caffè non potevo decisamente vivere. Feci una capriola accompagnato da una moltitudine di stelline e mi ritrovai la giacca di pelle nera addosso.
Il cambio di vestiti era un altro grande punto di domanda.
Uscì di casa, la quale vantava ormai di un piano superiore ed una cantina.
Tutto sommato, anche se non sapevo come diavolo facesse ad espandersi la casa in un giorno, Tom Nook (l’agente immobiliari della città) era bravo nel suo lavoro, seppure un po’ tirchio.
La neve cadeva a fiotti, nel ventiquattresimo giorno del dodicesimo mese. Mi strinsi nella giacca e mi diressi alla caffetteria di Bartolo, l’unico negozio nelle vicinanze ancora aperto a quell’ora. Mi dovetti fermare di colpo, però, alla vista di una renna vestita perfettamente di rosso, con un capello rosso e con stivali neri.
Una renna in cosplay. Ho visto ufficialmente tutto. Però è strano, non l’ho mai vista da questa parti…che sia un nuovo abitante?
Mi avvicinai, incuriosito. Solo in quel momento mi accorsi che portava un sacco di iuta sulle spalle, anche se non potevano essere delle vere e proprie spalle, dopotutto, era una renna. Le renne non avevano le spalle.
E certo, gli animali non parlano e le foglie sono solo parte integranti  di piante. La devo piantare  di rincorrere questi discorsi, o impazzirò sul serio.
La renna si accorse della mia presenza.
“Ehi, salve! Sono Jingle, l’aiutante di Babbo Natale!” 
O cazzo. Lo pensai milioni di volte mentre la conversazione proseguiva, e gli “o cazzo” aumentarono a dismisura finché l’ ”o cazzo”  divenne “O MERDA”      
Per farla breve, mi diede il suo sacco, la sua lista di regali e un arrivederci che suonava tanto un “Ora sei tu nella merda fino al collo”. Fantastico, ero appena diventato Santa Claus.
“Però, se ti presenti così, ti riconosceranno di sicuro! Credo che da Ago e Filo ci possano essere dei vestiti a caso tuo, per farti entrare nel personaggio.”
E aveva ragione. Attraversai le rotaie che conducevano alla via dei negozi, e mi imbucai al negozio delle sorelle Agostina e Filomena, due porcospine con un passato triste e lugubre.
E in effetti, la divisa di Babbo Natale luccicava sotto le lampadine del negozio, come se stesse implorandomi di comprarla. Diedi i soldi ad Agostina, che mi sorrise con i suoi denti aguzzi.
Brr.  Andai anche al negozio di accessori, gestito dalla  cugina/parentedicuinonricordolacollocazionenell’alberogenialogico Bice, dove comprai la barba e il cappello con il Pon-Pon incorporato, per poi finire con Scuscià, la puzzola venditore di scarpe, dal quale presi due stivali neri. Sembrava che tutti i negozianti della via degli acquisti si fossero messi d’accordo. Era inquietante.
Nel complesso, venni un Babbo Natale decente, ma dubitavo che avrei abbindolato gli abitanti di Heland.
Le ultime parole famose.

“OMMIODIO! Babbo Natale, sei proprio tu???”
“NON CI CREDO, BABBO! Dov’è il mio regalo?”
“INCREDIBILE! Babbo Natale è in casa mia!”


 Avrei voluto sbattere la testa contro le porte delle loro case, ma non lo feci.
Estraevo un regalo a caso dal sacco e lo porgevo con poca grazia nelle mani dell’animale.
Non c’è stato animale contento dei miei regali, come Babbo Natale ero pessimo. Per fortuna ad Heland nessuno era troppo violento da prendermi a pugni o ad insultarmi verbalmente.

Lasciai la casa di Aubree per ultima, un po’ per imbarazzo e per il gusto di entrare in casa sua con un pretesto. Una delle stranezze di Heland era che potevi entrare nelle case degli abitanti senza un motivo ben preciso. Non dicevano nulla ne’ ti cacciavano da casa, anzi: potevi parlarci come se niente fosse! Tuttavia non mi ero mai azzardato di farlo con Aubree, l’unica donna umana di Heland e probabilmente l’unica in grado di buttarmi a calci in culo fuori dall’abitazione.
Dal giorno in cui era arrivata, Aubree era cambiata. Accettò l’assurdità di questo strano paese meglio del previsto, riuscendo addirittura a fare amicizia con gli abitanti, cosa che io faticavo a fare. Non ci parlavamo quasi mai.
Forse era l’imbarazzo, l’idea che potessimo essere troppo diversi.
La vedevo spesso, tuttavia. La vedevo girare per le via degli acquisti, la vedevo pescare in riva al fiume, la vedevo raccogliere una ciliegia da un albero e mangiarsela.
Avevo dimenticato quanto fosse bello ammirare una ragazza, e dovetti ammettere che nei suoi confronti mi comportavo un po’ da stalker. Probabilmente era un altro motivo per cui s’allontanava.
Bussai tre volte al portone di casa sua e dopo tre secondi esatti, mi venne ad aprire.
Una risata le nacque sulla bocca.

“Dio, Christian! Ma come ti sei conciato?”

Era bello sapere che non tutti erano degli idioti ad Heland.
“Da Babbo Natale, no? E se mi fai entrare ti dò il tuo regalo”

Aubree sorrise.

Mi feci largo nel suo salotto. Rispetto a casa mia, la stanza principale era molto più ampia, ma in compenso non aveva il piano superiore ne’ la cantina. Ci sedemmo sul suo sofà patchwork, e finalmente mi concessi una pausa dal mio lavoro.
Aubree prese la parola.
“Allora, cosa mi hai portato?”
“F’ho fortafo fuesto” che la mia barba bruci all’inferno, pensai
Aubree non ci badò. Si sedette composta sul divano, accavallando le gambe ed assumendo all’improvviso un’espressione seria.
Dal sacco di iuta estrassi l’ultimo oggetto della collezione. Era un vestito con un cintura dorata sui fianchi, rivestito di paiette d’un blu plumbeo. Non conoscevo i parametri di bellezza nel campo vestiario femminile, ma mi sembrava molto bello.
La faccia di Aubree mi fece cambiare idea all’istante.
“C-Che c’è? Non ti piace?” dissi, togliendomi la barba dalla faccia, per poi riporla nella sua nuova forma (una montatura rossa) nelle tasche dei pantaloni di Babbo Natale.
“No, è un bel vestito…forse un po’ appariscente per me…”
Porca Troia, questo andava a Frida…Ripensai alla pinguina con il trucco sbavato sugli occhi, e riflettei che l’unico cittadino ad Heland che volesse un vestito come quello potesse essere solo per quell’uccello incapace di volare.
“…il fatto è che volevo un'altra cosa.” Finì il discorso, e per qualche ragione che non capì, mi persi nei suoi occhi azzurri come il mare. Mi resi conto che aveva pure delle pagliette argentee, che assomigliavano a nuvole dopo una tempesta.
“Cosa?” chiesi, e il mio tono di voce suonava supplichevole, e nel contempo stesso come se fosse stato  immerso in un vasetto di miele.
“Un uccello.”


Non potei negare a me stesso che ero tentato di calare giù le braghe, le mutande e rivelare le mie grazie a qualcuno che non fossi io. Non lo potevo negare.
Ma non potevo nemmeno negare che la parte buona di me prese il sopravvento, quella priva di malizia, quella che viveva nel me bambino.
“Intendi uno di quelli gialli che volano vicino al municipio e alle porte dei negozi?”
Lei annui.


§§§

Fu la prima cosa che feci, il mattino seguente. Armato di retino rosso scarlatto, mi accinsi a catturare uno dei tanti uccellini color del sole che sostavano davanti alla bacheca degli annunci.
Non avevo mai pensato che sarei arrivato a tanto, e lentamente, mi accorsi che stavo diventando la macchina-sforna-sogni degli abitanti di Heland. Portavo il regalo a quello, consegnavo la maglietta a quell’altra, donavo il pesce a quest’altro. Era un passatempo come un altro, oltre alla solita routine di vendere un paio di cosette a Ricicla e Ricrea, un negozio gestito da due apachi rosa e blu felicemente sposati. Per di più, gli abitanti poi ti facevano dei piccoli doni, e che fossero utili o meno, ti davano sempre qualcosa. Eppure, per quanto mi sforzassi a catturare uno di quei dannati passeri dorati, essi riuscivano sempre a sfuggire alla rete del mio acchiappa insetti. Ed era triste.
Era triste come per l’unica persona che volessi vedere sorridere non riuscissi a compiere il favore.
Era triste che appena mi pareva di aver toccato l’ala del volatile con la rete, questo spiccasse il volo.
Ed era profondamente triste che dopo quasi quattro settimane dedicate solo allo svolgimento di questo desiderio, non fossi riuscito nemmeno a raccogliere una piuma.
Era triste. Ed ingiusto.

Il compleanno di Aubree bussò alle mie porte prima del previsto.
Ed io, nonostante gli innumerevoli sforzi, non riuscì a catturare nessun dannato uccello.
Diede una festa.
Oh almeno, ci provò.
<< Sulla Bacheca Degli Annunci>>
Il 28 febbraio è il mio compleanno!!!
Darò una festa al club LOL alle 21:00, quindi accorrete numerosi!
K.K suonerà dal vivo!!!
                                                    
Scritto da Aubree


 
Inutile dire che la gente che si presentò al Club LOL (una discoteca squallida in un seminterrato gestita da Dr. Strizzo, un…che cazzo di animale era? Bah, una sorte di scorpione con un pessimo senso dell’umorismo) fu presente solo per conto proprio, non per l’annuncio che Aubree scrisse.
K.K suonava come se non ci fosse un domani, muovendo le sue zampe sui dischi. Tutti i presenti si muovevano a ritmo di danza, sotto le luci accecanti dei riflettori e annusando il fumo colorato che usciva dalle macchine apposite. Tutti, tranne Aubree.
Sedeva su una sedia appoggiata all’uscita, le braccia allacciate alla vita come se stesse simulando un abbraccio e gli occhi, i suoi grandi occhi cristallini spenti. Sembrava si fosse persa nel suo mondo.
Mi avvicinai lentamente, proprio nel momento che il cane rapper scelse una delle sue canzoni più adatte per un lento.
“Ehi.”
“Ehi.”
“Ti va’ di ballare?”

“Si.”
Non mi sembrava vero che il corpo di Aubree, l’unico in grado di toccare e l’unico che volessi toccare veramente fosse appiccicato al mio, muovendosi al ritmo della canzone. K.K aveva abbandonato i dischi e aveva cominciato a strimpellare la sua chitarra classica.
Tutte le femmine presero a cinguettare dalla felicità, mentre Aubree rimaneva zitta, la sua testa all’altezza del mio cuore.
E realizzai, in quel momento di idilliaca pace, che mi stavo innamorando di lei.
La canzone finì.
Ed io e Aubree finimmo di ballare.

“Oggi è il mio compleanno.”
“Lo so.”


“Sai cosa mi piacerebbe?”

“Cosa?”
“Quell’uccello che mi avevi promesso due mesi fa’.”


Sarebbe stato troppo bello se anche la faccenda finisse qui. Ci fissammo negli occhi, entrambi seri, entrambi muti. Poi parlai.
“Senti, è impossibile…Sono inafferrabili.”


“Ci hai provato almeno?”

“Certo che ci ho provato!” sbottai, furioso.

Solo allora mi accorsi che avevamo alzato il tono della voce. Non riuscì a capire quale emozione avesse preso il sopravvento sulla faccia di Aubree: gli occhi erano sbarrati, sintomo che era sorpresa ma nel contempo stesso spaventata. Liquidi, anche. Più acquosi del normale, avrei scommesso che fosse triste. Ma soprattutto, era arrabbiata: era rossa in viso, così come le orecchie color del vino. 


“Non ti credo.”


“Ci devi credere, Aubree! Sono innamorato di te, okay? Ci ho provato solo per questo!”

“Non hai provato abbastanza!”

Avrei scommesso che se fossi stato un personaggio di un anime in quel momento avrei avuto il fumo che mi usciva dalle orecchie. Strinsi i pugni, ripensando a tutte quei giorni passati a cercare di catturare un misero uccello. Riflettei a cosa andavo in contro ogni santo giorno, quando nonostante i lampi e fulmini io uscivo di casa con il mio ridicolo retino in mano. Non riuscivo nemmeno a capire perché mi fossi innamorato di Aubree. Dopotutto, non la conoscevo! Ci avevo parlato si e no tre volte in tutta la mia vita!

“Beh, sai una cosa? Me ne vado!”


Non mi volsi a guardarla. Non mi guardai alle spalle per sapere se fosse rimasta lì in piedi, o se si fosse riseduta su una sedia. Non lo seppi, ne’ lo volli sapere. Risalì sulle scale che conducevano all’uscita e ritornai a casa mia, affranto.



§§§
 
 
Il vento batteva sulle finestre, in una piovosa giornata di marzo
Io era rannicchiato sul mio letto rustico, e fissavo apatico la televisione, la quale trasmetteva un solo canale. Al momento, la tv mostrava le previsioni del tempo.

“UINFTFGTFBYNBBBBUBNUBHNNNNNNHHHHNTBYNYUY”


Un ulteriore difetto di Heland? I programmi tv erano incomprensibili, sembravano che a parlare fosse un qualche cugino di Paperino. Anche per quanto riguardava la musica ad Heland era un completo disastro. Le uniche canzoni orecchiabili erano quelle cantate da K.K, l’incrocio fra dalmata e labrador e forse, e solo forse  l’inno cittadino.
Ricordai che nei primi giorni ad Heland scoprì che potevo ricrearne uno tutto mio, così andai al municipio e feci richiesta a Fuffi. Spesi un’intera mattinata a ricreare il ritornello di Demons degli Imagine Dragons, solo per avere la soddisfazione di risentire una canzone che in un passato avevo ascoltato. 


A proposito di musica. Posi i miei occhi sulla casa della mia vicina, che manco a dirlo, era proprio Aubree. Trovai buffo il fatto che fosse in casa e che tenesse le luci spente. Comunque, riuscivo a scorgere la sua figura in penombra grazie anche alla luce dei lampi, che la  illuminava ad intervalli regolari.
Sedeva a gambe incrociate sul divano a stile patchwork, e a un occhio esterno, nessuno poteva capire cosa stesse guardando: aveva tutti i capelli corvini a coprirle il viso.
Tuttavia, non mi servì sapere cosa stesse vedendo, sotto quei fili color carbone. Giusto per confermare che avessi ragione, mi sporsi alla finestra, e mirai gli occhi attenti su cosa, probabilmente, Aubree era attratta. Come sospettavo, guardava un uccellino giallo appollaiato sulla bacheca degli annunci.
Restai un paio di minuti ad osservarla, poi non ce la feci più.
 
 
La pioggia s’infrangeva su tutta la mia interezza e in pochi attimi fui fradicio.
Feci comparire nella mia mano il famoso retino, poi corsi verso il mio obiettivo.
L’uccellino fu più rapido.
Le ali presero a battere, impetuose, e ancora prima che potessi attraversare il pavimento di pietra, questo si era già innalzato in volo, libero.
Provai a saltare.
Ci riprovai, ancora e ancora.
Finché constatai, nella mia più profonda solitudine, che i miei piedi non avevano mai lasciato terra. Vedevo quel dannato uccello volare in cielo, mentre io non potevo nemmeno saltare.
Piansi.
Ma sarebbe troppo ridicolo dire che piansi solo per quello.
Piansi perché dopo mesi ad accettare tutte queste particolarità, ne scoprivo di nuove, sempre più scioccanti, sempre più limitative.
Piansi perché ero innamorato dell’unica persona che non potevo soddisfare.
Semplicemente, piansi.
Mi girai addirittura verso la finestra della casa di Aubree, e scoprì che quest’ultima non era più sul divano. Non c’era proprio.
E piansi ancora di più, perché speravo vedesse che almeno, per quanto malamente ci avessi provato, ci avevo provato.


§§§
 
Poi non resistetti più. Abbandonai sul suolo il retino, che prese la forma di una cassetta degli attrezzi, e mi diressi verso la scogliera più vicina.
Volevo darci un taglio.
Volevo dire basta.
Sapevo che non sarei sopravvissuto. Mi avevano detto, gli abitanti, quei luridi esseri, che l’unico modo per nuotare nel mare di Heland era tramite una muta subacquea. In base a ciò, sarei morto affogato, se non l’avessi indossata.
Ed ecco che ero arrivato. La morte mi avrebbe preso.
Tanto, mi dissi, ero io il pazzo.
Forse avevo perso la testa già da un pezzo e vedevo una realtà distorta.
Forse neppure fuggendo da Heland le persone sarebbe ritornate degli uomini.
Forse la mia famiglia l’avrei rivista sotto un’altra forma, e non più da umani.
Era meglio così. Prima che ferissi le persone a cui tenevo.
Protesi un piede.
Poi l’altro.
Infine, tutto si fermò. Ebbi una strana sensazione di vuoto, e lì mi dissi ecco, sto per cadere, ma poi ritornai alla posizione eretta di prima.
Diedi la colpa all’istinto di sopravvivenza.
Lanciai nuovamente l’impulso di cadere. E per qualche istante, ci credetti.
Poi smisi di crederci, quando il vuoto non mi accolse fra le sue braccia.
Questa volta feci la rincorsa.

Corsa, piedi, vuoto, terra.
Corsa, piedi, vuoto, terra.

Inutile dire che non caddi.
E allora capì.
Aubree si sarebbe innamorata di me solo se avessi preso un uccello.
Io l’avrei preso solo se saltare, e in generale, prenderlo, fosse possibile.
Io sarei morto solo se Aubree si fosse innamorata di me-se io avessi preso quel maledetto passero.
Ovvero mai.
Carpì che mi ero innamorato di Aubree perché era una di quelle limitazioni che mi mancavano tanto.
Come avere un wc in casa, una persona che ti ascolta, le canzoni commerciali dentro i negozi ed MTV.
E mi resi conto, con i vestiti bagnati e l’animo a pezzi, che alla fine la mia morte e  quell’uccello erano uguali.
Entrambe belle.
Entrambe impossibili
Ed entrambe, inafferabili. 











 










                                                                                                                                                                      
Wei.
Questa storia è nata in un momento di sfogo, quando di wi-fi non si vedeva neanche l’ombra (essendo partita per le vacanze) e il pc era l’unica mia ancora di salvezza.
Quindi beh, non prenderla troppo seriamente.
Alcune annotazioni:
Ho mixato Animal Crossing New Leaf con Animal Crossing New World, perché rendere Christian sindaco mi sembrava già troppo eccessivo. Ho lasciato quindi Tortimer dov’è, così come per Aubree. La trasformazione da bagaglio a foglia mi sembrava necessario, nonostante si, non venga mai accennato in nessun Animal Crossing. Ma in quel mondo, quando noi giocatori giochiamo, si presuppone che sia tutto normale, mentre io dovevo creare dei personaggi che non avevano nulla a che fare con animali parlanti e squali che non ti divorano mentre sei in acqua e che anzi, scappano. Bah. Mai capito.
Tuttavia, non ho potuto mettere alcune piccole perle del gioco.
Ovviamente, quando un personaggio decide di andarsene non può cambiare idea quando è in stazione. E non mi pare che K.K. durante i suoi così detti LIVE abbia mai suonato un lento. Ma vabbè, ho creato certe atmosfere solo per aggiungere un po’ di patos alla storia.
Detto ciò, vi auguro vi sia piaciuta, seppure questo sia un piccolo sfogo demente :D
 
Maty345










 

 
   
 
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