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Autore: edengarden    04/09/2015    2 recensioni
«Shh, non avere paura» disse lui, e la sua voce sembrava sprofondarmi nel cervello, «va tutto bene».
«T-t-tutto bene?» balbettai a mezza voce, in un preda ad un terrore che non pensavo avrei mai potuto provare. Lui non aveva smesso di toccarmi e cominciai a tremare.
«Ricordati di me».
Le mie gambe erano immobilizzate. Era come se fossero diventate di ghiaccio, fredde e ferme quanto le sue mani.
Chiusi di nuovo gli occhi e mi imposi di calmarmi. Non sta succedendo davvero. Non è reale.
«Ricordati di me» ripeté lui. «Ricordati di me… ricordati di me… ricordati…»
Un mezzo esperimento che spero di riuscire a portare a termine.
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fissai il cancello davanti a me. Faceva parte dell’alto muro in pietra che circondava l’antico cimitero ed era delimitato da due pilastri simili a colonne, ancora più alti e molto spessi, che terminavano con delle cupole nere in miniatura.
Era grigio, pesante, imponente, ed era aperto. Ero sicura che, se mi ci fossi appoggiata con le mani e avessi spinto, il silenzio della notte si sarebbe interrotto a causa dei cigolii. Senza quasi rendermene conto, indietreggiai.
«Oh no, Cora, ormai non si torna più indietro» disse Molly, dandomi uno spintone.
«Dai, Corrie, ce l’hai promesso» piagnucolò Grace, usando quello stupido soprannome, anche se sapeva bene quanto lo odiassi. Io non ho promesso un bel niente.  Alzai gli occhi al cielo, nerissimo ma pieno di stelle, e mi girai verso di loro.
La luce del lampione poco distante illuminava debolmente le due sorelle, una la fotocopia dell’altra fisicamente, ma totalmente opposte caratterialmente.
Molly teneva gli occhi chiari fissi su di me, e non c’era tenerezza nel suo sguardo. Aveva le braccia conserte, strette al petto, e batteva incessantemente il piede a terra, come se volesse andare al ritmo dei secondi che passavano.
Grace, gli occhi grandi e dolci, teneva le mani unite come se stesse pregando. Ed in effetti mi stavano pregando, tutte e due. Volevano che entrassi nel cimitero.

                                                                                                ***

La colpa era in parte mia. Ci eravamo ritrovati, noi tre insieme ad altre ragazze e ragazzi, a guardare le stelle nel piccolo campo da calcio attiguo alla Chiesa. Alcuni bevevano, altri fumavano, le coppie si erano appartate negli angoli per pomiciare; i restanti, me compresa, facevano l’unica cosa che si può fare in gruppo, alle tre di notte, con il rumore delle cicale in sottofondo: parlare di fantasmi.
«Ve lo giuro, l’ho visto» aveva detto una ragazza minuta e biondissima, rivolgendosi a Molly e Grace. «Ero con il mio ragazzo. Lui era alticcio, ma io non avevo bevuto neanche un goccio, e l’ho visto».
Molly non aveva detto una parola, ma Grace aveva sussultato. Io non conoscevo la ragazza bionda, ma loro erano mie amiche – anche se le avevo conosciute solo all’inizio dell’estate – e non mi piaceva che fossero prese in giro.
«Cazzate» avevo quindi detto, aspra. La bionda mi aveva lanciato uno sguardo sorpreso, come se si fosse accorta della mia presenza solo nel momento in cui avevo aperto bocca. Poi era arrossita violentemente e la sorpresa era diventata rabbia.
«Non parlare di cose che non sai, straniera» aveva sibilato. Io mi ero dovuta mordere l’interno della guancia per evitare di scoppiarle a ridere in faccia: quella parola, “straniera”, non solo sembrava uscita direttamente dalla sceneggiatura di un film western, ma era anche usata come un’offesa. Probabilmente era tipico degli abitanti dei piccoli paesini, sentirsi legati da una sorta di fortissima colla e vedere i visitatori esclusivamente come intrusi; ma a me essere chiamata così non faceva né caldo né freddo, quindi, con calma, avevo ripetuto: «Sono solo cazzate».
Prima che la bionda avesse avuto il tempo di saltarmi addosso e staccarmi un braccio a morsi, o qualcosa del genere, era intervenuta Molly. Aveva detto: «Lasciala parlare, Cora», poi aveva aggiunto, scandendo bene ogni parola: «Che aspetto aveva?».
La bionda mi aveva riservato un’ultima occhiata minacciosa; poi, felice di essere presa sul serio, si era lanciata in un’accuratissima descrizione del fantasma.
«So che descrivervelo non serve» (perché, avevo pensato, lo conoscevano?) «ma era molto alto, almeno un metro e ottantacinque, e magro. Aveva i capelli mossi, castani, non abbastanza lunghi da essere raccolti in una coda, ma quasi. Gli occhi proprio come i vostri, verdi-azzurri-grigi, oh, insomma, avete capito. Portava dei jeans, una maglia scura con lo scollo a v e scarpe da tennis. L’ho visto e sono rimasta impietrita, e anche lui mi fissava, poi con la mano mi ha fatto segno di andare via, così» e aveva mosso la mano di scatto verso di noi, come quando si vuole allontanare un animale.
Molly non aveva aperto bocca.
Io ne avevo abbastanza.
«Cosa ci guadagni, a prendere per il culo così le persone?» avevo detto, incurante dell’espressione poco fine.
«Ti ho detto di non parlare di cos-»
«I fantasmi non esistono» l’avevo interrotta. «Eri in un cimitero, era notte fonda. Magari avevi sentito certe storie su un ragazzo sepolto lì, hai sentito dei rumori e ti sei lasciata suggestionare» il mio tono sembrava quello di una maestrina, ma non ci avevo fatto caso.
«Mi stai dicendo che se tu fossi stata al posto mio, non avresti visto nessuno? Che sono stata io ad immaginarmi tutto?!».
Avevo annuito.
«E allora vacci tu. Avanti, ti sfido, il cimitero è qui dietro. Vacci tu».
Io odiavo le sfide. Cioè, odiavo perderle. Mi ero alzata in piedi, mi ero lisciata il vestito e avevo detto che sì, sicuro, per me non c’era problema.
E adesso io, Molly e Grace eravamo di fronte al cancello.
Gli altri non erano voluti venire – neanche la bionda, purtroppo, anche se la sua smorfia incredula era stata pane per i miei denti – ma noi eravamo lì davanti.
Perché è così importante per loro? Avevo la sensazione che mi stessero nascondendo qualcosa…
«Lo conoscevate?» chiesi.
Non seppi interpretare le loro espressioni neutre o i loro silenzi. Dopo qualche secondo di troppo, Grace annuì e Molly scosse la testa. Poi si guardarono e insieme dissero: «Non ha importanza».
Ma per me ce l’aveva, eccome. Cos’era, una specie di scherzo da fare agli stranieri? C’era un attore loro complice nel cimitero, pronto a spaventarmi?
«Ti prego, Corrie» sussurrò Grace guardandosi le dita delle mani, e vidi che una lacrima le stava scendendo giù verso le labbra.
Sospirai. Va bene, pensai, ma sarà meglio per loro che mi raccontino cosa sta succedendo, quando sarò uscita. E se è uno scherzo giuro che prima mi incazzo, poi mi complimento per le loro doti recitative.
«Che cosa devo fare, esattamente?».

                                                                                                ***

Oltrepassato il cancello c’erano due rampe di scale, una a destra e una a sinistra, che portavano alla piattaforma in pietra dalla quale si vedevano il cancello, il lampione, la strada e le mie amiche. Tutto attorno alle rampe, nel territorio in pendenza, una trentina di lapidi di pietra disseminate qua e là. Sono quelle più vecchie, aveva detto Molly. Io dovevo arrivare alla piattaforma e salire ancora, questa volta su un'unica rampa più larga, salire fino in cima. Poi sarei dovuta girare a sinistra e contare dodici tombe, delle quali le prime tre erano senza nome. Avrei trovato Michelle Roque, Christopher Constance, Leah King e altri nomi che non ricordavo. Ricordavo però il più importante, il nome della tomba che precedeva quella che interessava a me. William Gore.
«Come si chiamava il ragazzo?» avevo chiesto mentre Molly si spiegava dove dovevo arrivare, ma lei aveva ripetuto che non aveva importanza. «La sua tomba è subito dopo quella di William Gore», e fine del discorso.
Salivo uno ad uno i gradini di pietra e avevo perso la baldanza con cui avevo accettato la sfida. Più precisamente: me la facevo sotto. L’atmosfera era spettrale, il silenzio quasi totale, eccezion fatta per i miei passi incerti e leggeri.
Chi me l’ha fatto fare… chi me l’ha fatto fare…chi me l’ha f-
Sentii un rumore alle mie spalle. Di scatto mi girai, per vedere un piccolo pezzo di uno scalino rotolare giù, rimbalzando sugli altri.
Mi diedi della stupida e ridacchiai. I fantasmi non esistono.
Arrivai fino alla fine dell’ultima rampa e svoltai a sinistra. Riuscivo a vedere a stento, con la sola luce della luna, perciò mi limitai a contare le lapidi.
Ecco quella di Michelle Roque. Provai ad immaginarmela: era stata altissima, così alta da avere nella sua vita solo fidanzati più bassi di lei; aveva avuto un bel paio di occhi marroni, dolci e profondi. Faceva la guida nel museo storico della città ed era stata investita da un automobilista ubriaco.
Mi resi conto che pensare a che vita avevano vissuto le persone sepolte sotto i miei piedi mi distraeva, e la fantasia non mi mancava. Avanzai e continuai.
Christopher Constance, di famiglia nobile. Asfissiato da un padre che lo rinchiudeva in biblioteca a studiare e da una madre che lo assillava con le regole del Galateo. Lui voleva solo viaggiare, scoprire il mondo. Si ammalò di spagnola all’età di 19 anni e morì pochi mesi dopo.
Era possibile una cosa del genere? Non sapevo quanto antico fosse il cimitero, se lapidi più vecchie e quelle più recenti fossero separate o mischiate. Decisi che era possibile: a prescindere dall’epoca, dalla famiglia d’origine o dall’età, quelle persone erano morte.
Leah King. Una bambina con capelli rossi e straordinari poteri telecinetici, scambiata per strega e messa al rogo all’età di 14 anni.
Continuai così. Lei era un’attrice, lui un giocatore d’azzardo; loro due fratelli, innamorati della stessa ragazza, uno aveva ucciso l’altro e poi si era tolto la vita, straziato dai sensi di colpa. Continuai così fino ad arrivare alle ultime due tombe, distanti tra loro qualche metro. La prima era la tomba di William Gore; mh, vediamo… pianista, stroncato da un infarto.
L’ultima era la tomba di…
Non sapevo ancora il suo nome.
Questa volta mi avvicinai e mi accovacciai, facendomi luce con il cellulare per leggere il nome inciso sulla lapide.
Nicholas Green.
Un momento… ma quel cognome era…
Sentii qualcosa di freddo sulla mia spalla.
Il tempo sembrò fermarsi, cristallizzarsi, e mi sembrò che ci fossero cinque gradi in meno. Alzai lo sguardo verso la spalla e vidi una mano. La mano strinse la presa ed io urlai, cercando di allontanarmi.
Lo vidi lì, accanto alla tomba. I capelli lunghi, gli occhi chiari, l’abbigliamento: tutto corrispondeva alla descrizione della ragazza bionda. Se ne stava lì in piedi a fissarmi e i suoi occhi… oh, i suoi occhi erano furiosi.
Chiusi i miei. Era solo un’allucinazione, non c’erano altre spiegazioni. Se avessi tenuto gli occhi ben strizzati e poi li avessi riaperti, lui sarebbe scomparso.
Tenni gli occhi chiusi, ancora accovacciata a terra, mentre il petto mi si alzava e mi si abbassava velocemente, mentre il mio respiro affannato non riusciva a calmarsi.
I fantasmi non esistono.
Ma le sue mani fredde mi presero per le braccia e mi tirarono su con una forza sovraumana, come se pesassi tre chili e non cinquantatré.
Spalancai gli occhi e urlai di nuovo.
«Shh, non avere paura» disse lui, e la sua voce sembrava sprofondarmi nel cervello, «va tutto bene».
«T-t-tutto bene?» balbettai a mezza voce, in un preda ad un terrore che non pensavo avrei mai potuto provare. Lui non aveva smesso di toccarmi e cominciai a tremare.
«Ricordati di me».
Le mie gambe erano immobilizzate. Era come se fossero diventate di ghiaccio, fredde e ferme quanto le sue mani.
Chiusi di nuovo gli occhi e mi imposi di calmarmi. Non sta succedendo davvero. Non è reale.
«Ricordati di me» ripeté lui. «Ricordati di me… ricordati di me… ricordati…»

«… ricordati di fare la spesa, tesoro, mi raccomando!».
Quando aprii gli occhi mi guardai intorno, confusa e disorientata.
La voce di mia madre si affievolì e sparì del tutto quando la porta di casa si chiuse.
Scostai le lenzuola e vidi che indossavo il pigiama.
Ero in camera mia.
   
 
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