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Autore: Roxar    05/09/2015    5 recensioni
«Ma resta concentrato, piccolo Regulus, perché questo non è un sogno: è tuo fratello Sirius che sta scaraventando tutte le sue cose nel baule, tutte – vestiti, effetti personali, libri, qualsiasi cosa.
Ma non l’orologio che gli hai regalato due anni fa, ci hai fatto caso?»
[Brotherhood | Sirius/Regulus | Angst | Goodbye]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Regulus Black, Sirius Black
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Crew&Ship: Regulus Black, Sirius Black | brotherhood!Sirius/Regulus
Warnings: Hurt, Angst, Goodbye
Varie ed eventuali: Questa fanfiction - questa piccola, dolorosissima fanfiction - non sarebbe mai nata se non fosse stato per la mia Finnigan. Il minuto prima eravamo lì che parlavamo di quanto doloroso e bellissimo fosse il rapporto tra i fratelli Black e quello dopo avevo già aperto WordPad per abbozzare questa cosa. È che Finnigan è un procione stravagante: quando le ho chiesto se per regalo di compleanno desiderava questa o una Wolfstar innocua, lei ha scelto questa, pur sapendo quanto sarebbe stata dolorosa. Procione veramente stravagante.
Ecco, Finnigan, questa è tutta per te: fattela piacere, perché a me, personalmente, piace. È stato terribile scrivere di Regulus in questa maniera e in questa persona, quindi vedi di fartela piacere, thx ♥
Madonna, sei già una Finnigan grande. Buon compleanno (e tanti limoni), ma cher ♥
La vostra amichevole Rana di quartiere.

 

___

 

 

 

 

«Il primo della stirpe è legato ad un albero
e l’ultimo se lo stanno mangiando le formiche.
»
(Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine)

 

 

 

 

Nel sogno – sempre lo stesso, sempre lo stesso e vorresti davvero strappartelo dal cuore dalla testa, farlo a pezzi e gettarlo via dove non può farti male – Sirius ti tiene la mano. È stupido, rifletti sempre a posteriori, perché Sirius non ti ha mai tenuto la mano: diceva che era da stupidi, che era da femmine – non ha mai capito quanto ne avevi bisogno, quanto ti sentivi piccolo.

Nei tuoi sogni, però, lo fa.

Ha appena una manciata d’anni e tu gli trotti dietro in quel modo goffo e traballante di chi ancora non ha nelle scarpe un gran numero di passi, troppo piccolo per articolare correttamente il suo nome – viene fuori in un sibilo che suona come Siuuu o qualcosa del genere – troppo piccolo per parlare con lui, ma già intelligente abbastanza da capire che non vuoi restare indietro. Allora vacilli pericolosamente sulle ginocchia, prendi coraggio e ti sbilanci come un uccellino in procinto di spiccare il volo, in bilico sulle punte dei piedi, infilando la manina in quella calda e morbida di Sirius, che la stringe senza esitazione e ti guarda appena per scoccarti uno di quei suoi sorrisi fiammanti e luminosi come le stelle da cui ha ereditato il nome. Gli prendi la mano perché hai questa bizzarra sensazione che se resterai indietro, sarai perduto. Che se resterai con Sirius, sarai salvato.

A questo punto, il sogno sfuma in una nebbiolina perlacea e le vostre piccole schiene si fanno ancora più piccole, fino a sbiadire nella bruma che anticipa il risveglio, ma che per qualche secondo resistono davanti alle palpebre schiuse, appicciose di sonno.

Però oggi c’è qualcosa di diverso.

Lo accogli di malavoglia, è sgradevole contro la pelle sudata, come le lenzuola quando ti si avvinghiano alle ginocchia, fasciandoti stretto. Non resti a vedere le vostre schiene che sbiadiscono, ma precipiti nel buio e un urlo terribile ti riempie le orecchie – il tuo cuore non ha mai battuto più forte.

Cerchi di scappare, ti divincoli, tiri calci e pugni e il pavimento ti viene incontro, ti sale addosso e ti schiaffeggia – slap! –, strappandoti dagli ultimi brandelli fumosi del sogno. È mattina presto – lo capisci dalla luce grigia e smorta che filtra dalle tende serrate – e qualcuno, due piani più giù, sta urlando. Verosimilmente, tua madre e tuo fratello.

Impieghi diverso tempo a renderti conto che quella sensazione viscida non ti ha ancora abbandonato. L’avevi imputata al fastidio per essere stato così bruscamente svegliato, ma è chiaro che c’è dell’altro. È come un sussurro maligno sul collo, come il presagio di una catastrofe... Sfreghi piano la nuca e ignori il dolore pulsante al naso; cerchi di venire a patti con questa cosa, con questa cosa che ti stringe lo stomaco e che non fa male, ma neppure bene. È solo fastidiosa, solo...

Una porta sbatte. Troppo forte e troppo vicina per non essere quella di Sirius. Pensi di affacciarti e domandargli che cosa succede – sempre che sia anche solo vagamente in vena di parlarti – ma i passi rapidi di tua madre lungo le scale ti fanno desistere, perché forse puoi affrontare tuo fratello, ma non lei. Mai lei.

E pensare che tu, Regulus, volevi solo una famiglia felice, non quest’enorme casa piena di veleno.

Adesso stanno dicendo qualcosa a proposito del sangue. C’è sempre qualcosa da dire a proposito del sangue. Non puoi esprimerlo ad alta voce, ma non hai mai capito perché ci sia sempre qualcosa da dire a proposito del sangue. E d’altra parte, da te ci si aspetta obbedienza e fedeltà, non domande spigolose che non dovrebbero neppure sfiorare lo zerbino.

Premi la fronte contro la porta, isoli le urla e pensi a Sirius. Non che tu non lo faccia mai; lo fai, e spesso, ma stamattina, qui e adesso, hai voglia di pensare a quello che hai perso. Vuoi piangere quel fratello perduto che a volte, molti anni fa, ti strattonava il mantello sulle spalle perché voleva proteggerti dal freddo – voleva proteggerti da tutto, Sirius, perché eri piccolo e fragile e buono, e raramente le persone piccole e fragili e buone riescono a proteggersi da sé. Vuoi piangere quel che un Cappello ha diviso e mai più riunito, quel che i colori dell’oro e dell’argento hanno macchiato, insozzato, abbruttito, fino a fargli perdere senso. E vuoi anche odiare chi sembra aver meritato il suo affetto più di te solo perché i colori – i pensieri – sono quelli giusti.

Sirius.

È un nome piccolo, tutto di lingua e di gola, che suona come qualcosa di serio. Ma in lui, di serio, c’è solo lo sguardo che ti rivolge ogni volta che vi incrociate sulle scale sembra quello di un estraneo – come se non ti conoscesse più, come se non ti avesse mai conosciuto. E ogni volta vorresti scuoterlo e urlargli di guardarti, di guardare in faccia quel bambino che aveva tanta smania di proteggere e che ha infine abbandonato solo perché un vecchio, lurido Cappello si è messo tra loro, sancendo quella che deve aver interpretato come la fine. E ogni volta resti con i tuoi pugni chiusi e con la tua bocca sigillata, ad incrociare lo sguardo con quel fratello che non ti appartiene più ma che, dentro, proprio nel cuore, senti ti appartenga al punto da fare male, da farti male.

Le grida si sono spente e lo realizzi solo adesso, che il legno della porta ha quasi del tutto assorbito il calore della tua pelle. Riesci ad intercettare solo suoni piccoli e soffici come qualcosa di morbido che viene scagliato – ti ricordi, Sirius, quella volta che abbiamo giocato a tirarci le coperte addosso e tu sei riuscito ad avvolgermi stretto, con un lembo di coperta a farmi da cappuccio e la tua voce che mi diceva che sarebbe stato bello se fossi rimasto sempre così, piccolo e buono e facile da vegliare? – e ti arrischi ad aprire la porta, piano piano, un centimetro alla volta, quel tanto che basta a cacciare la testa nella fessura stretta e guardare a sinistra, alla sua porta socchiusa. Quei suoni buffi adesso sono più forti, più cadenzati. Una goccia di sudore gelido ti scivola oltre il colletto del pigiama e il tuo cuore batte più forte. Non ti piacciono, quei suoni, perché sembrano presagire qualcosa di orribile. Qualcosa da cui devi proteggerti. Sei già fuori dalla porta, sei già fuori dalla sua porta, la stai già spalancando e sembra tutto un sogno, vero? L’esasperata lentezza dei tuoi movimenti, il respiro pesante e trattenuto, i colori brillanti – quelli giusti, quei maledetti colori giusti – è tutto così onirico, vero?

Ma resta concentrato, piccolo Regulus, perché questo non è un sogno: è tuo fratello Sirius che sta scaraventando tutte le sue cose nel baule, tutte – vestiti, effetti personali, libri, qualsiasi cosa.

Ma non l’orologio che gli hai regalato due anni fa, ci hai fatto caso?

La bocca è così asciutta, oh, così talmente asciutta che cerchi di raccogliere un po’ di saliva e rischi solo di soffocare. Senti come tremano le ginocchia. Senti come tremano le mani. Senti come ti senti piccolo e fragile e buono, e nessuno sta rimanendo per proteggerti.

«Cosa stai facendo?»

Sirius impiega un secondo in più per riconoscerti, è solo una frazione di tempo molto piccola, ma la senti pesare come il dolore di cent’anni. C’è qualcosa di angosciante nei suoi occhi che ti guardano ma non ti vedono, come se fossi solo un’ombra sul muro, un riflesso sulla porta. Tu, però, non te ne stai rendendo conto: continui a fissare il baule rigurgitante della sua roba sgualcita e spettinata e stai cercando di non capire quello che sta per succedere – quello che in realtà hai imparato ad aspettarti molto tempo fa.

«Me ne vado» ti informa e sotto la coltre di calma apparente sono chiari i sentori di una tempesta. Ma Sirius è testardo e orgoglioso: non esploderà qui. Qualcun altro, in qualche altro luogo, gli darà un momento per crollare.

Non sarai tu.

Ma fino ad allora, schiena dritta e mento alto, tuo fratello terrà fede a se stesso.

«Dove? E quando torni?»

Sirius si interrompe nel mezzo di un movimento, abbozza un sorriso ingannevolmente indulgente, si raddrizza e getta una t-shirt appallattolata nel baule. Ti guarda. Vorresti che non lo facesse – non in quel modo, come se fossi sempre e solo il fratello stupido.

«Regulus» articola lentamente e il tuo nome ha un suono così sgradevole, così pesante «Io non tornerò. Mai più».

Ecco. L’ha detto. L’ha detto e te l’aspettavi, ma questo non significa affatto che sia meno doloroso. Meno devastante. Stringi il pugno; c’è il fantasma della sua mano, delle sue dita arricciate sulle tue. Ma Sirius non ti ha mai dato la mano, ricordi? Non importa quante volte tu l’abbia tesa: lui non l’ha mai presa.

Chiude il baule con un movimento violento e il coperchio cozza con una nota definitiva. Sirius si china, afferra una delle maniglie laterali e si incammina fuori dalla porta, incurante del bagaglio che urta e graffia e stride – un po’ ti somiglia, Regulus, no? Non ti senti così anche tu? – incurante dei tuoi passi goffi e traballanti perché ancora non ne hai abbastanza nelle scarpe che lo seguono, della tua mano che si tende con l’intenzione di acciuffargli il dietro della camicia e del tuo braccio che è troppo corto – o è Sirius che è troppo lontano? – e non ce la fa.

«Sirius, tu non... non... Sirius».

La tua voce non è mai stata così sottile. Anche le parole suonano strane, stridule (Siuuu).

La sua schiena inizia già a sembrare più piccola.

Ma poi, poi c’è questo momento estemporaneo, questo momento dove Sirius trascina il baule lungo il gradino e indugia ai piedi delle scale. Non capisci cosa sta succedendo, ma oltre lo shock, il rifiuto e l’abbandono c’è questa speranza, questa piccola speranza che fa una capriola allegra quando Sirius volta la testa e ti fissa, con gli occhi grigi che brillano nella penombra. Ti guarda come il bambino che era, come il bambino che eri, e – no, non lo stai sognando, o immaginando – il suo braccio si alza e la mano viene tesa in segno d’offerta per quella che deve essere la prima volta nelle vostre giovani vite stropicciate.

Quando parla, la sua voce è così piena di dolore che la tua gola si chiude di riflesso – perché sei ancora piccolo e fragile e buono e per un attimo pensi che sarebbe bello spogliarsi del cognome, confondere il sangue e piangere un po’.

«Vieni con me. Regulus, vieni con me» ripete e c’è tanta urgenza nella sua voce e lo vedi, Regulus, lo vedi che sta ancora cercando di proteggerti? Lo vedi che ti sta tendendo la mano? Non la senti ancora, quella sensazione che se non la prenderai sarai perduto? Che se resterai con lui sarai salvato?

Apri e chiudi le dita – c’è lo spettro di un calore mai esistito, sul palmo. Per un attimo pensi che i tuoi piedi si muoveranno, che avranno passi a sufficienza nelle scarpe per calpestare ogni singolo gradino, lasciare scivolare la tua mano ormai troppo grande nella sua mano troppo grande e buttarsi dietro la schiena quest’enorme casa piena di veleno. Per un attimo ti vedi nella luce del primo mattino, vestito di nient’altro che un pigiama leggero, in piedi sul marciapiede, in piedi accanto a Sirius che ti sorride di quel sorriso luminoso e brillante come le stelle di cui porta il nome, accanto a Sirius che tende la bacchetta e chiama il Nottetempo.

E il Nottetempo è già qui, la tua mano è ancora nella sua – siete due fratelli, siete due ragazzi e siete troppo grandi, ma che te ne importa? – sulle labbra ancora quel mezzo sorriso vivace – fraterno – ma ecco che indugi sullo scalino. Un bigliettaio senza volto ti fissa, Sirius ti fissa e il peso di quello che altri, molto tempo fa, hanno scelto di farti diventare ti precipita sulla schiena, spezzando il contatto con le dita di Sirius – sbrogliandole dalle tue.

Vieni scaraventato nel tuo corpo, qui, in cima a questa scala ombrosa. Il braccio di Sirius trema, ma lui non cede. È giusto. Tocca a te abbassarlo.

«Non posso».

Prevedibilmente, il braccio di Sirius ricade inerte su un fianco. La linea della bocca è curvata in un sorriso amaro, deluso, ma non sorpreso. È peggio di tutto il resto.

«No» conviene. «Non puoi».

Adesso non lo sai, non lo sai ancora, ma queste sono le ultime parole che sentirai pronunciate dalla sua bocca. Le sue ultime parole per te, per quel fratello che ha dovuto lasciare andare, che ha fatto scelte diverse scelte di altri fatte per lui. Se lo sapessi, forse faresti qualcosa, qualcosa che non sia solo startene in piedi su quel primo gradino, sospeso, con questa cosa che ti cresce nella pancia e ti dilania pezzo a pezzo, a guardarlo aprire la porta di casa, a stringere gli occhi per quell’unico fascio di luce che ti illumina da capo a piedi – quegli occhi che adesso, così illuminati, hanno lo stesso colore dei suoi, il colore giusto – che illumina il tuo corpo che, visto dai piedi dalle scale, sembra solo quello di un bambino.

È solo quello di un bambino. Siuuu.

Faresti qualcosa che non sia restartene fermo e guardare la sua schiena rimpicciolire e sbiadire nella nebbia opalescente del primo mattino, inghiottita infine dal buio di una porta chiusa.

Invece è proprio quello che fai. Sirius è andato avanti, tu sei rimasto indietro e sei irrimediabilmente perduto.

Ti resta solo quel vecchio dolore vecchio di cent’anni.

 

____

 

Brucia come l’inferno, ma somiglia alla pace.

Decine di mani di tengono stretto, ti reclamano, non ti lasciano indietro. Guardi il soffitto di questa grotta scabra attraverso la superficie increspata dell’acqua, e forse è solo il residuo della pozione, o forse è solo che stai morendo, ma quello che vedi è solo una mano tesa verso di te. Piccola, morbida: quella di un bambino.

Somiglia a qualcos’altro e realizzi ora, in quest’ultimo momento di fredda razionalità, che tutto quello che ti ha portato qui e adesso origina da quell’offerta che, molto tempo fa, hai rifiutato.

Ma che male c’è, se la prendi adesso? Avanti, Regulus, solleva il braccio, così, da bravo. Tendi le dita, ecco, vedi?, ci sei quasi.

Prendila, Regulus. Stringila tra le dita – è calda e luminescente, sembra il riflesso di una stella – stringila e che sia finita per sempre.

Le persone che amiamo non ci lasciano mai veramente. Restano qui dove sei rimasto tu.

Siuuu!

 

 

 

«Le stirpi condannate a cent’anni di solitudine
non avevano una seconda opportunità sulla terra.
»
(Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine)

 

 

 

   
 
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