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Autore: Ghen    05/09/2015    0 recensioni
È notte. Una ragazza passeggia per il lungomare e vede un giovane sganciare una barca, pronto per salpare. Si incuriosisce subito e lo raggiunge al porto, tentando di fermarlo, il mare è molto buio e promette tempesta, ma lui non cede, dice che sta andando a recuperare delle persone e la invita a seguirlo. Lei accetta.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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L'ultimo viaggio, insieme



È una notte molto buia e la luna è tanto grande. C'è vento e vedo la gente stringersi nelle giacchette, tornando di fretta nelle loro case, ma io non sento freddo, sono solo stanca. Non riesco a smettere di passeggiare per il lungomare; mi aiuta a pensare, a riordinare le idee. Poi mi fermo. Vedo un ragazzo con un lungo giaccone che si allontana verso il porto e lo seguo. È sospetto: non l'ho mai visto e mi incuriosisce. Sale su una piccola barca e cerca di sganciarla. Ma è notte e il cielo promette tempesta, non mi sarei sentita bene con me stessa se glielo avessi lasciato fare, così lo interrompo con un'attenta occhiata.
«Mi scusi», gli dico e lui si gira verso di me, con sguardo perplesso. «Non starà pensando di salpare? È notte e lei ha solo una-», la guardai, sembrava un modello piuttosto vecchio, «lampada ad olio, non vedrebbe niente, e si perderebbe. È vietato, comunque! Rischia la sua vita». Mi sistemo i capelli dietro le orecchie in un gesto involontario e stringo le braccia al petto: lui mi irrita un po', sto cercando di salvarlo da un possibile naufragio e sembra mi voglia prendere in giro, sorridendo a quel modo.
«L'ho fatto altre volte», mi dice, «Non mi accadrà niente. Ma se vuoi, puoi venire con me», io mi stringo nelle spalle, cercando di capire, «Sto andando a recuperare delle persone: potresti aiutarmi con loro. Che ne dici?».
È tutto così strano. Alzo gli occhi all'orizzonte buio e decido di ascoltare quel giovane uomo, di andarci. Se penso di lasciarlo da solo mi sento un'irresponsabile, ma in due ce la faremmo sicuramente. «Va bene», annuii.
Mi aiuta a salire sulla barca e mi guardo brevemente intorno, notando che ha una bussola, oltre alla lampada. Nient'altro. Non sembra pronto per affrontare un viaggio in mare aperto, così lo fisso con concentrazione, cercando di capire cosa nasconde. Lui riesce a sganciare la barca e dà una spinta, così inizia a remare.
«Mi chiamo Michele. Tu?».
Io lo guardo di straforo, concentrandomi sulle altre barche molto più grandi che stiamo lasciando nel porto. «Non dirò il mio nome a uno sconosciuto», rispondo.
«Va bene», mi sorride. Quella sua sicurezza mi dà fastidio.
«Allora, dov'è che ci stiamo dirigendo? Hai detto che devi recuperare delle persone…?».
«Sì», annuisce, «Saranno tanti e il mio compito è di trovarli e riportarli sulla terraferma» .
«Capisco». In verità, non ho molte domande da porgli. Certo, sembra una cosa piuttosto strana, ma tutto era strano, a partire da lui. Tuttavia, sono sicura che stia facendo una cosa giusta e seguirlo mi rende partecipe di questa cosa giusta. Recuperare delle persone e riportarle a terra è un gesto di tutto rispetto. Però mi guardo intorno e capisco che tutti non ci stiamo, se a malapena ci possiamo muovere noi. «Scusa», lo distraggo ancora, «se posso darti del tu. Ma dove vuoi mettere queste persone, se ci stiamo a stento noi, qui sopra? La tua barca è troppo piccola».
«Dici davvero?», mi chiede. Mi indica con un piede un quadrato sul fondo della barca e aggrotto le sopracciglia, cercando di capire.
«Una botola?», domando.
«Apri ed entra», mi fa l'occhiolino, mettendomi curiosità, «Sono certo che non troverai più la mia barca così piccola».
Mi ha punto sul tasto giusto, così stringo il pomello e lo giro tirando verso di me. Ci sono delle scale e vado sotto, guardando Michele solo un'altra una volta, che ancora mi sorride con soddisfazione. Appena mi affaccio al livello inferiore spalanco la bocca dallo stupore, vedendo quel salone così grande e accogliente. È illuminato da tante lampade ad olio ed è pieno di letti, di sedie, di giocattoli e riviste. Solo adesso capisco che Michele è pronto a ospitare tantissime persone senza problemi, anche per un lungo viaggio. Mi faccio un giro veloce e mi affaccio allo specchio, notando di avere il naso ancora arrossato: quel raffreddore non voleva proprio lasciarmi in pace, anche se fortunatamente non sentivo più quel dannato prurito; meglio, perché cerco dei fazzoletti nei jeans e non ci sono. Devo averli persi, così sbuffo. Avrebbero potuto servirmi per le persone che eravamo pronti a soccorrere e ci rimango male; spero ce ne siano in quella sala, da qualche parte. Quando torno di sopra, lui ancora mi fissa, ma io guardo oltre: la costa è già molto lontana e le onde in quel punto sono tanto alte, ci sballottolano un po'. Michele guarda la sua bussola e il mare, di nuovo la bussola e il mare, sussurrando qualcosa. Così la riappoggia e afferra i remi, continuando a navigare. Io guardo l'orizzonte e stringo gli occhi, nel tentavo di inquadrare e riconoscere qualcosa in mezzo alle onde: una persona?
«Sì, ci siamo», esclama lui e ride.
C'è ben poco da ridere, penso invece io: quel poverino sarà in acqua da chissà quante ore e la sua pelle si sarà fatta viola, o gialla. E sarà ormai stanco di tenersi a galla. Ci avviciniamo e Michele poggia i remi, allungando una mano verso il mare. Inaspettatamente qualuno gliel'afferra e lui tira su quel braccio pallido e gonfio, così l'aiuto e l'uomo si accascia sulla barca. È bagnato, naturalmente, ma respira ancora. Così mi sembra. Deve essere molto stanco, lo vedo battersi il petto e cercare la voce, che in un primo momento sembra non avere. Dice solo grazie, dopo qualche tentativo. Michele gli apre la botola e io mi offro di accompagnarlo giù. Scendiamo e lui sembra riprendersi pian piano, anche se continua a tenersi la testa, con confusione.
«Puoi sdraiarti in uno di questi letti», gli dico subito, accompagnandolo io stessa. Bagna un po' le lenzuola ma si sta asciugando in fretta e non me ne preoccupo. Lui si guarda le mani dai palmi pallidi e poi si regge con gli stessi la testa, seduto sul lettino. Mi avvicino a lui e mi siedo, ma è come se sapessi di non poterlo consolare. «Ti ricordi come ti chiami?». Mi viene spontaneo porgli quella domanda. «Cosa facevi, come sei finito in mare?». Gli fisso i ricci nerissimi che gli fanno colare l'acqua sul viso, perché mi sembra di averli già visti.
«No», scuote la testa, «Non… ricordo il mio nome. Dovrei saperlo, ma non lo so», mi guarda con gli occhi colmi di disperazione e io resto senza fiato. Il suo sguardo è profondo e parla più di quanto possa farlo lui: quell'uomo ha vissuto una tragedia.
Cerco qualcosa per distrarlo quando sento la botola aprirsi ancora e scendono altre persone: una donna, altri due uomini, di cui uno molto giovane, e due bambini. Michele sta facendo in fretta, penso. Li accolgo con fervore, mostrando i letti. Il ragazzo si sdraia quasi subito ma gli altri restano a guardarsi attorno e io cerco un modo per farli stare tranquilli. Sono tutti provati e impauriti, specie i più piccoli, che stanno per mettersi a piangere. No, i lamenti di quei bambini mi mandano in crisi e mi metto le mani in fronte. Recupero due giocattoli e glieli mostro, ma non sembrano pronti a darmi ascolto. Io non demordo. Alla fine uno dei due cede e l'altro piccolo sorride a mapalena, prendendo l'altro giocattolo dalla mia mano. Li porto in un angolo della sala e cerco di giocare con loro, notando che gli altri ospiti sono un po' più calmi e non hanno bisogno di me. Questi bambini sono molto piccoli e parlano appena. Chiedo loro come si chiamano e se sanno dove sono i loro genitori, ma nessuno dei due sa rispondermi. Non insisto e li lascio giocare, in tempo per vedere altre persone scendere dalla botola. Molte donne, alcune ragazze giovani, altri due ragazzi, due uomini, tre bambini e due bambine. Li faccio passare, li accolgo e cerco di tenerli buoni. Mi giro e la gente continua a scendere, è sempre di più, è sempre troppa, e sento la mia pressione salire. All'improvviso ho paura. Mi guardo intorno e li vedo smarriti, bagnati, gonfi e paonazzi. Una bambina mi fissa e io le distolgo lo sguardo. Non ce la faccio, ho bisogno d'aria.
Salgo la botola e Michele mi squadra, distogliendo per un attimo l'attenzione dalla sua bussola.
«È con quella che sai dove trovarli, eh?», mi sforzo di sorridergli, ma vorrei urlare. Lui annuisce e riprende i remi. Ho come l'impressione che il tempo dentro quella sala sia diverso da quello sulla barca, ma non ne sono sicura e non glielo chiedo. In fondo è ancora notte pesta, noto guardando il cielo pieno di stelle. È tutto così scuro e buio. Riguardo Michele e lui altrettanto, come se sentisse subito il mio sguardo posarsi su di lui. «La vita è stata ingiusta con loro, eh?», gli chiedo.
«La gente», risponde e io resto perplessa, «Non la vita».
«Non capisco».
«Non è la vita che accende la guerra, ma la gente. Le persone fanno soffrire altre persone», inizia a spiegarmi, «La gente è un animale. Un animale che sente l'irrefrenabile bisogno di ricadere sempre nello stesso errore, o così ci ha insegnato la storia. Depreda, uccide, sta male e fa stare male gli altri. Nega la libertà e la felicità. Il futuro. La vita non ha a che fare con tutto questo: lei si accende per tutti allo stesso modo, poi è la gente che decide come metterle fine, a volte. La propria e, si sa, capita, anche quella di altri».
Io smetto di guardarlo. Mi giro, ricerco le onde. Sono alte e potrebbero colpirci da un attimo all'altro, eppure non ho paura, forse perché nemmeno lui ne ha. È così fermo e sicuro di sé, come se avesse fatto questo tante altre tantissime volte. Al contrario, io non avrei mai pensato di poter fare un viaggio simile. Un altro sì, ma questo mai. Lui si ferma ancora e un onda ci sposta, come se fosse stato da programma, così Michele si affaccia e tende una mano. Un altro bambino, più grande. Ringrazia e scende nella botola. Aiuta altre due ragazze e un ragazzo, e poi un uomo, che sembra cercare qualcuno. Stava per ricadere in mare ma Michele lo ferma appena in tempo e io l'aiuto.
«Cosa cerca?», gli urlo.
Lui si gira verso di me con il viso rigato di lacrime e piegato verso il basso in cenno di dolore, talmente che mi sentii persa. «Non lo so, ma… ma, ma, ma era con me… era-», si blocca, continuando a balbettare e a mostrare il gesto dell'abbraccio, con disperazione, «Era… era qui, con me… Non lo so».
Michele gli apre la botola e lo intima a scendere, ma è troppo agitato, troppo disperato per accettare, così io lo convinco a chiuderla e a lasciarlo seduto accanto a me, in attesa che ritrovi ciò che ha perduto. O meglio, chi ha perduto. Lo abbraccio, mentre Michele riprende in mano i suoi remi e un'onda ci solleva. Il cielo inizia a tuonare e lo guardo, insieme all'uomo al mio fianco. Così gli sorrido, ma lui non ricambia: la sua concentrazione è alle onde, al mare. «Forse chi cerca si trova già qui con noi, di sotto», gli faccio notare. Lui mi ascolta con difficoltà e solo scuote la testa. «Non lo sa, se non prova a guardare. Poi può tornare qui a sedersi, se vuole». Mi scuote ancora la testa e serro le labbra.
«Non è qui», mi risponde dopo attimi di ritardo, «Non è qui. I-Io lo sentirei, se fosse qui». Lo stringo nelle spalle e guardo Michele, che ricambia come al solito.
Recuperiamo un altro gruppo di persone molto numeroso, erano tutti vicini, e scendono tutti nella botola. Ci muoviamo e ne recuperiamo altri, tanti bambini e bambine. Mi sale l'ansia e mi reggo i capelli, perché non ne posso più. Sono troppi, sono sempre di più, sono tutti persi, andati, vittime di altri. Io lo so perché erano in mare. Prima, intendo. Lo so, lo so. So cosa li ha spinti a imbarcarsi e a richiare la loro vita. Ha ragione Michele e solo ora capisco appieno le sue parole. L'incertezza della morte è meglio della certezza della morte. Non potevano restare dov'erano. La gente ha svuotato le loro terre, ha dato armi in mano ad altri che hanno iniziato a distruggere tutto, e infine ha rifiutato loro, che erano rimasti senza futuro né una casa. L'imbarco era la loro ultima scelta. Recuperiamo un'altra ragazza e l'aiuto a scendere nella botola. L'uomo al mio fianco ancora non si rassegna e andiamo avanti, con un altro consulto alla bussola.

Mi guardo attorno in quel nero buio della disperazione. Anche se sto aiutando Michele e tirare fuori dall'acqua una donna, io ho iniziato a distrarmi. Comincio a dubitare della mia scelta di volerlo aiutare. Forse ho sbagliato a volermi unire a lui, in fondo non ha di certo bisogno di me.
«L'hai fatto tante volte, eh?», gli chiedo. Lui questa volta non mi sorride e mi spiazza.
«Tante. Già. Sempre troppe», si ferma, per rimettere in acqua la sua mano.
Lo aiuto e poi guardo di nuovo l'orizzonte. C'è qualcosa in acqua, in lontananza, ma non sembra una persona: è inanimato, immobile, di legno. Ci avviciniamo e vedo che si tratta del pezzo di una vecchia imbarcazione. I ricordi riaffiorano come in un flashback, senza invito: il mare alto e gonfio mi pizzicava la pelle e istintivamente me la reggo. C'era un vento molto forte, molto più di quello che ora tenta di soffiarmi il viso. Mi porto di nuovo indietro i capelli, scoprendo che non ce n'era bisogno, perché erano esattamente dove li avevo sistemati l'ultima volta. Forse ho mal di testa, dopotutto sono così stanca. Mi distraggo e aiuto il giovane a recuperare qualcun altro, un'altra donna. Appena mi vede, lei piega le sue labbra viola e mi sorride, ma io non ci riesco: ha il pancione. Mi rifiuto di farla scendere da sola, così l'aiuto a calare nella botola, dietro di lei, lasciando Michele e quell'uomo da soli.
Come arriviamo, noto che la sala è diventata molto più grande dell'ultima volta, ma non ci do troppo peso, ho altro per la testa. Aiuto la donna a sedersi su un lettino e mi inginocchio davanti a lei, tastando il pancione freddo. Nessun movimento. Cosa mi aspettavo? Eppure lei mi sorride. Io la guardo e, in effetti, mi sembra di averla già vista.
«Lei mi conosce?», le chiedo e lei annuisce. Sarebbe la prima a ricordarsi qualcosa. Mi accarezza una guancia e il suo sguardo si contrae, iniziando a piangere con silenzio; senza smettere di guardarmi, e di sorridermi. «Non lo faccia». Mi esce di scatto, ma capisco che è la cosa più stupida che potessi dire. Mi giro e vedo solo tanto vuoto. I bambini alzano i giocattoli in alto ma nessuno di loro ride o emette un fiato. I ragazzi stanno in disparte a sguardo basso. Altri si guardano addosso per vedere cosa manca. I più disperati stanno da soli, sdraiati, a fissare il soffitto. Perché non dovrebbe piangere? Il bimbo che porta in grembo è morto. È morto proprio come lei. Proprio come tutti loro. La guardo ancora e sento il suo dolore. Lo sento perché è anche il mio.
La rivedo, era seduta sulla sua imbarcazione. Ci stava appena, la schiacciavano, non respirava. Erano troppi, lì sopra. L'avevo notata solo perché qualcuno si era spostato. Un secondo, forse meno, prima che la coprissero ancora. C'ero anch'io, quando la loro nave affondò.
Risalgo la botola, quando la donna pensò di sdraiarsi un po' sul lettino e vedo tanta altra gente scendere. Mi domando a che punto del viaggio siamo. Michele mi guarda subito, l'uomo invece neanche si gira. Mi risiedo accanto a lui dov'ero prima e attiro la sua attenzione. «Forse chi cerca non è qui, ha ragione. Forse è già sulla terraferma».
Lo sguardo dell'uomo si riempe di speranza e, improvvisamente, ride, annuendo. Si frega le mani sulla barba incolta e continua a ridere, dondolando sul posto. Io non riesco a trattenere un sorriso, guardandolo.
«Sì», mi risponde, «Ecco perché non lo sento. Lu-Lui è lì», seguo il suo dito pallido e vedo che indica la costa, «Lui è lì», ripete, toccandosi il petto. Fa di nuovo il gesto dell'abbraccio e ora lo ricordo, ricordo tutto.
«Alì», gli dico, «Alì era sulla mia nave. È sulla terraferma, adesso».
Lui annuisce e con gioia mi abbraccia. Michele ci guarda con la coda dell'occhio e fa salire a bordo altre due persone, aprendo la botola. Anche l'uomo così si alza e la raggiunge, guardandomi con fare commosso. «Alì era…».
«Suo figlio», rispondo.
«Mio figlio», ripete, abbracciandosi e sorridendo. Scende e io resto di nuovo sola con Michele.
«Ecco perché sei voluta venire ma non riesci a sopportare questo viaggio», mi dice il ragazzo. Io non rispondo.
Recuperiamo altre persone. Dieci, venti, trenta. Il viaggio della sperazna era diventato un viaggio della morte per tanti di loro, la maggior parte. Michele ed io li stiamo recuperando, ma i corpi restano. Diventano il cibo dei pesci. Il dolore e il ricordo di chi resta, di chi a cui importa. L'indifferenza degli altri, o le parole vuote, irrispettose, verso chi il cui unico sbaglio è cercare di vivere. Poi il viaggio finisce. Finalmente. Michele decide di ritornare al porto, dopo aver guardato la sua bussola con attenzione. Il ritorno sembra durare meno e ci avviciniamo in fretta, nonostante il vento e il mare contrario, e la lentezza del giovane a remare. La luna è ancora alta e tanto grande; rapisce il mio sguardo. Quando attracchiamo, Michele apre la botola e grida a tutti di uscire, così in fila indiana si fermano davanti alla piccola imbarcazione e mi sembrano ancora di più, tanto che non saprei contarli. Nessuno cerca di scappare, o di allontanarsi, nemmeno i bambini. Si guardano attorno con curiosità, ma sembrava sufficiente e a me struggeva il cuore.
Dopo aver aiutato tutti a uscire, anche Michele ed io lasciamo la barca e ci guardiamo per un attimo. Così lui si gira, attirando l'attenzione di tutti: «Un pullman arriverà a breve per portarvi al sicuro. Solo un attimo di pazienza». Nessuno sembrava pronto a fare scenate, eppure il ragazzo pareva essersi premunito di dirlo lo stesso: forse, nei suoi precedenti viaggi, altri avevano provato ad andarsene per conto proprio, penso. Controlla tutti con un veloce sguardo, forse per assicurarsi di non averne dimenticato, in seguito lo posa su di me, sorridendomi ancora. «Mi sei stata d'aiuto», mi dice, «Grazie. Mi piacerebbe che mi aiutassi ancora nel loro ultimo viaggio, andando con loro sull'autobus».
No. No. Non posso. Sono stata via anche tanto. Sono stata contenta di averlo aiutato, ma adesso era troppo. «No. Non è che non voglia aiutarti, o aiutare loro, ma devo tornare a casa. È veramente tanto tardi».
Lui prende respiro e annuisce dopo un attimo di indecisione. «Va bene», mi dice, proprio come quando mi rifiutati di rivelargli il mio nome.
Mi allontano ma continuo a girarmi verso di loro, vedendo che una ragazza si avvicina e comincia a parlare con le persone recuperate dal mare. Immagino sia qualcuna arrivata ad aiutarlo, o forse è l'autista dell'autobus. Ma in fondo non mi interessa. Il mio turno di lavoro è finito, devo tornare a casa. A casa. Mi ricordo dove abito? Mi fermo. Mi giro verso di loro e trovo Michele che mi guarda. L'ha capito. Forse l'ha sempre saputo, dal primo sguardo. Forse per questo non è mai entrato nella botola: non può. Ma non ci riesco e così riprendo a camminare, finché non sento delle voci conosciute e corro verso di loro. Entro in un vicolo buio e continuo a seguire quel basso chiacchiericcio, che mi porta a un altro vicolo e a una strada, un'altra ancora, fino a una porta aperta e luminosa. La seguo. Mi avvicino e mi fermo. Guardo oltre la finestra e decido di restare lì, a guardare all'interno.
«Non può stare qui», dice una voce maschile e alzo lo sguardo verso di essa. Lo riconosco subito, è il parroco, entrato in quel momento da una stanza. Tutti piangono, ma non lui. «Il suo posto è in obitorio. È notte, è una tragedia, lo capisco, ma non può stare su un divano. Non si risveglierà».
Io annuisco. Mi è sempre stato antipatico, ma ha ragione.
«Non ti risveglierai». La sua voce in verità non mi spaventa. Michele non è qui oggi solo per loro, ma anche per me. Si avvicina a me e guarda oltre la finestra la me stesa sul divano, inerme, ancora bagnata, vuota. «Ti ricordi cos'è successo?», mi chiede.
«Mi chiamo Valeria», sussurro, «Adesso posso risponderti». Guardo la me sul divano e mi porto indietro i capelli perché ne ha qualcuno sul viso e mi dà fastidio, anche se non si sono mossi, dall'ultima volta che ho provato a farlo.
Ero caduta in mare. Non ci avevano dato l'autorizzazione di partire, il mare era troppo mosso e il vento non accennava a calmarsi, ma quell'imbarcazione si stava avvicinando alle nostre coste e sarebbero morti tutti. Siamo partiti lo stesso. La bandiera alta con la croce rossa. Eravamo fieri di fare la cosa giusta e sono sicura di averla fatta davvero. Io non ero là fuori per recuperare persone prive di vita; ero là per dare loro una vera speranza su cui contare. Siamo arrivati vicini, loro imbarcavano acqua e molti sono saltati fra le onde per farsi aiutare, per nuotarci incontro. I miei amici ed io li abbiamo soccorsi immediatamente, li abbiamo fatti salire sulla nostra nave e abbiamo cercato di non perderli di vista, perché era molto buio e le onde del mare ci buttavano giù di continuo o ci pizzicavano la pelle con i loro schizzi. Con quel freddo, sembravano lame. Un mio amico vide un uomo con un bambino in braccio e cercò di aiutarlo; prese il piccolo e lo tirò dentro, così un altro lo sistemò sulla nave, mentre lui tentava di afferrare il padre. Lo prese, ma le loro mani erano bagnate e le onde continuavano a spostarli, non era facile. Io mi ero avvicinata al piccolo e mi tolsi il giubbotto di salvataggio, mettendolo addosso a lui. Non gli stava, ma potevo allacciarlo. «No, Vale», mi gridò un'amica, «Non toglierlo! Non toglierlo mai». La convinsi a lasciarlo al bambino perché sicuramente non sapeva nuotare e io sì; funzionò, anche se sapevamo entrambe che se fossi caduta in acqua, il saper nuotare non mi avrebbe aiutato. Mi girai di nuovo verso il mio amico ma non riusciva a recuperare il padre, che continuava a ripetere continuamente il nome del suo piccolo. Alì. Lo aveva stretto fra le braccia per tutto quel tempo, tenendolo lontano dall'acqua. Le mani scivolarono e l'uomo cadde indietro, addosso ad altri, che lo spinsero giù, pur di salvarsi. Il mio amico gridò, ma nessuno di loro era più riuscito a vederlo. Io mi girai da una parte all'altra della nave e presi il mio pacchetto di fazzoletti dalla tasca dei jeans, passandone a tutti per asciugarsi l'acqua dagli occhi. Erano fini e si rompevano facilmente, ma erano l'unica cosa che aiutava almeno un pochino. Fui felice che il mio naso non avesse smesso per tutto quel tempo di darmi prurito, o li avrei sicuramente lasciati a casa. Mi accostai di nuovo verso l'altra imbarcazione, aiutando chi era riuscito a salire, e mi fermai. Fu allora che vidi la donna incinta. Gridai al mio amico che stavo per saltare sulla loro nave ma non voleva e mi bloccò, così gridai ad altri da quella parte di farla avvicinare. Dopo tanto parlare senza trovare ascolto, un uomo mi aiutò, reggendola. La donna si teneva la pancia. Il suo sguardo incrociò il mio e vidi la sua paura. Tesi la mano per prenderla e altri mi aiutarono, ma dall'altra parte la foga di salvarsi era tanta e la donna restò indietro, così mi sporsi. Mi sporsi troppo. Dovevo prenderla, dovevo salvare lei e suo figlio, dovevo farcela. Scivolai e caddi in acqua. Freddo. Non un freddo normale, ma insopportabile, gelido. Ebbi subito paura. Li sentii gridare il mio nome perché tornai a galla di colpo, tentavo di riprendere fiato, ma l'acqua mi buttava e spingeva a fondo. Non ce la facevo. Era forte. La corrente continuava a farmi sbattere. Vidi la mano di alcuni miei amici e cercai di prenderne almeno una. Sono sicura che uno di loro tentò di buttarsi in acqua, perché lo sentii, ma non lo vidi. Forse era distante. Forse ero io quella distante. Ricordo solo di aver visto altri cadere a fondo con me. No, forse era solo una sensazione. Sapevo di non essere sola, ma era tutto troppo nero per vederli. Tentai di farmi forza, finché non sbattei la testa contro qualcosa e poi tutto si fece ancora più nero, e il silenzio mi involse.
«Non sapevo di essere morta. Ricordo di aver nuotato e di essere salita in superficie. Qualcosa mi attraeva e così ho provato a seguirla».
«Il tuo corpo», mi dice Michele, senza guardarmi, «Hai una connessione con esso se sei morta da poco», mi spiega e io annisco. Ha senso.
«Adesso capisco cosa hanno recuperato dall'acqua», rispondo. «Io sono risalita da sola sulla nave e mi sono seduta, non ci ho badato. Ho seguito il mio corpo fino allo sbarco. Sono rimasta a pensare, non capivo perché non riuscivo a ricordare, non sapevo chi ero».
«Tipico di chi è morto in circostanze terribili», aggiunge ancora e io lo guardo. «Quando mi hai visto, sei accorsa per aiutarmi: ecco chi eri», sorride, «Non riuscivi a sopportare quel viaggio perché io recupero i morti, tu volevi salvare i vivi».
«Se non fossi venuta io da te, dopo il tuo viaggio, mi saresti venuto a cercare?», gli chiedo, con curiosità.
Michele mi fa vedere la sua bussola e noto l'ago puntato su di me. Così sorrido. «Direi di sì».
Entrambi ci giriamo di nuovo a guardare il mio corpo steso su quel divano, fra la gente che piange e si dispera. Li riconosco tutti, ma non riesco a pensare di salutarli un'ultima volta. Non mi vedrebbero e mi spezzerebbe il cuore. Michele mi poggia una mano sulla spalla come se avesse intuito i miei pensieri. Lo apprezzo.
«Ma tu chi sei?». Non posso fare a meno di porgli quella domanda e lui mi prende fra le braccia, così iniziamo a camminare.
«Alcuni mi chiamano La Morte. Altri addirittura L'Angelo della Morte, ma ho ben poco di angelico. E se te lo stai chiedendo, sono vivo. Ho solo un lavoro ingrato».
Ritorniamo al porto e il pullman è fermo, è lunghissimo, e sta caricando tutti. Quello sarebbe stato anche il mio ultimo viaggio. Ho paura. Michele mi guida fino a esso, mano nella mano. Quando ci fermiamo, lo guardo un'ultima volta e così mi fissa anche lui, come sempre. «Non credo che il tuo lavoro sia poi così ingrato. Sorridi, credo che ti piaccia aiutarli-», mi fermo, per correggermi, «aiutarci. Entrambi facciamo del nostro meglio. Nel mio caso, facevo».
Mi sorride un'ultima volta e così mi lascia andare. Con malinconia, prendo la mano della donna incinta e salgo sull'autous, guardando il porto e l'orizzonte per l'ultima volta. Ho paura, ma lei si guarda il pancione e sorridiamo, insieme.















Magari non rende “giustizia” alla causa. Magari non è “all'altezza” e magari non è accurata, o troppo realistica, o non tocca i punti giusti, o… non lo so, aggiungete voi. Ma è il mio sfogo. Dopo i pianti per le foto della gente morta in mare, dei bambini arrivati sulla spiaggia, dopo due notti che sognavo qualcosa che me lo ricordava, dopo aver letto e sentito ancora discorsi razzisti, ecco il mio sfogo.
Grazie per aver letto fin qui! A presto.



   
 
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