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Autore: Ainille    06/09/2015    0 recensioni
"Non sopporto perdere, ma è molto meglio che non giocare mai."
Questa frase ormai sembra diventata il motto di Jewel Hintan, per uno strano scherzo del destino. Jewel ha 15 anni e abita nello Stato di Tuen, dove ogni ragazzo o ragazza a quest'età deve affrontare un'Accademia. Quest'Accademia in realtà non è altro che un labirinto di porte, in cui la protagonista deve compiere delle scelte di vitale importanza. Jewel troverà il coraggio che non ha mai creduto di possedere, e combatterà contro avversità, contro paure o ...contro se stessa.
Dei semplici ragazzi si trovano ad essere dei guerrieri.
Ad essere gli artefici del proprio destino, e non solo pedine di un gioco già organizzato.
Genere: Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il cielo è incredibilmente sgombro, ma una brezza gelida – tipico di Febbraio – s’infiltra nel mio piumone e un brivido mi percorre. Gonfio le guance piene d’aria e mi siedo poco distante dalla cascata; la cascata si trova a circa dieci minuti a piedi da casa mia ed è un luogo incredibilmente meraviglioso. Molte volte vengo qui da sola, come oggi, per riflettere un po’o semplicemente osservare la bellezza che mi circonda con fare maestoso. Vengo qui da quando avevo pressappoco tre anni, quando la mia famiglia mi ci portava, e queste cascate mi avevano talmente colpita che le avevo soprannominate “Le cascate Meraviglia”. Ma oggi è tutto diverso, perché probabilmente sarà l’ultima volta che io verrò qui. Vivo nello Stato di Tuen, immensamente magnifico, ma intensamente crudele. Ce l’hanno con i quindicenni, a quanto pare, perché ogni persona a quindici anni deve affrontare un’Accademia. A quanto pare( da ciò che ho scoperto tramite le ricerche che, solitamente, faccio di nascosto) si affrontano cose terribili, ed esseri altamente imprevedibili. E la cosa che più mi terrorizza, è che pochi sono usciti vivi da lì. I miei genitori a quindici anni ci sono stati, ovviamente, ma è proibito parlarne. In quel momento un rumore mi fa sobbalzare, e il pensiero che sia un potenziale Serial Killer trova posto nella mia mente; sospiro di sollievo quando constato che è solamente un corvo.
-Ciao, Jewel, come butta? – dice una voce maschile leggermente stridula. Mi volto e noto Robin – altezza media, magro, capelli ricciuti e rosso scuro, occhiali, carnagione chiara, lentiggini, occhi neri e vivaci -  che mi porge il pugno, così da simulare il suo “tipico saluto” che l’ha reso popolare a scuola. Già, la scuola, mi mancherà andarci.
-Quel saluto non è granché, Robin – dico alzando gli occhi al cielo, ma porgendogli comunque il pugno.
-Ma se è fighissimo! Allora, novità sull’Accademia? Hai fatto altre ricerche? – mi chiede.
Io e Robin Yagon ci conosciamo da una vita, essendo vicini di casa e compagni di classe. Lo conosco perfettamente, e credo che lui abbia compreso almeno un quarto del mio carattere, anche se non è molto pratico con l’osservazione. E’terribilmente paranoico, ed è da circa ottobre che mi sta tempestando di domande sull’Accademia.
-Niente di nuovo – concludo, abbozzando un sorriso. In realtà l’unica cosa nuova che ho scoperto è “non molti escono vivi da lì” e non mi sembra la frase esatta da dire per confortare una persona paranoica che suppone che quest’Accademia non sia poi così male, rispetto alla nostra scuola. Anche se deduco dica ciò solamente per alleggerire la tensione. Robin ha paura, è evidente, ma io...non lo so. Non sono mai stata troppo coraggiosa, ma le avventure hanno sempre avuto un forte impatto su di me.
-Ehm...ora dovremmo tornare a casa, Robin – dico interrompendo le sue chiacchiere. – Oggi è il giorno dell’Accademia, 2 Febbraio, e dobbiamo arrivare in tempo alle 12:30. Non vorrei arrivare in ritardo, sai cosa succede a quelli che ... –.
Non termino la frase, perché Robin abbassa la testa e annuisce, sembrando quasi sul punto di piangere. Ci incamminiamo verso casa in silenzio, ogni tanto mormorando qualche frase di circostanza sull’ambiente che ci circonda, ma non parlando mai di cosa ci aspetterà nel luogo misterioso. Oggi, 2 Febbraio, è il giorno in cui io farò il mio ingresso in un’Accademia dove la vita di tutti noi è un gioco e saremo trattati come burattini comandati da burattinai. E’terribile da pensare, ma è la verità.
-Allora, ci vediamo – dico a Robin quando arriviamo davanti alla mia casa in stile vittoriano, e non so perché ma suona tanto come un “addio” e non come un “ci vediamo dopo”. Lui annuisce e mi fa un cenno di saluto con la testa, quindi apro la porta. La mia famiglia è radunata nell’ampio salotto sui toni del bordeaux: vedo mamma e papà seduti sul sofà e mio fratello, Matt, che sta in silenzio. Mi sembra quasi che siano stati tutti immobilizzati: Matt ha otto anni ed è il bambino più chiassoso che io abbia mai conosciuto, ma adesso sta in silenzio a giocare con i soldatini e borbottando ogni tanto un “Super Matt vi ha presi!”. Gli scompiglio i capelli castani e mi siedo accanto a lui: Matt resta immobile e quasi piange, non mi insulta neppure come fa di solito e non mi ha chiamata “strega” nonostante siano passati un paio di minuti. E’un record, eppure vorrei che tornasse tutto alla normalità e che scomparisse questa palpabile tensione.
-Che sta succedendo? – domando ai miei, anche se lo so benissimo: sono tutti in ansia per il mio ingresso all’Accademia. Anche se non dicono nulla, so che i miei genitori staranno pensando roba del tipo “Tu, che hai mille fobie, dovresti uscire via da lì?”.
-Ce la farò, garantisco – dico io. Il silenzio mi permette quasi di sentire il lieve poggiarsi delle foglie sull’asfalto. Dopo qualche minuto che mi sembra a dir poco interminabile, mio padre alza le spalle e borbotta un “Andiamo, allora, non vorrai arrivare tardi”. Indosso la sciarpa blu, e mi avvio verso l’Accademia insieme alla mia famiglia. In realtà, non so neppure dove si trova, ma papà guarda avanti a sé e sembra piuttosto deciso. Dopo venti minuti di camminata a piedi sotto il gelo, giungiamo dinanzi ad un largo piazzale asfaltato completamente vuoto, sgombro di edifici o di macchine.
-E’ qui – dice mia madre in un tono solenne che suona quasi ridicolo, se non fosse per il fatto che sono paralizzata dal terrore e non ho alcuna voglia di ridere. Immagino i miei genitori, Lydia Finch e Mark Hintan a quindici anni che affrontano esseri orripilanti e si costringono a non aver paura.
-Non vedo niente – sussurro. Mamma mi spinge da parte e mi sussurra: - Devi vedere quest’edificio, devi sforzarti di vederlo. Succedono cose ...terribili, a chi non riesce ad entrare. Sforzati, per favore.
Improvvisamente un edificio imponente si staglia al centro della piazza, e cerco di memorizzarne i particolari: ci sono nove finestre completamente spalancate( tutte possiedono una zanzariera), anche la porta alta e in legno è totalmente aperta. Mi volto a guardare la mia famiglia, forse per l’ultima volta, e mormoro un “ciao”. Sento il mio cuore infrangersi in mille pezzi quando mi accorgo che il mio fratellino è scoppiato in lacrime. Una volta entrata nell’Accademia, la porta si chiude alle mie spalle facendomi sobbalzare. Il corridoio è in penombra, e a lato ci sono delle porte; sopra ad ogni porta c’è un numero, da 1 a 6. Devo scegliere una di quelle porte, è chiaro. Non voglio prendere decisioni avventate, quindi mi siedo sul pavimento ghiacciato incrociando le gambe, e provo a scacciare la paura tentando di riflettere con calma. Molto probabilmente, i numeri sulle porte sono in base alle difficoltà delle avversità, quindi la prima stanza dovrebbe essere la meno pericolosa. Mi rialzo e apro la porta su cui campeggia l’enorme “1”. Quando entro, c’è totalmente buio nella stanza. Comincio a strillare cercando di non piangere e uscire, ma la porta ora è completamente chiusa. Provo a prenderla a pugni, con scarsi risultati. Allora decido di rannicchiarmi a terra, chiedendomi per quanto tempo dovrò restare qui al buio, che è una tra le mie mille fobie. Sento la porta scricchiolare, e deduco che c’è ancora un po’di speranza per me. Mi volto e vedo una signora sui trent’anni, con una corporatura atletica, i capelli biondi tagliati corti e un ampio sorriso.
-Ciao – mi dice, accendendo la luce. La stanza finalmente s’illumina e comprendo che sono finita in una specie di palestra.
-Chi sei? – chiedo. Opto per il restare sul diffidente, dal momento che chiunque o qualunque cosa potrebbe essere un mostro o un avversario, qui. Poi mi rendo conto di non essere armata, ma la signora non mi sembra abbia un’aria pericolosa.
-Sono Lexie, la tua istruttrice. Benvenuta a Newville, che per un inspiegabile motivo tutti chiamano “Accademia”. Ti spiegherò in breve cos’è la Stanza 1, ma poi dovrò andarmene e dovresti aspettare che arrivi il tuo avversario o la tua avversaria. Questa stanza è come una palestra, direi. E’la sala dei combattimenti, la meno pericolosa. Imparerai semplicemente a difenderti, ad essere pronta per le altre stanze. Ora vado, ho altre faccende da sbrigare. Buona permanenza, Jewel Hintan – spiega. Ci sono ancora mille domande che vorrei porre, dalle più frivole alle fondamentali, ma lei ha l’aria di chi va molto di fretta. Tuttavia, c’è una domanda troppo importante che non posso non farle.
-E’già entrato Robin Yagon? – chiedo.
-Nessun Robin Yagon, ma sono le 12.28 e il tempo scade alle 12.30, dovrebbe sbrigarsi un po’ – sorride.
Non ricambio il sorriso. Robin ha solamente due minuti per entrare, ma devo essere fiduciosa, perché lui può farcela. Ripenso a qualche minuto fa, quando mamma mi disse che dovevo costringermi a pensare a questo luogo e mi domandavo perché mai avrei dovuto voler entrare in un posto del genere. Forse il mio avversario non è riuscito ad entrare, perché sono passati almeno cinque minuti e io sono ancora immersa nel totale silenzio della palestra. In un carrellino ci sono un paio d’armi, magari dovrei provarle; devo essere messa proprio male se il mio unico divertimento in questo momento è maneggiare armi. Mi affaccio alla finestra e vedo il solito piazzale, ma la mia famiglia se n’è già andata. Magari se l’Accademia è così terribile, potrei fuggire dalla finestra che non è poi così alta. Mentre sono assorta nei miei pensieri, sento di nuovo lo scricchiolio della porta arrugginita.
-Sei tu, Robin? – sussurro. La porta si apre subito dopo, e vedo un ragazzo che purtroppo non è Robin Yagon. E’alto almeno venticinque centimetri in più di me, ha una corporatura atletica, carnagione abbronzata, occhi azzurri leggermente stretti, capelli biondi tagliati corti. Indossa una canotta nera e dei pantaloncini rossi con le scarpe da ginnastica dello stesso colore. Sembra fatto su misura per questa stanza, e mi sento piuttosto a disagio con la mia corporatura magra e la mia statura che non supera l’1,60. Il ragazzo ad occhio e croce ha qualche anno più di me: è vero che tutti noi arriviamo qui a quindici anni, ma dobbiamo percorrere tutte e sei le stanze, e – sempre secondo le mie ricerche – qualcuno resta qui per qualche anno. In ogni caso, di solito si trascorre circa un mese in ogni stanza.
-Bella stanza, eh? – commento. Sono sempre stata socievole, ma forse adesso il mio tentativo di fare conversazione non è poi così adeguato. Il ragazzo sorride in modo spavaldo, senza aggiungere nulla.
-Sono Dave Crendan – dice poi.
-Io Jewel Hintan - rispondo, guardandomi intorno. L’unica cosa positiva di questa stanza è la finestra, e la palestra spaziosa.
-Allora, quanti anni hai? – chiedo, sentendomi piuttosto ridicola per le domande che gli sto ponendo.
-Quindici. Sono per sbaglio finito in una sala intervista, o cosa? Io proporrei di iniziare il duello – sussurra, facendo roteare in mano la spada afferrata dal carrellino. A prima impressione, direi che è molto abile nei combattimenti e nel maneggiare le armi, ma ho abbastanza intelligenza per capire che, se nel caso combattessi contro di lui, finirei al tappeto nel giro di qualche secondo.
-Senti, Dave, adesso proviamo ad esercitarsi prima di ...giungere al duello, okay? – gli chiedo. Lui alza le spalle e annuisce. Mi avvicino al carrello delle armi afferrandone un paio: una spada e un arco. Con la spada il mio tentativo va subito a rotoli, perché vengo disarmata da Dave immediatamente. Borbotto alzando gli occhi al cielo e afferro l’arco. Ho sempre adorato quest’arma, ma i miei non mi hanno mai permesso di usarla, nonostante mio padre se la cavasse con questo sport. Inutile dire che la mia coordinazione è pari a quella di un elefante con il tutù, e la mia mira anche peggio, per cui quando cercai di centrare il bersaglio( c’era un tirassegno nella palestra), per poco non colpii un ciuffo dei capelli di Dave( che fece in tempo ad abbassarsi, sghignazzando). Restano solo due armi da provare: l’ascia, e il coltello da lancio. Anche con l’ascia fallisco miseramente, quindi afferro il coltello. Mi avvicino al bersaglio e lancio il coltello con forza, quando lo vedo centrare esattamente il punto. Dave stava applaudendo le mani lentamente, in modo sarcastico.
-Solo i coltelli da lancio? Sai usare solo questo, davvero? – dice. Mi volto a guardarlo lanciandogli una delle mie migliori occhiatacce. Devo dimostrare che sono sicura di me più di quanto io non lo sia, altrimenti sarò vista da tutti come una preda. Ecco come funziona il meccanismo di Newville.
-E tu che sai fare? – gli chiedo a braccia conserte, inarcando un sopracciglio. Lui sospira e in una manciata di secondi, mi da una dimostrazione che sa maneggiare qualsiasi arma, compresi i coltelli da lancio. Comincio a detestare il suo modo di fare tanto presuntuoso quanto sarcastico.
-Sei preoccupata di finire al tappeto? – chiede.
Riprendo il coltello da lancio caduto a terra, e – voltata all’indietro – lo tiro riuscendo comunque a centrare il bersaglio.
-Attento, la prossima volta il mio bersaglio potresti essere tu – sussurro, sorridendo in modo sarcastico. Non è ciò che penso davvero, è soltanto un altro dei miei stratagemmi per mostrarmi sicura e degna di un’Accademia del genere. Non posso permettermi che gli altri mi vedano come l’anello debole della catena, perché oltre ad uscire da qui, ho un altro scopo: scoprire se Robin è arrivato in tempo, e nel caso così non fosse, aiutarlo a fuggire dalle “peggiori punizioni” di cui mia madre mi ha parlato.
-Calmati, Uragano – ride Dave, voltandosi verso di me. Uragano. Non so perché, ma non mi spiace come soprannome. Del resto, sono abituata a nomi del tipo “Jew, Diamonds” o altre stupidaggini del genere”.
-Perderai – mi dice poi. – Sei troppo debole, e sai usare solo un’arma.
-Non sopporto perdere, ma è molto meglio che non giocare mai – gli rispondo.





ANGOLAUTRICE.

Ciao! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, ammetto che l'ho riscritto quattro volte, pubblicato una volta e poi cancellato. Finalmente, dopo qualche mese, sono soddisfatta di questo capitolo. Adesso sto scrivendo il secondo, e vi ringrazio se siete arrivati a leggere fin qui. Mi piacerebbe conoscere il vostro parere, quindi se volete lasciate una recensione, mi farebbe molto piacere. Ringrazio, quindi, chi leggerà questa storia.
Ne approffito per ringraziare anche coloro che hanno recensito la mia fanfiction "Eyes of a child", siete stati veramente gentilissimi.
A presto,
Angy.



 

   
 
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