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Autore: Bill Kaulitz    07/09/2015    1 recensioni
«Allora Bill, di cosa volevi parlarmi?»
«Beh ecco…» si mise seduto in maniera composta sul divano cercando di farsi spazio fra Tom e Pumba che, come di consueto, era sempre accanto a loro. «…hai mai pensato che siamo un po’ pochini in casa?»
Tom non ci pensò nemmeno un secondo. La sua risposta fu direttamente ‘No, perché?’ (QUESTO E' IL SECONDO SPIN-OFF DE 'TI RICORDI DI ME?' LA STORIA E' ABBASTANZA COLLEGATA SIA ALLA FF CHE AL PRIMO SPIN-OFF)
Genere: Commedia, Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, Crack Pairing | Personaggi: Altri, Bill Kaulitz, Georg Listing, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest
- Questa storia fa parte della serie 'Ti ricordi di me?'
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(SpinOff #2) ADOPTION

Ormai erano quasi otto anni che i gemelli avevano lascialo la Germania per trasferirsi definitivamente a Los Angeles. La loro vita era decisamente migliorata dal natale di due anni addietro. Tom era cambiato in meglio e, per giunta, aveva trovato un impiego migliore come segretario presso l’ufficio di un avvocato; quanto a Bill, era stato assunto full time presso la sartoria in cui lavorava. La signora Dolores, il suo capo, gli aveva dato il compito di dedicarsi esclusivamente agli abiti da sposa e lui non poteva che esserne felice. Cucire abiti da sposa lo rendeva davvero euforico; anche perché lo faceva sognare. Se fosse restato Valerie, forse, avrebbe potuto realizzare quel sogno di indossare l’abito bianco, ma anche indossare un completo elegante, non sarebbe stato male. Chissà…magari un giorno l’avrebbe fatto.

 

«Amore, sono a casa!» disse Tom, aprendo la porta. Un’accoglienza immediata la ebbe dal suo bulldog, Pumba. Il cane gli si gettò letteralmente addosso leccandolo in ogni punto possibile e immaginabile. «Smettila Pumba. Che schifo.» Tom allontanò il cane con una leggera spinta, ma questo tornò alla carica puntando direttamente alla faccia. Si arrese e, sconfitto, si accasciò sul pavimento lasciando che Pumba gli leccasse completamente tutto il viso.

«Ehi Tom scusami, non ti ho sentito…» Bill giunse nell’ingresso. Aveva un grembiule a quadri verde e bianco e i guanti da forno, il viso leggermente sporco di farina e i capelli arruffati. «Perché sei disteso per terra? Pumba, vieni qui!» gli bastò un leggero gesto sulla sua coscia per attirare l’attenzione del cane dimodoché Tom potesse di nuovo respirare.

«Il tuo cane mi ha assalito, mettendomi al tappeto.» affermò Tom mentre cercava di rimettersi in ordine. «Sento odore di focaccia…» continuò, alzandosi successivamente in piedi e sistemandosi.

Bill sorrise e batté le mani contento.

«Sto facendo le pizze. Proprio oggi ho visto su internet la ricetta ed ho voluto provare.» si tolse il grembiule e corse verso il fratello baciandolo forte sulla bocca. Tom ricambiò sia l’abbraccio che il bacio.

«Poco fa mi ha leccato Pumba sulla faccia, caro il mio fratellino…»

«Non mi interessa. Oggi sono proprio felice.» Gli toccò la punta del naso con la propria, strofinandolo leggermente.

«Ogni volta che mi prepari la cena e sei di buon umore, c’è sempre sotto qualcosa.» rifletté poi Tom guardandolo negli occhi. Bill dal canto suo, fece finta di nulla e tornò a baciarlo.

«Dico sul serio, Bill. Dimmi, cosa hai fatto questa volta? L’ultima volta che hai preparato qualcosa di buono, ti avevano rigato la macchina.»

«Mamma mia Tom, quanto sei permaloso. Non è successo nulla di tutto questo. Voglio solo chiederti una cosa.»

Giocò con i bottoni della sua polo e lo guardò con occhi da cerbiatto. Sì, Bill aveva sicuramente qualcosa da dirgli. Tom conosceva quello sguardo.

*

Stavano mangiando l’ultimo trancio di pizza. Bill aveva superato se stesso questa volta. Da quando si erano trasferiti lì, si era sempre dedicato alla cucina. Era una sua passione sin da piccolo. Tom aveva dei vaghi ricordi. Uno di questi era…

Agosto 1998

Erano soli in casa come quasi ogni pomeriggio quando lavoravano i genitori e sia lui che Bill avevano appena finito di fare il bagno in piscina. Bill era uscito dall’acqua, prese un’asciugamani e si avvolse come uno strudel, sedendosi sulla sdraio a bordo piscina. Tom restò ancora un po’ a nuotare.

«Tom, cosa facciamo adesso? Mi annoio.»

«Ma se abbiamo appena finito di giocare a spruzzarci.»

Bill mise il broncio ed incrociò le braccia al petto.

«Diciamo che hai giocato a spruzzare me. Che è diverso.» Tom scoppiò a ridere e lo schizzò ancora.

«Ma è così divertente spruzzarti, Bill. Insomma, sei un bersaglio perfetto per i gavettoni d’acqua.»

Il fratello gli fece una smorfia e gli calciò dell’acqua con un piede.

«Per me non è stato affatto divertente. Hai riso solo tu.» mise di nuovo il broncio e si sedette sulle ginocchia. «Mi è venuta un’ideona geniale.» si tolse l’asciugamani di dosso e attese che il fratello prestasse attenzione.

«Che idea?»

Bill sorrise in maniera beffarda e complice. «Prepariamo il cheesecake alla marmellata.»

*

«Allora Tom, passami la panna, lo yogurt e lo zucchero. Forza.» ordinò il moro indaffarato ad afferrare lo sbattitore elettrico per montare la panna. Tom corrugò la fronte e mise il broncio.

«Non sono venuto qui a fare il tuo servetto. Voglio fare anche io qualcosa.»

«La stai facendo, mi stai aiutando a prendere gli ingredienti.»

Bill salì sullo scaffale del mobile della cucina e, sollevandosi in piedi, aprì l’anta dove la loro madre teneva tutti gli utensili per la cucina.

«Sì ma non è divertente questa cosa.»

Continuò poi Tom dirigendosi goffamente al frigo per prendere lo yogurt e la panna da montare. Bill aiutandosi con entrambe le mani, rimise i piedi sul pavimento e con uno sguardo di vendetta disse:

«Non ho mai detto che sarebbe stato divertente per te.»

Aveva avuto la sua rivincita.

*

Erano sul divano accucciati a vedere una commedia romantica – fu un’idea di Bill, ovviamente – e a Tom questa cosa non sarebbe mai e poi mai andata giù. La sua collezione di blueray comprendeva prevalentemente commedie tipo: The Wedding Planner, The Devil Wears Prada, Made in Manhattan, tutti film che piacevano solo ed esclusivamente a Bill. Tom non si sarebbe mai abituato.

«Allora Bill, di cosa volevi parlarmi?» non appena finì, Tom proferì parola. Sapeva benissimo che se avesse parlato durante il film, Bill lo avrebbe ammazzato. Per lui era un rituale sacro guardare un film sul divano assieme a Tom.

«Beh ecco…» si mise seduto in maniera composta sul divano cercando di farsi spazio fra Tom e Pumba che, come di consueto, era sempre accanto a loro. «…hai mai pensato che siamo un po’ pochini in casa?»

Tom non ci pensò nemmeno un secondo. La sua risposta fu direttamente ‘No, perché?’

«Insomma…siamo io e te…»

«Abbiamo Pumba!»

«…si, okay, abbiamo Pumba, ma non hai pensato di…»

«Di prendere un altro cane?»

«No, Tom…»

«E allora cosa?»

«Se mi lasci finire di parlare…»

«Ma se tu parli a spezzoni.»

«Sei tu che mi interrompi sempre, Tom. Mio dio, non si può proprio avere un discorso con te.» Offeso, gli diede le spalle ed incrociò le braccia. Tom sapeva che così facendo, voleva solo attirare l’attenzione del fratello.

Tom sorrise e cominciò a baciargli delicatamente il collo.

«Non fare l’offeso con me, amore. Scusami, non ti interromperò più.»

Ogni volta che Tom gli respirava sulla pelle, le dita dei piedi si arricciavano automaticamente e di conseguenza, andava fuori di testa. Si accoccolò ancora di più a lui e ne approfittò per spupazzarselo un po’.

Cominciò a baciargli sensualmente il collo, leccando delicatamente la giugulare. A Tom gli piaceva da impazzire. Gettò il collo all’indietro e socchiuse gli occhi, schiudendo leggermente le labbra per cacciare fuori gli ansimi. Il suo pomo d’Adamo era in bella mostra e Bill ne colse l’occasione di leccare anche quello.

«Mmh…sei sempre in grado di farmi uscire di testa, Bill.» lui non rispose e sorrise, continuando l’arte del ‘come far impazzire Tom Trümper in pochi secondi usando semplicemente la lingua’ e quest’arte, lo faceva divertire da matti.

«A sì? E chi è il migliore, dimmi…» lo stuzzicò lui, soffiandogli sull’orecchio e, al contempo, mordendoglielo. Tom non rispose. Sussultò e lo pregò di non fermarsi. Bill avrebbe voluto saltargli addosso e scoparselo a sangue lì, seduta stante, ma la sua intenzione era semplicemente quella di gettargli un po’ di fumo negli occhi.

«…ti ho detto di dirmi chi è il migliore, fratellino.» passò delicatamente l’indice sul rigonfiamento che, inevitabilmente, si era venuto a creare ed era logicamente piuttosto evidente e da sotto i jeans, spiccava. Aveva voglia di uscire e di combattere fino allo sfinimento, ma quella sera, sarebbe rimasto lì dov’era.

«Bill, ti prego, mi torturi in questa maniera…» supplicò poi lui, afferrandogli il polso e spingendo la mano del fratello direttamente sopra il cavallo dei propri jeans. Bill a quel punto cedette e scoppiò a ridere. Allontanò la mano e si alzò dal divano con non chalance, lasciando Tom ancora ansimante e stordito.

«Cosa? Perché ti sei fermato?» disse poi lui, sbarrando gli occhi come se avesse appena visto un fantasma – di nuovo –

«Non avrai mica intenzione di lasciarmi così?»

«E invece sì. Così impari la prossima volta ad interrompermi mentre cerco di dirti qualcosa di importante. Vado a dormire. Sono stanco.» gli fece la linguaccia e si diresse in camera da letto. Salì molto lentamente le scale, ancheggiando come una diva hollywoodiana. Voleva torturarlo ancora un altro po’. Tom si morse quasi in maniera violenta le labbra e gli vacillò in mente, l’idea di farsi una bella sega pensando al fratello che ancheggiava in quella maniera così fottutamente eccitante, ma proprio mentre stava per calarsi i pantaloni…

«E guai a te se ti fai una sega pensando a me, porco!»

La voce squillante di Bill distrusse quel magico momento, portando inevitabilmente il suo ‘amichetto’ ad abbassare la guardia.

«Cristo quanto lo odio certe volte.» si ricompose e decise di andare a letto anche lui.

*

Il mattino seguente, entrambi avevano il giorno libero e per questo ne approfittarono per restare un po’ di più a letto. Tom era ancora sotto le coperte, Bill invece era sempre più mattiniero di lui. Cercò di non svegliarlo facendo molta attenzione a scostare le coperte e ad uscire dal letto.

«Shhh!» avvicinò l’indice al labbro e fece segno a Pumba di far silenzio. «Non vorrai che papà si arrabbiasse ancora prima di aprire gli occhi.» lo strapazzò un pochino, dopodiché scese giù in cucina ed iniziò a preparare i pancakes. Quella mattina avrebbe dovuto trovare il coraggio di dirlo.

*

Aprì gli occhi e quando andò per allungare il braccio in cerca di Bill, notò la sua assenza e, per di più, la metà del suo letto era fredda, ciò significava che si era alzato presto. Si stiracchiò e mugugnò qualcosa prima di mettersi seduto sul letto. Aveva gli occhi ancora chiusi e le braccia pendevano sulle gambe provocandogli un inevitabile curvamento della schiena tanto da sembrare un gorilla. La bocca era impastata di sonno e l’unica cosa che avrebbe voluto fare in quel momento, era bere un tazzone di latte e caffè. Provò ad alzarsi e a cercare inutilmente le sue ciabatte.

«Puuuumbaaaa!» mugugnò non appena vide il suo bulldog divorarsi la pantofola comprata appena qualche giorno prima. «Smettila di masticare le mie ciabatte.» afferrò l’altra e si avvicinò con fare minaccioso verso il cane. L’alzò in alto, sopra la sua testa e proprio mentre stava per darla sul sedere del cane, la porta si aprì di scatto.

«Tom. Non fare del male a Pumba. Lascialo stare.» Tom guardò Bill con aria innocente, continuando a tenere in alto la ciabatta e giurò che, qualche attimo dopo, la sentì cadere sulla propria testa, rimanendo ancora qualche secondo con il braccio in alto.

«Ho già vissuto questo momento? O sbaglio?» disse poi, grattandosi la testa là dove era stata colpita. Guardò la pantofola in terra, guardò Bill, poi Pumba e di nuovo la pantofola.

«Non capisco di cosa tu stia parlando, Tom. Non ti ho mai lanciato una pantofola in testa. Adesso muovi il culo e scendi di sotto. È pronta la colazione.» gli dette le spalle e chiuse la porta dietro di sé. Tom guardò accigliato il cane che continuava a rosicchiare ardentemente la sua bella pantofola.

«Non finisce qui, cane. Oggi ti è andata bene. Tiè, ti regalo anche l’altra. Non so che farmene, ormai.»

*

Si sedette a tavola e, come di consueto, gli scappò un rutto poco silenzioso.

«Dio, Tom. Ma fai schifo. Metti la mano almeno. Sei proprio un animale.» gli dette un buffetto dietro al collo.

«Ma vuol dire che ho apprezzato la colazione del mio piccolo amore…» cacciò in fuori le labbra per dare un bacio a Bill, ma questi gli tirò uno schiaffo. «Auch! Ma sei scemo? Perché l’hai fatto?» si accarezzò delicatamente la nuca e si guadò le dita, come se da quello schiaffo potesse essere uscito del sangue.

«Perché sei un cretino, Tom. È da ieri che cerco di dirti una cosa importante.»

«E allora parla, Bill. Senza che mi prepari cene, colazioni abbondanti. Vuoi farmi ingrassare così tanto da potermi mangiare? Oppure mi vuoi dare in pasto al cane? Leggi troppi libri su Hannibal Lecter, a mio parere.»

Bill si spiaccicò una mano sul viso, scuotendo il capo.

«Allora Tom…possiamo parlare ora?» si massaggiò il setto nasale e le tempie, dopodiché guardò il fratello.

«Sono tutto orecchi, tesoro.»

«Okay, te lo dico senza troppi giri di parole? Oppure vuoi che ti ci porti piano piano?»

«O ma insomma, Bill. Che cazzo! Dillo e sputa il rospo.»

Tom andò per alzarsi, quando Bill lo anticipò. Sbatté i palmi sul tavolo e glielo urlò.

«Voglio adottare un bambino. Cristo santo!»

Silenzio assoluto.

In quel momento, Bill non sapeva nemmeno più se Tom stesse ancora respirando o avesse smesso di farlo per lasciarsi morire. Lo guardava impassibile, senza sbattere le ciglia e senza muovere un solo muscolo. La sua espressione era un mix di trauma, terrore puro, voglia di morire e…sì, forse ci poteva essere anche della disperazione.

«Allora? Non mi dici nulla?»

Tom continuava ad essere impassibile. Bill pensò seriamente che avesse avuto un mini infarto. Si avvicinò lentamente e provò a toccargli la spalla.

«Ehi? Ma sei ancora vivo?»

Non appena lo toccò, Tom sobbalzò, come se si fosse svegliato da un sogno.

«Eh? Cosa? Che c’è?»

«Come che c’è? Non hai risposto a quello che mi hai detto.»

Tom deglutì. Ogni volta che Bill gli diceva così, c’era sempre un trabocchetto. Le soluzioni erano tre: far finta di non aver capito, dirgli semplicemente di sì, fingersi morto. La terza opzione era la più plausibile, ma decise di non scegliere nessuna delle tre.

«Un bambino? Come vuoi adottare un bambino?» la voce tremava.

«Sì, Tom. Hai capito bene. Voglio un figlio. Voglio adottare un bambino. So già l’orfanotrofio dove andare a prenderlo. Ho anche parlato con la direttrice e ci aspetta stamattina alle undici e mezzo. Quindi…» guardò l’orologio della cucina. «Preparati in fretta. Dobbiamo essere lì alle undici.»

In quel momento Tom non stava davvero capendo nulla. Bill cominciò a discutere su delle pratiche da firmare, sul cognome che avrebbero dato al bambino, dove sarebbe andato a scuola; insomma, era come se Bill avesse già un figlio.

«Bill…vuoi fermati un secondo per favore? Non sto capendo nulla di quello che stai dicendo.» si alzò dalla sedia e cominciò a gironzolare per la cucina mordendosi le unghie.

«In che senso? Ti sto preparando a tutto ciò che affronteremo a partire da oggi pomeriggio.»

«Bill, ma perché non me ne hai parlato prima? Cioè, io non so come comportarmi. Non so cosa fare. Io non sono pronto per avere un figlio.» disse poi fermandosi, guardandolo con occhi quasi supplichevoli. Bill mise tutto il suo peso su di un piede e sporse l’anca destra un po’ più fuori, dimodoché potesse poggiarvi la mano.

«Io non ho detto che dovevi darmi una risposta, volevo solo metterti al corrente di quello che ho fatto. E poi se sono pronto io per avere un figlio, lo sei anche tu. Sei il mio gemello, e sei pronto a prescindere. Quindi adesso non fare lo stupido e vestiti. Forza.»

«Bill, ti ho detto che io non sono pronto per avere un figlio. Io non mi muovo di qui fin quando non chiedi anche il mio parere.»

Bill lo guardò accigliato. Ridusse gli occhi a due piccole fessure e strinse le labbra.

«Sai cosa ci faccio con il tuo parere, Tom?»

«No. E non lo voglio sapere. Io di qui non mi muovo.»

*

«Ma cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo?» disse tra sé e sé, mentre aspettava fuori al parco. Aveva le braccia incrociate e sedeva su una panchina. Guardava i bambini giocare con la palla e temeva che da un momento all’altra gli arrivasse in faccia. C’era di peggio però di una semplice pallonata, l’arrivo di Bill.

«Tom, la direttrice ci può ricevere, adesso. Il bambino è già nello studio con lei. Dobbiamo solo conoscerlo e firmare delle pratiche di adozione. E ti prego fratello mio, fa un cazzo di sorriso che non siamo mica ad un funerale.» lo afferrò dal polso e lo fece alzare strattonandolo un po’.

Tom imprecò contro Bill in maniera bassa e silenziosa.

«Guarda che ti ho sentito, imbecille. La prossima volta se vuoi imprecarmi contro, fallo col pensiero. Ma fallo in silenzio, posso leggerti nella mente.»

Ma perché tutte a me?

«Ti ho sentito anche questa volta.»

Okay. Forse era meglio starsi in silenzio e subire.

*

Le pareti della stanza erano di un rosa pesca molto confortevole. Era arredata con una scrivania ad angolo bianca con i cassetti dello stesso colore delle pareti, due poltrone in pelle nera e una parete attrezzata color mogano piena di libri. Vari quadri e oggettini erano appesi un po’ dappertutto ma in maniera piacevole e non caotica. L’odore di quella stanza era un misto fra lavanda e limone. Profumava di pulito e di fresco.

«Allora signori…Trümper o…Kaulitz?» chiese la direttrice un po’ imbarazzata. Nonostante la sua notevole esperienza, raramente si imbatteva in coppie gay non sposate che volevano adottare un bambino.

Bill rispose subito. ‘Kaulitz’ «Il bambino prenderà il mio cognome, signora Styles.» affermò Bill, tirando un calcio a Tom ancor prima che parlasse. Il fratello imprecò nella mente e temette che Bill potesse averlo sentito. Da quando successe quel fatto, ormai due anni fa, Bill aveva preso il sopravvento. Aveva cambiato completamente comportamento. Ora era lui lo stronzo, ma nonostante tutto, Tom lo amava più di prima.

«Perfetto. Dovrete firmare questi documenti. Io vado a chiamare il piccolo Alec.» la direttrice si alzò e chiuse la porta dietro di sé. A quel punto Tom poté parlare.

«Da quando hai deciso che il bambino prenderà il tuo cognome?»

«Da quando ho deciso di adottare un figlio, mio caro.» aggiunse Bill senza fare una piega, guardando i documenti e firmando ogni cosa. «Tieni amore, metti una firma qui, qui e qui. Vedi?» Tom borbottò.

«Non siamo sposati, Bill. Quindi il bambino potrebbe prendere il cognome di entrambi.»

«Tom, noi due ci sposeremo un giorno...sto solo aspettando che quella testa di broccolo del mio fratello/fidanzato si muova a chiedermelo. Quindi, visto che mi sta facendo aspettare così tanto, voglio che il bambino prenda il mio cognome. E poi suona meglio: Alec Kaulitz.»

Tom stava per ribattere nuovamente quando entrambi si voltarono verso la porta. La direttrice entrò per prima seguita da un piccolo nanetto che si nascondeva dietro di lei. Era leggermente timido e timoroso e si rosicchiava in maniera accanita il pollice della mano sinistra.

«Vieni tesoro, non essere timido. Ci sono delle persone che ti vogliono conoscere.» disse Margaery, ma il piccolo Alec restò dietro di lei nascondendosi dietro il vestito.

«Ciao, Alec. Io sono Bill e lui è Tom. Siamo i tuoi papà.» disse il biondo alzandosi dalla poltrona e dirigendosi verso la porta. Il piccolo era ancora un po’ scettico, ma quando Bill uscì dalla sua borsa un cioccolatino, Alec sporse leggermente la sua testolina per scorgere meglio il dolcetto che Bill gli porse e senza troppe cerimonie lo afferrò, scartandolo rapidamente e mangiandolo in un sol boccone.

«Come si dice, Alec?» aggiunse la signora Styles guardando il bambino con uno sguardo materno.

«Glassie»

«Prego, tesoro.»

Alec aveva gli occhi di un castano chiaro, sembravano dello stesso colore della nocciola. I capelli erano color miele, pettinati in maniera sbarazzina. Aveva un’espressione leggermente corrugata ma al contempo attenta. La bocca identificava un leggero broncio.

«Cosa c’è, tesoro? Non ti piace quell’uomo laggiù?» disse Bill indicando un punto alle sue spalle. Alec si mise la punta dell’indice in bocca e scosse il capo.

«No. Non piace a me. È butto

Bill scoppiò a ridere e lo fece anche Margaery.

«Hai ragione, piccolo. Tom è proprio brutto con quella barbona e quel codino, vero? Poi guardalo, ha sempre un’espressione cattiva.»

«Zì. Butto Tom. Butto

Bill rise ancora di più. «Amo già questo bambino. Coraggio Tom, vieni a salutare tuo figlio. Non fare l’antipatico. Già non gli piaci.»

Tom lo guardò accigliato. Si alzò dalla poltrona e si avvicinò al bambino. Si chinò sulle ginocchia e lo fissò dritto negli occhi.

«Ciao, Alec. Io sono l’altro tuo papà.» disse Tom, sorridendogli. C’era da dire che Alec era davvero un bellissimo bambino.

«La mamma non c’è?»

Entrambi i ragazzi persero un battito. Era praticamente inevitabile che un bambino di quell’età chiedesse dove fosse la madre. Non era molto comune nei bambini che una coppia di omosessuali li adottassero già abbastanza grandi. Alec aveva cinque anni.

«Emh…Io e Tom saremo i tuoi genitori. Faremo sia da mamma che da papà. Oppure preferisci che Tom faccia la mamma ed io il papà? O viceversa. Come vorrai tu, tesoro.» disse Bill in maniera paterna, gli diede un bacio sulla fronte.

«No. Mi piace due papà. Voio due papà. Altri bimbi non hanno due papà. Io zì.» batté le mani contento gettò le braccia attorno al collo di Bill che, automaticamente, lo accolse fra le sue.

«Ieni papà Tom. Abbacciamoci tutti inzieme. Ieni.» disse facendo segno con la manina. Tom sorrise ed abbraccio sia Bill che il bambino.

Margaery, davanti ad una scena così dolce, quasi si commosse. Era davvero contenta di aver dato in adozione il piccolo Alec ad una coppia che si amava così tanto. Era un quadro meraviglioso. Era sicura che sarebbero stati davvero molto felici.

«Alec, adesso devi andare a salutare i tuoi amichetti e preparare le tue cose. I tuoi papà ed io dobbiamo parlare, okay? Coraggio, vai.»

«Okay signora Ttails»

Il bambino corse fuori dallo studio e chiuse la porta dietro di sé.

«È davvero molto affettuoso come bambino. È bellissimo.» disse Bill alzandosi in piedi, anche Tom fece lo stesso.

«Sì, è davvero un bellissimo bambino e con un passato non molto felice. La madre era una tossico dipendete e il padre, invece, non abbiamo mai saputo chi fosse. L’abbiamo trovato davanti alle porte dell’orfanotrofio cinque anni fa. Era quasi sicuramente appena nato, perché era ancora sporco di sangue. Il suo compleanno quindi, abbiam dedotto fosse il 15 agosto 2011, ovvero il giorno in cui l’abbiamo trovato. La madre non è mai venuto a cercarlo. Lui è cresciuto qui.»

Bill quasi scoppiò in lacrime a sentire quella storia così orrenda. Come poteva una madre fare una cosa del genere al proprio figlio?

«È davvero una cosa orribile. Io non potrei mai fare una cosa del genere a mio figlio. Mai e poi mai.» si intromise Tom, cercando di mantenere un certo autocontrollo a differenza di suo fratello che si lasciava emotivamente coinvolgere un po’ troppo.

«Sì, molta gente non può nemmeno essere considerata umana, quando fa questi gesti così orribili. Comunque adesso non amareggiamoci. Alec ha trovato dei genitori meravigliosi e sono certa che gli darete tutto l’amore e l’affetto che dei genitori adottivi possano dare ad un figlio. Siete una coppia fantastica, signori.» Margaery si alzò dalla sua poltrona e i gemelli la seguirono a ruota.

«Adesso potete accomodarvi fuori, vado a vedere se Alec è pronto. È stato un vero piacere incontrarvi.» Margaery porse ad entrambi i ragazzi la mano e la strinse con sicurezza. Li accompagnò fuori dal proprio ufficio e si diresse verso i dormitori.

*

«Siamo diventati genitori…ancora non ci credo, lo sai Tom?» Bill era entusiasta e non smetteva di saltellare da un piede all’altro battendo le mani come un bambino. Tom, un po’ meno entusiasta del fratello, si accese una sigaretta ed ispirò forte il fumo.

«Tu dovrai darmi una mano, Bill. Non sono pronto ancora per fare il genitore perfetto. E se mi odiasse? Se non gli piacessi? Se facessi qualcosa che non potrebbe piacere a te o ad Alec?» diede un’altra boccata.

«Cominciamo partendo da questa…» senza preavviso, Bill tolse dalla bocca la sigaretta del fratello, la getto a terra e la spense con la punta delle scarpe.

«No cazzo, perché l’hai fatto?»

«Non voglio che nostro figlio prenda il vizio del fumo o tanto meno fosse a contatto con quella merda.»

Tom lo fulminò con gli occhi ed incrociò le braccia. Farfugliò qualcosa che nemmeno lui capì.

«Non c’era nessun bambino accanto a me. Potevo fumare almeno quella.»

«Fumerai quando nostro figlio non starà con noi. Fumerai solo quando andrai a lavoro. Fumerai solo quando te lo dirò io.»

Ma perché quel giorno mi sono ricordati di lui. Maledetto.

«E non pensare cose negative sul mio conto, piccolo disgraziato. Ricordati che siamo gemelli, prima di essere amanti. E io riesco a leggerti in quella testolina bacata.»

Tom andò per aprir bocca ma venne immediatamente interrotto dalla direttrice seguita dal piccolo Alec. Portava uno zainetto di Spiderman sulle spalle, un berretto dello stesso supereroe e un giacchettino di jeans leggermente grande. Margaery invece, portava la valigia.

«Eccoci qui!» disse allegramente la signora Styles e lasciò la mano al bambino.

Il bambino, prima di dirigersi verso i genitori, abbracciò forte Margaery e lei a sua volta. Fu un abbraccio lungo ed intenso. Bill giurò di aver visto una lacrima rigare le guance della direttrice ma le asciugò rapidamente prima che qualcuno potesse accorgersene.

«Su coraggio piccolo Alec, va dai tuoi papà.»

Il bambino sorrise alla signora Styles e con un ultimo abbraccio la ringraziò.

«Le vojo bene, signora Ttails» e dopo essersi staccato, corse in contro ai suoi papà. Bill si piegò sulle ginocchia e divaricò le braccia dimodoché il bambino potesse gettarcisi dentro.

«Ci conosciamo da nemmeno dieci minuti e già ti amo con tutto me stesso.» sussurrò Bill, baciando il capo del figlio.

«Coraggio figliolo, dammi la manina. Andiamo a casa.» disse Tom con un sorriso dolcissimo, tendendo la mano al piccolo Alec. Lui l’afferrò senza esitare. Si voltò un’altra volta verso l’orfanotrofio dov’era stato per cinque lunghi anni. Salutò sventolando la manina più in alto possibile.

«Taooo!!»

*

«Hai paura dei cani, Alec?» disse Bill, prima di aprire la porta di casa. Il bambino scosse rapidamente il capo ed aggiunse che ne andava matto.

«Bene, perché noi abbiamo un cagnolone fin troppo affettuoso. Potrebbe saltarti addosso e leccarti tutto.»

Alec spalancò la bocca e si spalmò entrambe le mani sulle guancette.

«Si chiama Pumba. Hai mai visto il cartone animato della Disney ‘Il Re Leone’?»

«Zi! Mi piace tanto que cattone.»

«Allora ti innamorerai anche di Pumba.»

Tom prese in braccio il bambino e Bill aprì la porta. Pumba era sul divano e, con non poca goffaggine, saltò giù e si mise a correre in contro ai propri padroni. Cominciò a leccare qualsiasi cosa capitasse sotto la sua lingua.

«Pumba, lui è Alec. Alec, lui è Pumba. Saluta Pumba, coraggio.»

Tom mise il bambino giù e Pumba prese ad annusarlo. Alec cominciò a strepitare dalla gioia e ad emettere dei gridolini di felicità.

«È mobbidosoooo! È i cane più bello di tutto i mondo.» cominciò ad accarezzare il capoccione del cane e Pumba, inevitabilmente prese a leccarlo ovunque. Era alla sua portata.

«Sono sicuro che andrete molto d’accordo. Vuoi qualcosa da mangiare, Alec? Un gelato? Qualcosa?»

«Mh…No. Vojo giocae con Pumba adesso. Gazzie papà Bill

«Va bene, amore. Se vuoi ti mostro la tua stanza. Vieni con me.»

Bill gli afferrò la manina e lo portò su in camera sua. Alec, non appena la vide, rimase a bocca aperta. Non aveva mai visto una stanza così bella. Un lettino tutto per lui, una scrivania con il computer, un sacco di giocattoli tutti suoi. – sì, Bill aveva pensato già a tutto prima ancora di dirlo a Tom –

«Com’è gande quetta ttanza. Ma è tutta mia?»

«Certo tesoro, è la tua stanzetta. La mia e quella di papà è proprio accanto. Se dovessi aver paura a dormire da solo, basta che bussi e vieni da noi. Okay?»

Alec annuì ed abbracciò forte Bill. Lui ricambiò ancor più forte, per quanto fosse possibile.

«Sei già la cosa più bella che abbia mai fatto, piccolo Alec. Ti voglio già troppo bene.»

«Come se fossi tuo?»

«Certo, scricciolo. Tu sei già mio.»

«No papà, no hai capito. Come se mi avessi pattoito tu?»

Bill scoppiò a ridere e gli stampò un sonoro bacio sulla fronte. Non rispose, ma urlò a Tom di salire la valigia su in camera.

*

Quella stessa sera Bill, Tom ed Alec, andarono al parco, comprarono un maxi gelato e giocarono a pallone. Non si erano mai divertiti così tanto. Forse ancora non riuscivano a realizzare il fatto che, finalmente, fossero diventati una famiglia. Una vera famiglia. Forse la famiglia che non avevano mai avuto per davvero. Giurarono di dare ad Alec tutto quello che i loro genitori non li avevano dato, che gli avrebbero lasciato amare chiunque gli facesse battere il cuore, non lo avrebbero sgridato per ogni minima sciocchezza, non l’avrebbero picchiato, non gli avrebbero mai fatto mancare nulla. Sarebbero stati i genitori perfetti.

Non erano così felici da tanto, forse anche troppo tempo. Tom si era sbagliato, si era sbagliato di grosso. Il piccolo Alec gli avrebbe sconvolto la vita in meglio. Così come gliel’aveva sconvolta Bill.

Si allontanò leggermente, sedendosi su di una panchina lì vicino. Si soffermò a guardare quel quadro meraviglioso con un sorriso compiaciuto. Non voleva nient’altro. Aveva l’amore della sua vita, aveva un cane, una casa modesta, un buon lavoro e un figlio che, senza dubbio, avrebbe amato tantissimo. Involontariamente, si toccò con il pollice, l’anulare della mano sinistra. Aveva una fedina d’argento. Sorrise inevitabilmente, ricordandosi il giorno in cui l’aveva regalata a Bill. Stava ad indicare il loro amore, il loro legame, quel legame che andava oltre ogni immaginazione, oltre ai limiti, un legame fuori dal comune…ma legalmente però, non erano altro che una coppia di conviventi.

Perché non riusciva a trovare il coraggio ancora, nonostante avessero legalizzato i matrimoni gay in tutti gli Stati Uniti? Forse non era pronto per la vita matrimoniale? Eppure non doveva essere tanto diversa da quella attuale. Il sol pensiero lo terrorizzava però, anche se questo avrebbe reso Bill l’uomo più felice del mondo.

«Tom? Dobbiamo andare!»

I suoi pensieri vennero interrotti dalla squillante voce del fratello. Si alzò goffamente facendo leva sulle ginocchia e si avviò verso loro.

*

«Ssh… ah… Tom…»

«Sta zitto Bill, non vorrai svegliarlo.»

«Staah… ah… sta dormendo. Ah… mio dio…TOM!»

«Tappati quella bocca. Non puoi più urlare adesso.» ringhiò Tom mettendogli una mano sulla bocca dimodoché non potesse più ansimare troppo forte ma Bill prese a leccargli il palmo e quindi fu costretto a toglierlo.

«Sei proprio una troia, Bill.» sospirò lui, spingendo più forte dentro di lui.

«Sì. Fottimi. Fottimi come sai fare tu… ah… dio Tom…»

«Sto per…Bill…Sto…»

Sentirono il cigolio della porta ed entrambi persero dieci anni di vita. Era completamente buio, ma riuscirono a vedere perfettamente la piccola sagoma del bambino. Tom si volatilizzò in un batter d’occhio, gettandosi dall’altra parte del letto e ficcandosi sotto le coperte. Un fulmine. Stessa cosa fece Bill.

«Ho paua papà. Pozzo dommie co voi?»

«Ma certo, amore. Vieni qui, in mezzo a noi due.» sospirò Tom ancora con l’affanno. Si scostò i ciuffi di capelli appiccicati alla fronte e fece spazio.

Alec batté contento le mani e corse, lanciandosi sul letto e ficcandosi in mezzo a Bill e Tom.

«Però solo per stanotte, okay amore? Devi imparare a dormire da solo. Non puoi dormire sempre con i papà.» disse poi, girandosi verso il figlio.

«O so. È pimo gionno. Pozzo dommie co Pumba?»

«Certo, tesoro. Domani sera metteremo la brandina di Pumba nella tua stanzetta, così potrai dormire più tranquillo.»

«Okay papà. Boanotte.»

«Buonanotte, Alec.»

*

Cinque mesi dopo

«Dove cazzo è?»

Bill sbarrò gli occhi e, come una molla, scattò mettendosi seduto sul letto. Era domenica. Tom la domenica non lavorava. Erano le nove del mattino e l’altra metà del letto era vuota. Bill la tastò, era fredda.

«Il cellulare. Dove diamine è il mio cellulare?» cominciò a lanciare in aria coperte e cuscini in cerca del suo telefono. Lo trovò gettato a terra assieme ai jeans. Erano lì sul pavimento dalla sera prima. Avevano finalmente avuto una serata di fuoco come si deve.

Alec era andato a dormire dalla figlia dei vicini, Corinne. Fortunatamente aveva fatto subito amicizia con la maggior parte dei bambini del vicinato. Si era rivelato molto socievole ed allegro. Particolarmente però, aveva legato con la figlia dei Sullivan, Corinne. Avevano la stessa età e andavano nella medesima scuola. Bill si sentì particolarmente sollevato in quanto, nei giorni in cui entrambi avessero dovuto lavorare, sapeva benissimo a chi avrebbe lasciato il figlio anziché chiamare la babysitter. Cintia era casalinga e quindi dedicava il proprio tempo alla figlia e, con molto piacere, avrebbe dedicato anche del tempo ad Alec.

«Adesso mi sente.» disse con tono minaccioso come se Tom potesse sentirlo. Pigiò violentemente il suo I-Phone e se lo portò all’orecchio, in attesa che quel farabutto rispondesse.

Risponde la segreteria telefonica del numero…….

«Fanculo. Riprovo.» al decimo squillo, scattò nuovamente la segreteria.

-

«Allora Georg, riproviamo…cinque…sei…cinque sei sette…. Aspetta. Credo sia il mio cellulare.» Tom mise in bocca il suo plettro e frugò nelle tasche. Aveva la vibrazione. Non appena vide lo schermo, avrebbe voluto suicidarsi, risorgere e suicidarsi un’altra volta.

Cinque chiamate perse. ‘Bill’

Deglutì.

«Chi è?» chiese Georg.

«È Bill.»

«Bill? Aspetta…squilla il cellulare anche a me.» frugò anche lui fra le sue tasche, mettendosi il plettro in bocca. «Oh, è Bill.»

«Non rispondere. Mi ammazzerà»

«Tom, non fare il deficiente. Devo rispondere.»

«No ti prego non farlo.»

«Smettila…pronto?»

Passamelo immediatamente.

«Buongiorno Bill. Grazie io sto bene e tu?»

Passamelo.

Georg guardò l’amico con aria di misericordia e socchiudendo gli occhi, annuì lentamente.

‘È stato bello conoscerti.’ Mimò poi con le labbra e, prima che Bill si incazzasse ancora di più, afferrò il cellulare.

«Ehi amore!»

Amore un corno. Dove cazzo sei? Ti rendi conto di che ore sono? Sono le nove del mattino e tu sei già fuori?

«Stiamo facendo le prove io e Georg.»

Dove? Dove siete andati? A uomini?

«Bill, siamo nel garage. E poi io non vado a uomini, tanto meno Georg.»

Georg fece una faccia schifata.

Che garage? Noi non abbiamo un garage.

«Bill, stai ancora dormendo per caso? Certo che abbiamo un garage.»

Dove mettiamo l’albero di Natale? Quello non è un garage. Quello è un ripostiglio, per me.

«Bill, doveva essere un garage e tu l’hai adibito a ripostiglio.»

E perché non mi hai risposto subito? Sto vedendo.

Chiuse la chiamata prima che Tom potesse rispondere. Tom restituì il cellulare a Georg. Lo afferrò e lo rimise in tasca.

«Sta venendo qui.»

«Allora è meglio che me ne vada, amico.»

«No ti prego. Resta qui. Non mi ucciderà se resti qui con me.»

«Ma lo farà ugualmente quando me ne andrò.»

«Almeno potrò godermi gli ultimi istanti della mia vita.»

Georg rise di gusto e, per restare in tema, disse che non sarebbe venuto al suo funerale.

«Sei proprio un pezzo di merda.» scherzò Tom tirando un pugno sulla spalla dell’amico. Si portò un ciuffo di capelli dietro l’orecchio e sorrise.

«A proposito…quando hai intenzione di dirglielo?»

Tom fece spallucce.

«Sono molto agitato, Georg. Se non fosse la cosa giusta?»

«Tom, state insieme da una vita. Ti posso assicurare che è la cosa giusta.»

Tom non disse nulla ed annuì.

«Se questa è la cosa giusta…non c’è motivo di aver paura, vero?»

«No, amico.»

D’un tratto, il loro discorso venne interrotto dalla saracinesca del garage che si spalancava. Tom deglutì. Erano entrambi in trappola. Le soluzioni erano due: fingersi morto e scamparsela, chiedere umilmente scusa supplicandolo in ginocchio di non ucciderlo.

Bill era in pigiama, con il peso tutto concentrato sul piede destro e il sinistro che batteva in maniera convulsiva per terra, le braccia incrociate al petto e uno sguardo fulmineo.

«C-ciao Bill» bisbigliò Georg, come se avesse paura di essere udito.

«Potevi anche lasciami un cazzo di biglietto con scritto: sono nel garage a fare le prove con Georg, non preoccuparti amore. Ti amo tanto.»

Tom non rispose. Qualsiasi cosa avesse detto, sarebbe stata usata contro di lui. Anche una frase senza senso non poteva salvarlo.

«Scusa.» pregò il Signore che quella parola potesse almeno salvarlo in parte, non del tutto, almeno in parte.

*

Una settimana dopo

«Vostro figlio è davvero un amore. È davvero bravo. Il compito di oggi era: ‘disegna la tua famiglia’ ecco cosa ha fatto Alec.»

La maestra Carol mostrò ai gemelli il ritratto di loro due. Raffigurava due omini simpatici che si tenevano per mano e, nell’altra, avevano un margherita, il sole splendente e due nuvolette e poi, in mezzo ai due papà, c’era un piccolo cuore rosa. Bill quasi si commosse vedendo quel disegno, strinse forte la mano di Tom e guardò la maestra.

«È davvero un bambino adorabile vostro figlio e si vede anche che vi vuole molto bene.»

«Sono cinque mesi che è con noi e lo amiamo come se fosse sempre stato qui.»

«È un bambino molto intelligente e per di più ha accettato molto bene il fatto che non abbia una mamma, ma due papà.»

«Io e il mio compagno facciamo sia da madre che da padre signora Smith e nostro figlio crescerà come tutti gli altri.»

«Questo non lo metto in dubbio anzi, potrebbe crescere anche molto meglio rispetto ad alcuni bambini i cui genitori hanno divorziato.»

Bill non rispose. Accennò un sorriso, dopodiché suonò la campanella e i bambini corsero per tutta l’aula per poter accaparrarsi per primi i propri zainetti per potersi mettere in fila a due.

«Bene bambini, domani ci sarà un altro tema che tratteremo. Cosa voglio fare da grande. Pensateci bene. A domani.» Carol li salutò allegramente e si congedò ai gemelli.

«Papiniiiiiii!» urlò Alec correndo verso i gemelli gettandosi fra le braccia di entrambi. Prese la rincorsa e Tom lo afferrò prendendolo in braccio.

«Ciao campione. Abbiamo visto il tuo disegno. Siamo proprio belli.» disse Tom, baciando la fronte del figlio.

«Gazie papino. Tu eri quello con la maia bu e tu papà quello co a maia osa»

«Perché io ho la maglia rosa?»

«Ma pecchè tu sei pu mamma di lui. Tu pepai da maggiare, puisci, avi, ttiri, papà Tom non fa quette cose

D’un tratto Bill cominciò a ridere talmente tanto da sentirsi quasi male. Gli mancava il fiato.

«Ahaha o mio dio. Io ti amo, amore mio.» gli afferrò il viso con le mani e gli stampò un sono bacio sulla bocca. «Il piccolo di papà.»

«Non mi piace questa cosa. Anche io voglio la maglia rosa. Anche io faccio da mamma, Alec.» Tom si finse dispiaciuto e mise il broncio.

«Dai papà, ma tu zei i mio piccoo papino che avoa tantizzimo

«Almeno quello ahaha.»

*

Pronto?

«Oh.»

Tom? Ma hai visto che ore sono? Sei impazzito? Che vuoi?

«Sono le due di notte. Non è tardi.»

Per me sì, cazzo. Stavo dormendo. Che cazzo vuoi?

«Che devo fare, Georg? Come posso dirglielo?»

Mio Dio Tom, sembri un bambino di tre anni. Sembri più piccolo di tuo figlio. State insieme da quanto? Dieci anni?

«Stiamo insieme da una vita intera…»

E quindi? Ancora ti chiedi se sia o meno la cosa giusta da fare?

«No, non è questo il punto…»

Tom…non farmi incazzare. Lui lo vuole, tu lo vuoi. Non vi sembra arrivato il momento di darvi una mossa?

«Mi appoggerai, vero?»

No, Tom. Io non te l’appoggio da nessuna parte. Hai sbagliato proprio persona.

«Sei il solito cazzone, Georg. Intendevo moralmente.»

Avevo capito, cretino. Comunque io adesso me ne torno a dormire perché a differenza tua, io devo lavorare, la domenica.

«Grazie. Sei un amico vero.»

Si, lo so. Buonanotte, coglione.

«Buonanotte, stronzo.»

*

Due giorni dopo

Alec stava strillando come un pazzo. Stava giocando a pallone con Tom e, distrattamente, cadde per terra sbucciandosi leggermente il ginocchio.

«PAPÀÀÀÀÀÀ!!! MI FA MAEEEEEEEE!» continuò ad urlare, cacciando fuori tutte le lacrime che aveva in corpo. Bill quel pomeriggio non c’era, si era trattenuto a lavoro per terminare un abito da sposa entro quel giorno stesso. L’indomani la donna si sarebbe sposata.

«Non piangere, amore. Adesso lo disinfettiamo. Non ti preoccupare.»

«Voio papà. Voio atto papà. Lui mi sa cuae. Chiamao zubito.» Alec mise il broncio, tenendosi il ginocchio con entrambe le mani. Il pantalone della tuta si era leggermente sporcato di sangue e, quella visione, lo terrorizzò.

«No voio moie. Non voio moie

«Non dire sciocchezze, Alec. Ti sei solo sbucciato un po’, vieni, andiamo a casa e puliamo tutto quanto.»

 

Lo prese in braccio e lo fece sedere sul tavolo della cucina, arrotolò su se stesso il pantalone della tuta dimodoché potesse vedere il ginocchio sbucciato.

«Bucia. Bucia tantizzimo

«Lo so, amore. Tuo padre si sbucciò il ginocchio tanti anni fa…era più grande di te e praticamente si comportò nella stessa maniera. Sono un esperto di ‘cura ginocchio senza dolore’» sorrise poi, sfoggiando entrambi i muscoli. Questa reazione spontanea del padre, procurò una sonora risata del bambino facendo così intravedere quei minuscoli dentini da latte.

«Babbene papi. Alloa cuao tu

Tom prese dei cerotti dalla cassetta del pronto soccorso e, dopo aver messo del disinfettante, lo posizionò sulla leggera e quasi invisibile ferita che si era aperta sul ginocchio del bambino.

«Ecco fatto, Alec. Adesso ti do anche un bacino, così ti passa subito.»

«Ti. Mi è pazzato oa. Gazzie papà Tom. Cusa se ho dubitato di te. Sei i papà miioe de mondo»

«E tu il mio scricciolo.» si scambiarono un grande e affettuoso abbraccio. D’un tratto però, Tom venne improvvisamente illuminato.

«O mio dio! Che idea geniale!» scattò in piedi, mettendosi eretto. «Alec, se ti dico una cosa, mi prometti di fare esattamente tutto ciò che ti dico? Dobbiamo fare una sorpresa a papà ora che torna. Me lo prometti? Ti metterai d’impegno?»

Il bambino annuì ripetutamente e batté le mani contento.

«Allora amore, tutto ciò che devi fare è questo…»

*

Erano le sette di sera e Bill era appena rientrato. Chiuse la porta dietro di sé e gettò per terra la borsa. Si sfilò il cappotto e lo appese all’appendiabiti.

«Sono a casa!» urlò, guardandosi intorno. Non c’era nemmeno Pumba. Solitamente era il primo a fargli le feste.

«Tom? Alec? Dove siete?» era praticamente impossibile che fossero usciti. La macchina era lì. Fece un giro rapido della zona giorno e non trovò nessuno. Salì quindi le scale e cercò fra le varie stanze. D’un tratto però trovò attaccato un biglietto sulla porta della camera da letto. Raffigurava due omini disegnati in maniera molto simpatica. Uno era in piedi e piangeva, l’altro invece era…forse in ginocchio e teneva in mano un pacchettino. Sorrideva felice. Bill lo guardò stranito. Il suo cuore cominciò a palpitare. Non sapeva nemmeno lui il motivo del perché lo stesse facendo.

«T-Tom?» aprì piano la porta della loro camera da letto e, non appena lo fece, il suo cuore si fermò completamente. Sul letto vide due abiti. Molto probabilmente due smoking. Uno bianco e uno nero. Si portò entrambe le mani sulla bocca e strizzò forte gli occhi per non piangere.

«SORPRESAAAAAA!!»

Bill sobbalzò, colto alle spalle di sorpresa da tutta la sua famiglia: Tom, Alec e Pumba. Tom lo afferrò da dietro e gli lasciò un tenero bacio sul collo.

«Cosa…cosa significa tutto questo?» disse incredulo, tra le lacrime. «Tom…cosa…cosa hai fatto?» il labbro inferiore cominciò a tremargli e gli occhi si riempirono di lacrime. I loro occhi si incontrarono e si guardarono intensamente.

Tom non rispose, si chinò e sussurrò una cosa al bambino. Questi si precipitò sotto al letto e, in una frazione di secondo, fu nuovamente fuori con in mano un cofanetto. A quel punto Bill non respirò più. Tirò un lunghissimo sospiro, quasi come se gli stesse mancando il fiato. Si portò una mano al petto.

«Ecco papà.» disse Alec, porgendo il cofanetto a Tom. Lui sorrise e gli diede un bacio sulla testa. Guardò Bill e, con un po’ di timore si chinò, poggiandosi su un ginocchio.

«O mio dio. Non può essere.» Bill si portò entrambe le mani sul viso e, inevitabilmente, scoppiò a piangere.

Tom sorrise e abbassò lo sguardo intimidito.

«Non credo ci vogliano troppe smancerie per dirti quanto tu sia importante per me. Ci sei sempre stato, sin dal primo giorno. Abbiamo affrontato numerose difficoltà, passato momenti terribili, ci siamo quasi persi…ma poi…poi ci siamo ritrovati.» fece una breve pausa. La voce gli tremava in gola. Bill ormai piangeva ininterrottamente.

«C’ho impiegato del tempo per prendere questa decisione. Riflettuto a lungo, ma la risposta è sempre stata una, amore. Siamo fatti per passare l’intera vita insieme, e adesso che abbiamo finalmente una vera famiglia, non manca che fare quest’ultimo passo…» il suo cuore cominciò a battere forte e, con un rapido movimento, aprì il cofanetto.

Ciò che vide Bill, fu una bellissima fascetta in oro bianco con dei diamantini piccolissimi incastonati. Emanava una meravigliosa luce. Brillava quasi come i suoi occhi e quelli dell’amante. Il suo sogno si stava appena realizzando.

«Mi vuoi sposare?»


- Fine -

   
 
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