(SpinOff
#2) ADOPTION
Ormai
erano quasi otto anni che i gemelli
avevano lascialo la Germania per trasferirsi definitivamente a Los
Angeles. La
loro vita era decisamente migliorata dal natale di due anni addietro.
Tom era
cambiato in meglio e, per giunta, aveva trovato un impiego migliore
come
segretario presso l’ufficio di un avvocato; quanto a Bill,
era stato assunto
full time presso la sartoria in cui lavorava. La signora Dolores, il
suo capo,
gli aveva dato il compito di dedicarsi esclusivamente agli abiti da
sposa e lui
non poteva che esserne felice. Cucire abiti da sposa lo rendeva davvero
euforico; anche perché lo faceva sognare. Se fosse restato
Valerie, forse,
avrebbe potuto realizzare quel sogno di indossare l’abito
bianco, ma anche
indossare un completo elegante, non sarebbe stato male.
Chissà…magari un giorno
l’avrebbe fatto.
«Amore,
sono a casa!» disse Tom, aprendo la
porta. Un’accoglienza immediata la ebbe dal suo bulldog,
Pumba. Il cane gli si
gettò letteralmente addosso leccandolo in ogni punto
possibile e immaginabile. «Smettila
Pumba. Che schifo.» Tom allontanò il cane con una
leggera spinta, ma questo
tornò alla carica puntando direttamente alla faccia. Si
arrese e, sconfitto, si
accasciò sul pavimento lasciando che Pumba gli leccasse
completamente tutto il
viso.
«Ehi
Tom scusami, non ti ho sentito…» Bill
giunse nell’ingresso. Aveva un grembiule a quadri verde e
bianco e i guanti da
forno, il viso leggermente sporco di farina e i capelli arruffati.
«Perché sei
disteso per terra? Pumba, vieni qui!» gli bastò un
leggero gesto sulla sua
coscia per attirare l’attenzione del cane
dimodoché Tom potesse di nuovo
respirare.
«Il
tuo cane mi ha assalito, mettendomi al
tappeto.» affermò Tom mentre cercava di rimettersi
in ordine. «Sento odore di
focaccia…» continuò, alzandosi
successivamente in piedi e sistemandosi.
Bill
sorrise e batté le mani contento.
«Sto
facendo le pizze. Proprio oggi ho visto su
internet la ricetta ed ho voluto provare.» si tolse il
grembiule e corse verso
il fratello baciandolo forte sulla bocca. Tom ricambiò sia
l’abbraccio che il
bacio.
«Poco
fa mi ha leccato Pumba sulla faccia, caro
il mio fratellino…»
«Non
mi interessa. Oggi sono proprio felice.»
Gli toccò la punta del naso con la propria, strofinandolo
leggermente.
«Ogni
volta che mi prepari la cena e sei di
buon umore, c’è sempre sotto qualcosa.»
rifletté poi Tom guardandolo negli
occhi. Bill dal canto suo, fece finta di nulla e tornò a
baciarlo.
«Dico
sul serio, Bill. Dimmi, cosa hai fatto
questa volta? L’ultima volta che hai preparato qualcosa di
buono, ti avevano
rigato la macchina.»
«Mamma
mia Tom, quanto sei permaloso. Non è
successo nulla di tutto questo. Voglio solo chiederti una
cosa.»
Giocò
con i bottoni della sua polo e lo guardò
con occhi da cerbiatto. Sì, Bill aveva sicuramente qualcosa
da dirgli. Tom
conosceva quello sguardo.
*
Stavano
mangiando l’ultimo trancio di pizza.
Bill aveva superato se stesso questa volta. Da quando si erano
trasferiti lì,
si era sempre dedicato alla cucina. Era una sua passione sin da
piccolo. Tom
aveva dei vaghi ricordi. Uno di questi era…
Agosto
1998
Erano
soli in casa
come quasi ogni pomeriggio quando lavoravano i genitori e sia lui che
Bill
avevano appena finito di fare il bagno in piscina. Bill era uscito
dall’acqua,
prese un’asciugamani e si avvolse come uno strudel, sedendosi
sulla sdraio a
bordo piscina. Tom restò ancora un po’ a nuotare.
«Tom,
cosa facciamo
adesso? Mi annoio.»
«Ma
se abbiamo appena
finito di giocare a spruzzarci.»
Bill
mise il broncio ed
incrociò le braccia al petto.
«Diciamo
che hai
giocato a spruzzare me.
Che è diverso.»
Tom scoppiò a ridere e lo schizzò ancora.
«Ma
è così divertente
spruzzarti, Bill. Insomma, sei un bersaglio perfetto per i gavettoni
d’acqua.»
Il
fratello gli fece
una smorfia e gli calciò dell’acqua con un piede.
«Per
me non è stato
affatto divertente. Hai riso solo tu.» mise di nuovo il
broncio e si sedette
sulle ginocchia. «Mi è venuta un’ideona
geniale.» si tolse l’asciugamani di
dosso e attese che il fratello prestasse attenzione.
«Che
idea?»
Bill
sorrise in
maniera beffarda e complice. «Prepariamo il cheesecake alla
marmellata.»
*
«Allora
Tom, passami
la panna, lo yogurt e lo zucchero. Forza.» ordinò
il moro indaffarato ad
afferrare lo sbattitore elettrico per montare la panna. Tom
corrugò la fronte e
mise il broncio.
«Non
sono venuto qui
a fare il tuo servetto. Voglio fare anche io qualcosa.»
«La
stai facendo, mi
stai aiutando a prendere gli ingredienti.»
Bill
salì sullo
scaffale del mobile della cucina e, sollevandosi in piedi,
aprì l’anta dove la
loro madre teneva tutti gli utensili per la cucina.
«Sì
ma non è
divertente questa cosa.»
Continuò
poi Tom
dirigendosi goffamente al frigo per prendere lo yogurt e la panna da
montare.
Bill aiutandosi con entrambe le mani, rimise i piedi sul pavimento e
con uno
sguardo di vendetta disse:
«Non
ho mai detto che
sarebbe stato divertente per te.»
Aveva
avuto la sua
rivincita.
*
Erano
sul divano accucciati a vedere una
commedia romantica – fu un’idea di Bill, ovviamente
– e a Tom questa cosa non
sarebbe mai e poi mai andata giù. La sua collezione di
blueray comprendeva
prevalentemente commedie tipo: The
Wedding Planner, The Devil Wears Prada,
Made in Manhattan, tutti
film che piacevano solo ed esclusivamente a Bill. Tom non si
sarebbe mai abituato.
«Allora
Bill, di cosa volevi parlarmi?» non
appena finì, Tom proferì parola. Sapeva benissimo
che se avesse parlato durante
il film, Bill lo avrebbe ammazzato. Per lui era un rituale sacro
guardare un
film sul divano assieme a Tom.
«Beh
ecco…» si mise seduto in maniera composta
sul divano cercando di farsi spazio fra Tom e Pumba che, come di
consueto, era
sempre accanto a loro. «…hai mai pensato che siamo
un po’ pochini in casa?»
Tom
non ci pensò nemmeno un secondo. La sua
risposta fu direttamente ‘No, perché?’
«Insomma…siamo
io e te…»
«Abbiamo
Pumba!»
«…si,
okay, abbiamo Pumba, ma non hai pensato
di…»
«Di
prendere un altro cane?»
«No,
Tom…»
«E
allora cosa?»
«Se
mi lasci finire di parlare…»
«Ma
se tu parli a spezzoni.»
«Sei
tu che mi interrompi sempre, Tom. Mio dio,
non si può proprio avere un discorso con te.»
Offeso, gli diede le spalle ed
incrociò le braccia. Tom sapeva che così facendo,
voleva solo attirare
l’attenzione del fratello.
Tom
sorrise e cominciò a baciargli
delicatamente il collo.
«Non
fare l’offeso con me, amore. Scusami, non
ti interromperò più.»
Ogni
volta che Tom gli respirava sulla pelle,
le dita dei piedi si arricciavano automaticamente e di conseguenza,
andava
fuori di testa. Si accoccolò ancora di più a lui
e ne approfittò per
spupazzarselo un po’.
Cominciò
a baciargli sensualmente il collo,
leccando delicatamente la giugulare. A Tom gli piaceva da impazzire.
Gettò il
collo all’indietro e socchiuse gli occhi, schiudendo
leggermente le labbra per
cacciare fuori gli ansimi. Il suo pomo d’Adamo era in bella
mostra e Bill ne
colse l’occasione di leccare anche quello.
«Mmh…sei
sempre in grado di farmi uscire di
testa, Bill.» lui non rispose e sorrise, continuando
l’arte del ‘come far
impazzire Tom Trümper in pochi secondi usando semplicemente la
lingua’ e
quest’arte, lo faceva divertire da matti.
«A
sì? E chi è il migliore,
dimmi…» lo stuzzicò
lui, soffiandogli sull’orecchio e, al contempo,
mordendoglielo. Tom non
rispose. Sussultò e lo pregò di non fermarsi.
Bill avrebbe voluto saltargli
addosso e scoparselo a sangue lì, seduta stante, ma la sua
intenzione era
semplicemente quella di gettargli un po’ di fumo negli occhi.
«…ti
ho detto di dirmi chi è il migliore,
fratellino.» passò delicatamente
l’indice sul rigonfiamento che,
inevitabilmente, si era venuto a creare ed era logicamente piuttosto
evidente e
da sotto i jeans, spiccava. Aveva voglia di uscire e di combattere fino
allo
sfinimento, ma quella sera, sarebbe rimasto lì
dov’era.
«Bill,
ti prego, mi torturi in questa maniera…»
supplicò poi lui, afferrandogli il polso e spingendo la mano
del fratello
direttamente sopra il cavallo dei propri jeans. Bill a quel punto
cedette e
scoppiò a ridere. Allontanò la mano e si
alzò dal divano con non chalance,
lasciando Tom ancora ansimante e stordito.
«Cosa?
Perché ti sei fermato?» disse poi lui,
sbarrando gli occhi come se avesse appena visto un fantasma –
di nuovo –
«Non
avrai mica intenzione di lasciarmi così?»
«E
invece sì. Così impari la prossima volta ad
interrompermi mentre cerco di dirti qualcosa di importante. Vado a
dormire.
Sono stanco.» gli fece la linguaccia e si diresse in camera
da letto. Salì
molto lentamente le scale, ancheggiando come una diva hollywoodiana.
Voleva
torturarlo ancora un altro po’. Tom si morse quasi in maniera
violenta le
labbra e gli vacillò in mente, l’idea di farsi una
bella sega pensando al
fratello che ancheggiava in quella maniera così fottutamente
eccitante, ma
proprio mentre stava per calarsi i pantaloni…
«E
guai a te se ti fai una sega pensando a me,
porco!»
La
voce squillante di Bill distrusse quel
magico momento, portando inevitabilmente il suo
‘amichetto’ ad abbassare la
guardia.
«Cristo
quanto lo odio certe volte.» si
ricompose e decise di andare a letto anche lui.
*
Il
mattino seguente, entrambi avevano il giorno
libero e per questo ne approfittarono per restare un po’ di
più a letto. Tom era
ancora sotto le coperte, Bill invece era sempre più
mattiniero di lui. Cercò di
non svegliarlo facendo molta attenzione a scostare le coperte e ad
uscire dal
letto.
«Shhh!»
avvicinò l’indice al labbro e fece
segno a Pumba di far silenzio. «Non vorrai che
papà si arrabbiasse ancora prima
di aprire gli occhi.» lo strapazzò un pochino,
dopodiché scese giù in cucina ed
iniziò a preparare i pancakes. Quella mattina avrebbe dovuto
trovare il
coraggio di dirlo.
*
Aprì
gli occhi e quando andò per allungare il braccio
in cerca di Bill, notò la sua assenza e, per di
più, la metà del suo letto era
fredda, ciò significava che si era alzato presto. Si
stiracchiò e mugugnò
qualcosa prima di mettersi seduto sul letto. Aveva gli occhi ancora
chiusi e le
braccia pendevano sulle gambe provocandogli un inevitabile curvamento
della
schiena tanto da sembrare un gorilla. La bocca era impastata di sonno e
l’unica
cosa che avrebbe voluto fare in quel momento, era bere un tazzone di
latte e
caffè. Provò ad alzarsi e a cercare inutilmente
le sue ciabatte.
«Puuuumbaaaa!»
mugugnò non appena vide il suo
bulldog divorarsi la pantofola comprata appena qualche giorno prima.
«Smettila
di masticare le mie ciabatte.» afferrò
l’altra e si avvicinò con fare
minaccioso verso il cane. L’alzò in alto, sopra la
sua testa e proprio mentre
stava per darla sul sedere del cane, la porta si aprì di
scatto.
«Tom.
Non fare del male a Pumba. Lascialo
stare.» Tom guardò Bill con aria innocente, continuando
a tenere in alto la ciabatta e giurò che, qualche attimo
dopo, la sentì cadere
sulla propria testa, rimanendo ancora qualche secondo con il braccio in
alto.
«Ho
già vissuto questo momento? O sbaglio?»
disse poi, grattandosi la testa là dove era stata colpita.
Guardò la pantofola
in terra, guardò Bill, poi Pumba e di nuovo la pantofola.
«Non
capisco di cosa tu stia parlando, Tom. Non
ti ho mai lanciato una pantofola in testa. Adesso muovi il culo e
scendi di
sotto. È pronta la colazione.» gli dette le spalle
e chiuse la porta dietro di
sé. Tom guardò accigliato il cane che continuava
a rosicchiare ardentemente la
sua bella pantofola.
«Non
finisce qui, cane. Oggi ti è andata bene.
Tiè, ti regalo anche l’altra. Non so che farmene,
ormai.»
*
Si
sedette a tavola e, come di consueto, gli
scappò un rutto poco silenzioso.
«Dio,
Tom. Ma fai schifo. Metti la mano almeno.
Sei proprio un animale.» gli dette un buffetto dietro al
collo.
«Ma
vuol dire che ho apprezzato la colazione
del mio piccolo amore…» cacciò in fuori
le labbra per dare un bacio a Bill, ma
questi gli tirò uno schiaffo. «Auch! Ma sei scemo?
Perché l’hai fatto?» si
accarezzò delicatamente la nuca e si guadò le
dita, come se da quello schiaffo
potesse essere uscito del sangue.
«Perché
sei un cretino, Tom. È da ieri che
cerco di dirti una cosa importante.»
«E
allora parla, Bill. Senza che mi prepari
cene, colazioni abbondanti. Vuoi farmi ingrassare così tanto
da potermi
mangiare? Oppure mi vuoi dare in pasto al cane? Leggi troppi libri su
Hannibal
Lecter, a mio parere.»
Bill
si spiaccicò una mano sul viso, scuotendo
il capo.
«Allora
Tom…possiamo parlare ora?» si massaggiò
il setto nasale e le tempie, dopodiché guardò il
fratello.
«Sono
tutto orecchi, tesoro.»
«Okay,
te lo dico senza troppi giri di parole?
Oppure vuoi che ti ci porti piano piano?»
«O
ma insomma, Bill. Che cazzo! Dillo e sputa
il rospo.»
Tom
andò per alzarsi, quando Bill lo anticipò.
Sbatté i palmi sul tavolo e glielo urlò.
«Voglio
adottare un bambino. Cristo santo!»
Silenzio
assoluto.
In
quel momento, Bill non sapeva nemmeno più se
Tom stesse ancora respirando o avesse smesso di farlo per lasciarsi
morire. Lo
guardava impassibile, senza sbattere le ciglia e senza muovere un solo
muscolo.
La sua espressione era un mix di trauma, terrore puro, voglia di morire
e…sì,
forse ci poteva essere anche della disperazione.
«Allora?
Non mi dici nulla?»
Tom
continuava ad essere impassibile. Bill
pensò seriamente che avesse avuto un mini infarto. Si
avvicinò lentamente e
provò a toccargli la spalla.
«Ehi?
Ma sei ancora vivo?»
Non
appena lo toccò, Tom sobbalzò, come se si
fosse svegliato da un sogno.
«Eh?
Cosa? Che c’è?»
«Come
che c’è? Non hai risposto a quello che mi
hai detto.»
Tom
deglutì. Ogni volta che Bill gli diceva
così, c’era sempre un trabocchetto. Le soluzioni
erano tre: far finta di non
aver capito, dirgli semplicemente di sì, fingersi morto. La
terza opzione era
la più plausibile, ma decise di non scegliere nessuna delle
tre.
«Un
bambino? Come vuoi adottare un bambino?» la
voce tremava.
«Sì,
Tom. Hai capito bene. Voglio un figlio.
Voglio adottare un bambino. So già l’orfanotrofio
dove andare a prenderlo. Ho
anche parlato con la direttrice e ci aspetta stamattina alle undici e
mezzo.
Quindi…» guardò l’orologio
della cucina. «Preparati in fretta. Dobbiamo essere
lì alle undici.»
In
quel momento Tom non stava davvero capendo nulla.
Bill cominciò a discutere su delle pratiche da firmare, sul
cognome che
avrebbero dato al bambino, dove sarebbe andato a scuola; insomma, era
come se
Bill avesse già un figlio.
«Bill…vuoi
fermati un secondo per favore? Non
sto capendo nulla di quello che stai dicendo.» si
alzò dalla sedia e cominciò a
gironzolare per la cucina mordendosi le unghie.
«In
che senso? Ti sto preparando a tutto ciò
che affronteremo a partire da oggi pomeriggio.»
«Bill,
ma perché non me ne hai parlato prima?
Cioè, io non so come comportarmi. Non so cosa fare. Io non
sono pronto per
avere un figlio.» disse poi fermandosi, guardandolo con occhi
quasi
supplichevoli. Bill mise tutto il suo peso su di un piede e sporse
l’anca
destra un po’ più fuori, dimodoché
potesse poggiarvi la mano.
«Io
non ho detto che dovevi darmi una risposta,
volevo solo metterti al corrente di quello che ho fatto. E poi se sono
pronto
io per avere un figlio, lo sei anche tu. Sei il mio gemello, e sei
pronto a
prescindere. Quindi adesso non fare lo stupido e vestiti.
Forza.»
«Bill,
ti ho detto che io non sono pronto per
avere un figlio. Io non mi muovo di qui fin quando non chiedi anche il
mio
parere.»
Bill
lo guardò accigliato. Ridusse gli occhi a
due piccole fessure e strinse le labbra.
«Sai
cosa ci faccio con il tuo parere, Tom?»
«No.
E non lo voglio sapere. Io di qui non mi
muovo.»
*
«Ma
cosa ho fatto di male per meritarmi tutto
questo?» disse tra sé e sé, mentre
aspettava fuori al parco. Aveva le braccia
incrociate e sedeva su una panchina. Guardava i bambini giocare con la
palla e
temeva che da un momento all’altra gli arrivasse in faccia.
C’era di peggio
però di una semplice pallonata, l’arrivo di Bill.
«Tom,
la direttrice ci può ricevere, adesso. Il
bambino è già nello studio con lei. Dobbiamo solo
conoscerlo e firmare delle
pratiche di adozione. E ti prego fratello mio, fa un cazzo di sorriso
che non
siamo mica ad un funerale.» lo afferrò dal polso e
lo fece alzare
strattonandolo un po’.
Tom
imprecò contro Bill in maniera bassa e
silenziosa.
«Guarda
che ti ho sentito, imbecille. La
prossima volta se vuoi imprecarmi contro, fallo col pensiero. Ma fallo
in
silenzio, posso leggerti nella mente.»
Ma
perché tutte a me?
«Ti
ho sentito anche questa volta.»
Okay.
Forse era meglio starsi in silenzio e
subire.
*
Le
pareti della stanza erano di un rosa pesca
molto confortevole. Era arredata con una scrivania ad angolo bianca con
i
cassetti dello stesso colore delle pareti, due poltrone in pelle nera e
una
parete attrezzata color mogano piena di libri. Vari quadri e oggettini
erano
appesi un po’ dappertutto ma in maniera piacevole e non
caotica. L’odore di quella
stanza era un misto fra lavanda e limone. Profumava di pulito e di
fresco.
«Allora
signori…Trümper o…Kaulitz?»
chiese la
direttrice un po’ imbarazzata. Nonostante la sua notevole
esperienza, raramente
si imbatteva in coppie gay non sposate che volevano adottare un
bambino.
Bill
rispose subito. ‘Kaulitz’ «Il bambino
prenderà il mio cognome, signora Styles.»
affermò Bill, tirando un calcio a Tom
ancor prima che parlasse. Il fratello imprecò nella mente e
temette che Bill
potesse averlo sentito. Da quando successe quel
fatto, ormai due anni fa, Bill aveva preso il sopravvento.
Aveva cambiato
completamente comportamento. Ora era lui lo stronzo, ma nonostante
tutto, Tom
lo amava più di prima.
«Perfetto.
Dovrete firmare questi documenti. Io
vado a chiamare il piccolo Alec.» la direttrice si
alzò e chiuse la porta
dietro di sé. A quel punto Tom poté parlare.
«Da
quando hai deciso che il bambino prenderà
il tuo cognome?»
«Da
quando ho deciso di adottare un figlio, mio
caro.» aggiunse Bill senza fare una piega, guardando i
documenti e firmando
ogni cosa. «Tieni amore, metti una firma qui, qui e qui.
Vedi?» Tom borbottò.
«Non
siamo sposati, Bill. Quindi il bambino
potrebbe prendere il cognome di entrambi.»
«Tom,
noi due ci sposeremo un giorno...sto solo
aspettando che quella testa di broccolo del mio fratello/fidanzato si
muova a
chiedermelo. Quindi, visto che mi sta facendo aspettare così
tanto, voglio che
il bambino prenda il mio cognome. E poi suona meglio: Alec
Kaulitz.»
Tom
stava per ribattere nuovamente quando
entrambi si voltarono verso la porta. La direttrice entrò
per prima seguita da
un piccolo nanetto che si nascondeva dietro di lei. Era leggermente
timido e
timoroso e si rosicchiava in maniera accanita il pollice della mano
sinistra.
«Vieni
tesoro, non essere timido. Ci sono delle
persone che ti vogliono conoscere.» disse Margaery, ma il
piccolo Alec restò
dietro di lei nascondendosi dietro il vestito.
«Ciao,
Alec. Io sono Bill e lui è Tom. Siamo i
tuoi papà.» disse il biondo alzandosi dalla
poltrona e dirigendosi verso la
porta. Il piccolo era ancora un po’ scettico, ma quando Bill
uscì dalla sua
borsa un cioccolatino, Alec sporse leggermente la sua testolina per
scorgere
meglio il dolcetto che Bill gli porse e senza troppe cerimonie lo
afferrò,
scartandolo rapidamente e mangiandolo in un sol boccone.
«Come
si dice, Alec?» aggiunse la signora
Styles guardando il bambino con uno sguardo materno.
«Glassie»
«Prego,
tesoro.»
Alec
aveva gli occhi di un castano chiaro,
sembravano dello stesso colore della nocciola. I capelli erano color
miele,
pettinati in maniera sbarazzina. Aveva un’espressione
leggermente corrugata ma
al contempo attenta. La bocca identificava un leggero broncio.
«Cosa
c’è, tesoro? Non ti piace quell’uomo
laggiù?» disse Bill indicando un punto alle sue
spalle. Alec si mise la punta
dell’indice in bocca e scosse il capo.
«No. Non
piace a me. È butto.»
Bill
scoppiò a ridere e lo fece anche Margaery.
«Hai
ragione, piccolo. Tom è proprio brutto con
quella barbona e quel codino, vero? Poi guardalo, ha sempre
un’espressione
cattiva.»
«Zì.
Butto Tom. Butto.»
Bill
rise ancora di più. «Amo già questo
bambino. Coraggio Tom, vieni a salutare tuo figlio. Non fare
l’antipatico. Già
non gli piaci.»
Tom
lo guardò accigliato. Si alzò dalla
poltrona e si avvicinò al bambino. Si chinò sulle
ginocchia e lo fissò dritto
negli occhi.
«Ciao,
Alec. Io sono l’altro tuo papà.» disse
Tom, sorridendogli. C’era da dire che Alec era davvero un
bellissimo bambino.
«La mamma
non c’è?»
Entrambi
i ragazzi persero un battito. Era
praticamente inevitabile che un bambino di
quell’età chiedesse dove fosse la
madre. Non era molto comune nei bambini che una coppia di omosessuali
li
adottassero già abbastanza grandi. Alec aveva cinque anni.
«Emh…Io
e Tom saremo i tuoi genitori. Faremo
sia da mamma che da papà. Oppure preferisci che Tom faccia
la mamma ed io il
papà? O viceversa. Come vorrai tu, tesoro.» disse
Bill in maniera paterna, gli
diede un bacio sulla fronte.
«No. Mi
piace due papà. Voio due
papà. Altri bimbi non
hanno due papà. Io zì.»
batté le mani contento gettò le braccia attorno
al collo di Bill che,
automaticamente, lo accolse fra le sue.
«Ieni
papà Tom. Abbacciamoci tutti inzieme. Ieni.»
disse facendo segno con la manina. Tom sorrise ed abbraccio sia Bill
che il
bambino.
Margaery,
davanti ad una scena così dolce,
quasi si commosse. Era davvero contenta di aver dato in adozione il
piccolo
Alec ad una coppia che si amava così tanto. Era un quadro
meraviglioso. Era
sicura che sarebbero stati davvero molto felici.
«Alec,
adesso devi andare a salutare i tuoi
amichetti e preparare le tue cose. I tuoi papà ed io
dobbiamo parlare, okay?
Coraggio, vai.»
«Okay
signora Ttails»
Il
bambino corse fuori dallo studio e chiuse la
porta dietro di sé.
«È
davvero molto affettuoso come bambino. È
bellissimo.» disse Bill alzandosi in piedi, anche Tom fece lo
stesso.
«Sì,
è davvero un bellissimo bambino e con un
passato non molto felice. La madre era una tossico dipendete e il
padre,
invece, non abbiamo mai saputo chi fosse. L’abbiamo trovato
davanti alle porte
dell’orfanotrofio cinque anni fa. Era quasi sicuramente
appena nato, perché era
ancora sporco di sangue. Il suo compleanno quindi, abbiam dedotto fosse
il 15
agosto 2011, ovvero il giorno in cui l’abbiamo trovato. La
madre non è mai
venuto a cercarlo. Lui è cresciuto qui.»
Bill
quasi scoppiò in lacrime a sentire quella
storia così orrenda. Come poteva una madre fare una cosa del
genere al proprio
figlio?
«È
davvero una cosa orribile. Io non potrei mai
fare una cosa del genere a mio figlio. Mai e poi mai.» si
intromise Tom,
cercando di mantenere un certo autocontrollo a differenza di suo
fratello che
si lasciava emotivamente coinvolgere un po’ troppo.
«Sì,
molta gente non può nemmeno essere
considerata umana, quando fa questi gesti così orribili.
Comunque adesso non
amareggiamoci. Alec ha trovato dei genitori meravigliosi e sono certa
che gli
darete tutto l’amore e l’affetto che dei genitori
adottivi possano dare ad un
figlio. Siete una coppia fantastica, signori.» Margaery si
alzò dalla sua
poltrona e i gemelli la seguirono a ruota.
«Adesso
potete accomodarvi fuori, vado a vedere
se Alec è pronto. È stato un vero piacere
incontrarvi.» Margaery porse ad
entrambi i ragazzi la mano e la strinse con sicurezza. Li
accompagnò fuori dal
proprio ufficio e si diresse verso i dormitori.
*
«Siamo
diventati genitori…ancora non ci credo,
lo sai Tom?» Bill era entusiasta e non smetteva di saltellare
da un piede
all’altro battendo le mani come un bambino. Tom, un
po’ meno entusiasta del
fratello, si accese una sigaretta ed ispirò forte il fumo.
«Tu
dovrai darmi una mano, Bill. Non sono
pronto ancora per fare il genitore perfetto. E se mi odiasse? Se non
gli
piacessi? Se facessi qualcosa che non potrebbe piacere a te o ad
Alec?» diede
un’altra boccata.
«Cominciamo
partendo da questa…» senza preavviso,
Bill tolse dalla bocca la sigaretta del fratello, la getto a terra e la
spense
con la punta delle scarpe.
«No
cazzo, perché l’hai fatto?»
«Non
voglio che nostro figlio prenda il vizio
del fumo o tanto meno fosse a contatto con quella merda.»
Tom
lo fulminò con gli occhi ed incrociò le
braccia. Farfugliò qualcosa che nemmeno lui capì.
«Non
c’era nessun bambino accanto a me. Potevo
fumare almeno quella.»
«Fumerai
quando nostro figlio non starà con
noi. Fumerai solo quando andrai a lavoro. Fumerai solo quando te lo
dirò io.»
Ma
perché quel giorno
mi sono ricordati di lui. Maledetto.
«E
non pensare cose negative sul mio conto,
piccolo disgraziato. Ricordati che siamo gemelli, prima di essere
amanti. E io
riesco a leggerti in quella testolina bacata.»
Tom
andò per aprir bocca ma venne
immediatamente interrotto dalla direttrice seguita dal piccolo Alec.
Portava
uno zainetto di Spiderman sulle spalle, un berretto dello stesso
supereroe e un
giacchettino di jeans leggermente grande. Margaery invece, portava la
valigia.
«Eccoci
qui!» disse allegramente la signora
Styles e lasciò la mano al bambino.
Il
bambino, prima di dirigersi verso i
genitori, abbracciò forte Margaery e lei a sua volta. Fu un
abbraccio lungo ed
intenso. Bill giurò di aver visto una lacrima rigare le
guance della direttrice
ma le asciugò rapidamente prima che qualcuno potesse
accorgersene.
«Su
coraggio piccolo Alec, va dai tuoi papà.»
Il
bambino sorrise alla signora Styles e con un
ultimo abbraccio la ringraziò.
«Le vojo
bene, signora Ttails» e dopo essersi staccato,
corse in contro ai suoi
papà. Bill si piegò sulle ginocchia e
divaricò le braccia dimodoché il bambino
potesse gettarcisi dentro.
«Ci
conosciamo da nemmeno dieci minuti e già ti
amo con tutto me stesso.» sussurrò Bill, baciando
il capo del figlio.
«Coraggio
figliolo, dammi la manina. Andiamo a
casa.» disse Tom con un sorriso dolcissimo, tendendo la mano
al piccolo Alec.
Lui l’afferrò senza esitare. Si voltò
un’altra volta verso l’orfanotrofio
dov’era stato per cinque lunghi anni. Salutò
sventolando la manina più in alto
possibile.
«Taooo!!»
*
«Hai
paura dei cani, Alec?» disse Bill, prima
di aprire la porta di casa. Il bambino scosse rapidamente il capo ed
aggiunse
che ne andava matto.
«Bene,
perché noi abbiamo un cagnolone fin
troppo affettuoso. Potrebbe saltarti addosso e leccarti
tutto.»
Alec
spalancò la bocca e si spalmò entrambe le
mani sulle guancette.
«Si
chiama Pumba. Hai mai visto il cartone
animato della Disney ‘Il Re Leone’?»
«Zi! Mi
piace tanto que cattone.»
«Allora
ti innamorerai anche di Pumba.»
Tom
prese in braccio il bambino e Bill aprì la
porta. Pumba era sul divano e, con non poca goffaggine,
saltò giù e si mise a
correre in contro ai propri padroni. Cominciò a leccare
qualsiasi cosa
capitasse sotto la sua lingua.
«Pumba,
lui è Alec. Alec, lui è Pumba. Saluta
Pumba, coraggio.»
Tom
mise il bambino giù e Pumba prese ad
annusarlo. Alec cominciò a strepitare dalla gioia e ad
emettere dei gridolini
di felicità.
«È mobbidosoooo!
È i cane più bello di tutto i mondo.»
cominciò ad accarezzare il capoccione
del cane e Pumba, inevitabilmente prese a leccarlo ovunque. Era alla
sua
portata.
«Sono
sicuro che andrete molto d’accordo. Vuoi
qualcosa da mangiare, Alec? Un gelato? Qualcosa?»
«Mh…No.
Vojo giocae con Pumba adesso. Gazzie papà Bill.»
«Va
bene, amore. Se vuoi ti mostro la tua
stanza. Vieni con me.»
Bill
gli afferrò la manina e lo portò su in
camera sua. Alec, non appena la vide, rimase a bocca aperta. Non aveva
mai visto
una stanza così bella. Un lettino tutto per lui, una
scrivania con il computer,
un sacco di giocattoli tutti suoi. – sì, Bill
aveva pensato già a tutto prima
ancora di dirlo a Tom –
«Com’è
gande quetta ttanza. Ma
è tutta mia?»
«Certo
tesoro, è la tua stanzetta. La mia e
quella di papà è proprio accanto. Se dovessi aver
paura a dormire da solo,
basta che bussi e vieni da noi. Okay?»
Alec
annuì ed abbracciò forte Bill. Lui
ricambiò ancor più forte, per quanto fosse
possibile.
«Sei
già la cosa più bella che abbia mai fatto,
piccolo Alec. Ti voglio già troppo bene.»
«Come se
fossi tuo?»
«Certo,
scricciolo. Tu sei già mio.»
«No papà,
no hai capito. Come se mi avessi pattoito tu?»
Bill
scoppiò a ridere e gli stampò un sonoro
bacio sulla fronte. Non rispose, ma urlò a Tom di salire la
valigia su in
camera.
*
Quella
stessa sera Bill, Tom ed Alec, andarono
al parco, comprarono un maxi gelato e giocarono a pallone. Non si erano
mai
divertiti così tanto. Forse ancora non riuscivano a
realizzare il fatto che,
finalmente, fossero diventati una famiglia. Una vera famiglia. Forse la
famiglia che non avevano mai avuto per davvero. Giurarono di dare ad
Alec tutto
quello che i loro genitori non li avevano dato, che gli avrebbero
lasciato
amare chiunque gli facesse battere il cuore, non lo avrebbero sgridato
per ogni
minima sciocchezza, non l’avrebbero picchiato, non gli
avrebbero mai fatto
mancare nulla. Sarebbero stati i genitori perfetti.
Non
erano così felici da tanto, forse anche
troppo tempo. Tom si era sbagliato, si era sbagliato di grosso. Il
piccolo Alec
gli avrebbe sconvolto la vita in meglio. Così come
gliel’aveva sconvolta Bill.
Si
allontanò leggermente, sedendosi su di una
panchina lì vicino. Si soffermò a guardare quel
quadro meraviglioso con un
sorriso compiaciuto. Non voleva nient’altro. Aveva
l’amore della sua vita,
aveva un cane, una casa modesta, un buon lavoro e un figlio che, senza
dubbio,
avrebbe amato tantissimo. Involontariamente, si toccò con il
pollice, l’anulare
della mano sinistra. Aveva una fedina d’argento. Sorrise
inevitabilmente,
ricordandosi il giorno in cui l’aveva regalata a Bill. Stava
ad indicare il
loro amore, il loro legame, quel legame che andava oltre ogni
immaginazione,
oltre ai limiti, un legame fuori dal comune…ma legalmente
però, non erano altro
che una coppia di conviventi.
Perché
non riusciva a trovare il coraggio
ancora, nonostante avessero legalizzato i matrimoni gay in tutti gli
Stati
Uniti? Forse non era pronto per la vita matrimoniale? Eppure non doveva
essere
tanto diversa da quella attuale. Il sol pensiero lo terrorizzava
però, anche se
questo avrebbe reso Bill l’uomo più felice del
mondo.
«Tom?
Dobbiamo andare!»
I
suoi pensieri vennero interrotti dalla
squillante voce del fratello. Si alzò goffamente facendo
leva sulle ginocchia e
si avviò verso loro.
*
«Ssh…
ah… Tom…»
«Sta
zitto Bill, non vorrai svegliarlo.»
«Staah…
ah… sta dormendo. Ah… mio
dio…TOM!»
«Tappati
quella bocca. Non puoi più urlare
adesso.» ringhiò Tom mettendogli una mano sulla
bocca dimodoché non potesse più
ansimare troppo forte ma Bill prese a leccargli il palmo e quindi fu
costretto
a toglierlo.
«Sei
proprio una troia, Bill.» sospirò lui,
spingendo più forte dentro di lui.
«Sì.
Fottimi. Fottimi come sai fare tu… ah… dio
Tom…»
«Sto
per…Bill…Sto…»
Sentirono
il cigolio della porta ed entrambi
persero dieci anni di vita. Era completamente buio, ma riuscirono a
vedere
perfettamente la piccola sagoma del bambino. Tom si
volatilizzò in un batter
d’occhio, gettandosi dall’altra parte del letto e
ficcandosi sotto le coperte.
Un fulmine. Stessa cosa fece Bill.
«Ho paua
papà. Pozzo dommie co voi?»
«Ma
certo, amore. Vieni qui, in mezzo a noi
due.» sospirò Tom ancora con l’affanno.
Si scostò i ciuffi di capelli appiccicati
alla fronte e fece spazio.
Alec
batté contento le mani e corse,
lanciandosi sul letto e ficcandosi in mezzo a Bill e Tom.
«Però
solo per stanotte, okay amore? Devi
imparare a dormire da solo. Non puoi dormire sempre con i
papà.» disse poi,
girandosi verso il figlio.
«O so. È
pimo gionno. Pozzo dommie co Pumba?»
«Certo,
tesoro. Domani sera metteremo la
brandina di Pumba nella tua stanzetta, così potrai dormire
più tranquillo.»
«Okay
papà. Boanotte.»
«Buonanotte,
Alec.»
*
Cinque
mesi dopo
«Dove
cazzo è?»
Bill
sbarrò gli occhi e, come una molla, scattò
mettendosi seduto sul letto. Era domenica. Tom la domenica non lavorava. Erano le nove del mattino e
l’altra metà del letto
era vuota. Bill la tastò, era fredda.
«Il
cellulare. Dove diamine è il mio cellulare?»
cominciò a lanciare in aria coperte e cuscini in cerca del
suo telefono. Lo
trovò gettato a terra assieme ai jeans. Erano lì
sul pavimento dalla sera
prima. Avevano finalmente avuto una serata di fuoco come si deve.
Alec
era andato a dormire dalla figlia dei
vicini, Corinne. Fortunatamente aveva fatto subito amicizia con la
maggior
parte dei bambini del vicinato. Si era rivelato molto socievole ed
allegro.
Particolarmente però, aveva legato con la figlia dei
Sullivan, Corinne. Avevano
la stessa età e andavano nella medesima scuola. Bill si
sentì particolarmente
sollevato in quanto, nei giorni in cui entrambi avessero dovuto
lavorare,
sapeva benissimo a chi avrebbe lasciato il figlio anziché
chiamare la
babysitter. Cintia era casalinga e quindi dedicava il proprio tempo
alla figlia
e, con molto piacere, avrebbe dedicato anche del tempo ad Alec.
«Adesso
mi sente.» disse con tono minaccioso
come se Tom potesse sentirlo. Pigiò violentemente il suo
I-Phone e se lo portò
all’orecchio, in attesa che quel farabutto rispondesse.
Risponde
la
segreteria telefonica del numero…….
«Fanculo.
Riprovo.» al decimo squillo, scattò
nuovamente la segreteria.
-
«Allora
Georg, riproviamo…cinque…sei…cinque
sei
sette…. Aspetta. Credo sia il mio cellulare.» Tom
mise in bocca il suo plettro
e frugò nelle tasche. Aveva la vibrazione. Non appena vide
lo schermo, avrebbe
voluto suicidarsi, risorgere e suicidarsi un’altra volta.
Cinque
chiamate
perse. ‘Bill’
Deglutì.
«Chi
è?» chiese Georg.
«È
Bill.»
«Bill?
Aspetta…squilla il cellulare anche a me.»
frugò anche lui fra le sue tasche, mettendosi il plettro in
bocca. «Oh, è Bill.»
«Non
rispondere. Mi ammazzerà»
«Tom,
non fare il deficiente. Devo rispondere.»
«No
ti prego non farlo.»
«Smettila…pronto?»
Passamelo
immediatamente.
«Buongiorno
Bill. Grazie io sto bene e tu?»
Passamelo.
Georg
guardò l’amico con aria di misericordia e
socchiudendo gli occhi, annuì lentamente.
‘È
stato bello conoscerti.’ Mimò poi con le
labbra e, prima che Bill si incazzasse ancora di più,
afferrò il cellulare.
«Ehi
amore!»
Amore
un corno. Dove
cazzo sei? Ti rendi conto di che ore sono? Sono le nove del mattino e
tu sei
già fuori?
«Stiamo
facendo le prove io e Georg.»
Dove?
Dove siete
andati? A uomini?
«Bill,
siamo nel garage. E poi io non vado a
uomini, tanto meno Georg.»
Georg
fece una faccia schifata.
Che
garage? Noi non
abbiamo un garage.
«Bill,
stai ancora dormendo per caso? Certo che
abbiamo un garage.»
Dove
mettiamo l’albero
di Natale? Quello non è un garage. Quello è un
ripostiglio, per me.
«Bill,
doveva essere un garage e tu l’hai
adibito a ripostiglio.»
E
perché non mi hai
risposto subito? Sto vedendo.
Chiuse
la chiamata prima che Tom potesse
rispondere. Tom restituì il cellulare a Georg. Lo
afferrò e lo rimise in tasca.
«Sta
venendo qui.»
«Allora
è meglio che me ne vada, amico.»
«No
ti prego. Resta qui. Non mi ucciderà se
resti qui con me.»
«Ma
lo farà ugualmente quando me ne andrò.»
«Almeno
potrò godermi gli ultimi istanti della
mia vita.»
Georg
rise di gusto e, per restare in tema, disse
che non sarebbe venuto al suo funerale.
«Sei
proprio un pezzo di merda.» scherzò Tom
tirando un pugno sulla spalla dell’amico. Si portò
un ciuffo di capelli dietro
l’orecchio e sorrise.
«A
proposito…quando hai intenzione di
dirglielo?»
Tom
fece spallucce.
«Sono
molto agitato, Georg. Se non fosse la
cosa giusta?»
«Tom,
state insieme da una vita. Ti posso
assicurare che è la cosa giusta.»
Tom
non disse nulla ed annuì.
«Se
questa è la cosa giusta…non
c’è motivo di
aver paura, vero?»
«No,
amico.»
D’un
tratto, il loro discorso venne interrotto
dalla saracinesca del garage che si spalancava. Tom deglutì.
Erano entrambi in
trappola. Le soluzioni erano due: fingersi morto e scamparsela,
chiedere
umilmente scusa supplicandolo in ginocchio di non ucciderlo.
Bill
era in pigiama, con il peso tutto
concentrato sul piede destro e il sinistro che batteva in maniera
convulsiva
per terra, le braccia incrociate al petto e uno sguardo fulmineo.
«C-ciao
Bill» bisbigliò Georg, come se avesse
paura di essere udito.
«Potevi
anche lasciami un cazzo di biglietto
con scritto: sono nel garage a fare le prove con Georg, non
preoccuparti amore.
Ti amo tanto.»
Tom
non rispose. Qualsiasi cosa avesse detto,
sarebbe stata usata contro di lui. Anche una frase senza senso non
poteva
salvarlo.
«Scusa.»
pregò il Signore che quella parola
potesse almeno salvarlo in parte, non del tutto, almeno in parte.
*
Una
settimana dopo
«Vostro
figlio è davvero un amore. È davvero
bravo. Il compito di oggi era: ‘disegna la tua
famiglia’ ecco cosa ha fatto
Alec.»
La
maestra Carol mostrò ai gemelli il ritratto
di loro due. Raffigurava due omini simpatici che si tenevano per mano
e,
nell’altra, avevano un margherita, il sole splendente e due
nuvolette e poi, in
mezzo ai due papà, c’era un piccolo cuore rosa.
Bill quasi si commosse vedendo
quel disegno, strinse forte la mano di Tom e guardò la
maestra.
«È
davvero un bambino adorabile vostro figlio e
si vede anche che vi vuole molto bene.»
«Sono
cinque mesi che è con noi e lo amiamo
come se fosse sempre stato qui.»
«È
un bambino molto intelligente e per di più
ha accettato molto bene il fatto che non abbia una mamma, ma due
papà.»
«Io
e il mio compagno facciamo sia da madre che
da padre signora Smith e nostro figlio crescerà come tutti
gli altri.»
«Questo
non lo metto in dubbio anzi, potrebbe
crescere anche molto meglio rispetto ad alcuni bambini i cui genitori
hanno
divorziato.»
Bill
non rispose. Accennò un sorriso, dopodiché
suonò la campanella e i bambini corsero per tutta
l’aula per poter accaparrarsi
per primi i propri zainetti per potersi mettere in fila a due.
«Bene
bambini, domani ci sarà un altro tema che
tratteremo. Cosa voglio fare da grande. Pensateci bene. A
domani.» Carol li
salutò allegramente e si congedò ai gemelli.
«Papiniiiiiii!»
urlò Alec correndo verso i gemelli gettandosi fra le braccia
di entrambi. Prese
la rincorsa e Tom lo afferrò prendendolo in braccio.
«Ciao
campione. Abbiamo visto il tuo disegno.
Siamo proprio belli.» disse Tom, baciando la fronte del
figlio.
«Gazie
papino. Tu eri quello con la maia bu e tu papà quello co a
maia osa»
«Perché
io ho la maglia rosa?»
«Ma
pecchè tu sei pu mamma di lui. Tu pepai da maggiare, puisci,
avi, ttiri, papà
Tom non fa quette cose.»
D’un
tratto Bill cominciò a ridere talmente
tanto da sentirsi quasi male. Gli mancava il fiato.
«Ahaha
o mio dio. Io ti amo, amore mio.» gli
afferrò il viso con le mani e gli stampò un sono
bacio sulla bocca. «Il piccolo
di papà.»
«Non
mi piace questa cosa. Anche io voglio la
maglia rosa. Anche io faccio da mamma, Alec.» Tom si finse
dispiaciuto e mise
il broncio.
«Dai
papà, ma tu zei i mio piccoo papino che avoa tantizzimo.»
«Almeno
quello ahaha.»
*
Pronto?
«Oh.»
Tom?
Ma hai visto che
ore sono? Sei impazzito? Che vuoi?
«Sono
le due di notte. Non è tardi.»
Per
me sì, cazzo.
Stavo dormendo. Che cazzo vuoi?
«Che
devo fare, Georg? Come posso dirglielo?»
Mio
Dio Tom, sembri
un bambino di tre anni. Sembri più piccolo di tuo figlio.
State insieme da
quanto? Dieci anni?
«Stiamo
insieme da una vita intera…»
E
quindi? Ancora ti
chiedi se sia o meno la cosa giusta da fare?
«No,
non è questo il punto…»
Tom…non
farmi
incazzare. Lui lo vuole, tu lo vuoi. Non vi sembra arrivato il momento
di darvi
una mossa?
«Mi
appoggerai, vero?»
No,
Tom. Io non te
l’appoggio da nessuna parte. Hai sbagliato proprio persona.
«Sei
il solito cazzone, Georg. Intendevo
moralmente.»
Avevo
capito,
cretino. Comunque io adesso me ne torno a dormire perché a
differenza tua, io
devo lavorare, la domenica.
«Grazie.
Sei un amico vero.»
Si,
lo so.
Buonanotte, coglione.
«Buonanotte,
stronzo.»
*
Due
giorni dopo
Alec
stava strillando come un pazzo. Stava
giocando a pallone con Tom e, distrattamente, cadde per terra
sbucciandosi
leggermente il ginocchio.
«PAPÀÀÀÀÀÀ!!!
MI FA MAEEEEEEEE!» continuò ad urlare,
cacciando fuori tutte le lacrime che
aveva in corpo. Bill quel pomeriggio non c’era, si era
trattenuto a lavoro per
terminare un abito da sposa entro quel giorno stesso.
L’indomani la donna si
sarebbe sposata.
«Non
piangere, amore. Adesso lo disinfettiamo.
Non ti preoccupare.»
«Voio
papà. Voio atto papà. Lui mi sa cuae. Chiamao
zubito.» Alec mise il broncio, tenendosi il
ginocchio con entrambe le mani.
Il pantalone della tuta si era leggermente sporcato di sangue e, quella
visione, lo terrorizzò.
«No voio
moie. Non voio moie.»
«Non
dire sciocchezze, Alec. Ti sei solo
sbucciato un po’, vieni, andiamo a casa e puliamo tutto
quanto.»
Lo
prese in braccio e lo fece sedere sul tavolo
della cucina, arrotolò su se stesso il pantalone della tuta
dimodoché potesse
vedere il ginocchio sbucciato.
«Bucia.
Bucia tantizzimo.»
«Lo
so, amore. Tuo padre si sbucciò il
ginocchio tanti anni fa…era più grande di te e
praticamente si comportò nella
stessa maniera. Sono un esperto di ‘cura ginocchio senza
dolore’» sorrise poi,
sfoggiando entrambi i muscoli. Questa reazione spontanea del padre,
procurò una
sonora risata del bambino facendo così intravedere quei
minuscoli dentini da
latte.
«Babbene
papi. Alloa cuao tu.»
Tom
prese dei cerotti dalla cassetta del pronto
soccorso e, dopo aver messo del disinfettante, lo posizionò
sulla leggera e
quasi invisibile ferita che si era aperta sul ginocchio del bambino.
«Ecco
fatto, Alec. Adesso ti do anche un
bacino, così ti passa subito.»
«Ti. Mi è
pazzato oa. Gazzie papà Tom. Cusa se ho dubitato di te. Sei
i papà miioe de
mondo»
«E
tu il mio scricciolo.» si scambiarono un
grande e affettuoso abbraccio. D’un tratto però,
Tom venne improvvisamente
illuminato.
«O
mio dio! Che idea geniale!» scattò in piedi,
mettendosi eretto. «Alec, se ti dico una cosa, mi prometti di
fare esattamente
tutto ciò che ti dico? Dobbiamo fare una sorpresa a
papà ora che torna. Me lo
prometti? Ti metterai d’impegno?»
Il
bambino annuì ripetutamente e batté le mani
contento.
«Allora
amore, tutto ciò che devi fare è
questo…»
*
Erano
le sette di sera e Bill era appena
rientrato. Chiuse la porta dietro di sé e gettò
per terra la borsa. Si sfilò il
cappotto e lo appese all’appendiabiti.
«Sono
a casa!» urlò, guardandosi intorno. Non
c’era nemmeno Pumba. Solitamente era il primo a fargli le
feste.
«Tom?
Alec? Dove siete?» era praticamente
impossibile che fossero usciti. La macchina era lì. Fece un
giro rapido della
zona giorno e non trovò nessuno. Salì quindi le
scale e cercò fra le varie
stanze. D’un tratto però trovò
attaccato un biglietto sulla porta della camera
da letto. Raffigurava due omini disegnati in maniera molto simpatica.
Uno era
in piedi e piangeva, l’altro invece era…forse in
ginocchio e teneva in mano un
pacchettino. Sorrideva felice. Bill lo guardò stranito. Il
suo cuore cominciò a
palpitare. Non sapeva nemmeno lui il motivo del perché lo
stesse facendo.
«T-Tom?»
aprì piano la porta della loro camera
da letto e, non appena lo fece, il suo cuore si fermò
completamente. Sul letto
vide due abiti. Molto probabilmente due smoking. Uno bianco e uno nero.
Si
portò entrambe le mani sulla bocca e strizzò
forte gli occhi per non piangere.
«SORPRESAAAAAA!!»
Bill
sobbalzò, colto alle spalle di sorpresa da
tutta la sua famiglia: Tom, Alec e Pumba. Tom lo afferrò da
dietro e gli lasciò
un tenero bacio sul collo.
«Cosa…cosa
significa tutto questo?» disse
incredulo, tra le lacrime.
«Tom…cosa…cosa hai fatto?» il
labbro inferiore
cominciò a tremargli e gli occhi si riempirono di lacrime. I
loro occhi si
incontrarono e si guardarono intensamente.
Tom
non rispose, si chinò e sussurrò una cosa
al bambino. Questi si precipitò sotto al letto e, in una
frazione di secondo,
fu nuovamente fuori con in mano un cofanetto. A quel punto Bill non
respirò
più. Tirò un lunghissimo sospiro, quasi come se
gli stesse mancando il fiato.
Si portò una mano al petto.
«Ecco
papà.» disse Alec, porgendo il cofanetto
a Tom. Lui sorrise e gli diede un
bacio sulla testa. Guardò Bill e, con un po’ di
timore si chinò, poggiandosi su
un ginocchio.
«O
mio dio. Non può essere.» Bill si portò
entrambe le mani sul viso e, inevitabilmente, scoppiò a
piangere.
Tom
sorrise e abbassò lo sguardo intimidito.
«Non
credo ci vogliano troppe smancerie per
dirti quanto tu sia importante per me. Ci sei sempre stato, sin dal
primo
giorno. Abbiamo affrontato numerose difficoltà, passato
momenti terribili, ci
siamo quasi persi…ma poi…poi ci siamo
ritrovati.» fece una breve pausa. La voce
gli tremava in gola. Bill ormai piangeva ininterrottamente.
«C’ho
impiegato del tempo per prendere questa
decisione. Riflettuto a lungo, ma la risposta è sempre stata
una, amore. Siamo
fatti per passare l’intera vita insieme, e adesso che abbiamo
finalmente una
vera famiglia, non manca che fare quest’ultimo
passo…» il suo cuore cominciò a
battere forte e, con un rapido movimento, aprì il cofanetto.
Ciò
che vide Bill, fu una bellissima fascetta
in oro bianco con dei diamantini piccolissimi incastonati. Emanava una
meravigliosa
luce. Brillava quasi come i suoi occhi e quelli dell’amante.
Il suo sogno si
stava appena realizzando.
«Mi
vuoi sposare?»
- Fine -