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Autore: Flora    07/09/2015    11 recensioni
Cosa sarebbe successo se Alessandro di Macedonia non fosse veramente morto? Un antico guerriero, dopo aver attraversato i secoli, si ritrova a scavare in ricordi dolorosi, dopo un inaspettato incontro per le strade di Parigi.
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Antonio smette di pizzicare il violino e lo poggia a terra. Il rumore dello strumento contro il pavimento fa sussultare Alain, che alza lo sguardo umido di lacrime. Le asciuga rapido con la manica del maglione, prima di continuare.
“Aleksandros venne da me, mi porse la sua spada. Mi chiese di prendergli la testa e poi bruciare le sue spoglie. Era convinto che questo sarebbe bastato a dargli la pace. Nei suoi occhi si consumavano la pazzia e la disperazione che alla fine l’avevano raggiunto anche ai confini del mondo.”
Genere: Drammatico, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Antichità, Antichità greco/romana
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Αθάνατος
(Athanatos)
 
 
Pou ine o Megalexandros?                                                                                                                  
Zi ke vasilevi
Dov’è Alessandro il Grande?
Vive e regna                                                                                                                                        
[Canto dei pescatori dell’isola di Lesbo]
 
 
 
In una fredda mattina di gennaio le strade di Parigi appaiono livide e inzuppate di pioggia, il cielo una cappa grigia che si riflette a sprazzi sull’asfalto bagnato.
Sottoterra, i pendolari si accalcano come una marea vociante al margine dei binari, in attesa del treno. Una figura imbacuccata in un impermeabile si fa scivolare la sciarpa attorno al collo, e intanto getta un’occhiata distratta ai monitor appesi al soffitto.
Un refolo di vento caldo corre lungo il tunnel anticipando l’arrivo del treno che, qualche istante dopo, si arresta con un sibilo davanti alla piattaforma. Il convoglio è pieno, ma i passeggeri provano lo stesso a forzare le porte, spintonando e imprecando.
Alain Moreau – da alcuni conosciuto come Hydarnes – fa un passo indietro. “Dopo duemilacinquecento anni, suppongo di poter attendere il prossimo treno,” mormora, mentre osserva un gruppo di ragazzi tentare un ultimo assalto ai vagoni. I finestrini del treno sono appannati; un passeggero all’interno solleva una mano per pulire la condensa. Il suo volto appare nel riquadro del finestrino: una fugace visione di capelli chiari e bei lineamenti.
Alain ha un sussulto; comincia a farsi strada tra la folla, nel tentativo di avvicinarsi. “Excusez-moi!” grida, spingendo via la gente, “laissez-moi passer!”
Il treno inizia a muoversi e Alain si mette a correre. Raggiunge il limitare della piattaforma e prende a battere contro il finestrino, ma l’uomo dietro il vetro ha riabbassato il viso e si è voltato dall’altra parte. Mentre il treno acquista velocità Alain continua a picchiare i pugni contro il vetro, fin quando non è costretto a rallentare e a fermarsi contro la spalletta di cemento della galleria. Sbatte i palmi contro il muro e abbassa la testa, grugnendo di frustrazione.
Il tunnel è vuoto. Solo vento e oscurità. L’impermeabile gli sbatte contro i fianchi come un paio di ali flaccide. Alain fissa gli occhi nel cono di buio, poi li chiude. “Alekos…” sussurra, la voce che sembra rompersi, e per un attimo si chiede se non sia il suo cuore che sta andando in pezzi.
 
La liuteria di Antonio è in uno scantinato cui si accede da un minuscolo vicolo di Place du Tertre, a pochi metri dalla fermata Abbesses.
Alain vi arriva fradicio di pioggia e scosso dai brividi. Si infila nello stretto andito che si apre sulla strada, e poi giù lungo i gradini sconnessi fino all’ampio locale dal pavimento in terra battuta. Si toglie l’impermeabile e lo poggia su una sedia, mentre inspira il familiare profumo di legno e vernici. Le strette finestre a livello della strada fanno filtrare una lama di luce polverosa, che accende di riflessi dorati le casse armoniche dei violini appesi alle pareti. Addossati al muro, bidoni pieni di cenere, silice e carbone spandono una mistura di odori che stordisce.
Alain si avvicina a uno degli strumenti e vi fa scorrere le dita, godendo delle morbide curve e della consistenza liscia del legno, riempiendosi gli occhi dei castani profondi e del miele scuro della tavola armonica e del filetto. Con delicatezza, capovolge il violino e sfiora il cartiglio dorato attaccato sul retro. Antonius Stradivarius Cremonensis faciebat anno MMXV – è scritto sulla targa; Alain lo legge a bassa voce, senza trattenere un sospiro.
Si volta in tempo per vedere Antonio emergere dalle ombre del laboratorio. Si sta slacciando il grembiule sporco di vernice e, dall’espressione che gli legge sul volto, sembra felice di vederlo.
“Ti aspettavo un’ora fa, Hydarnes.”
Alain lascia andare il violino, che si riadagia contro la parete con un tonfo leggero. “Dovresti smetterla di attaccare queste targhe sui tuoi violini.”
Antonio alza le spalle e fa scivolare il grembiule dentro un baule pieno di panni sporchi. “Le metto solo sugli strumenti destinati a pochi clienti selezionati,” dice con un sorriso, mentre si rassetta i vestiti. “O dovrei scriverci sopra made in China, secondo te?”
Alain si accarezza i corti ricci castani della barba, bagnandosi le dita con le gocce rimaste impigliate nella peluria. “Un giorno o l’altro ti farai scoprire, e io non voglio essere lì quando succederà.”
“Sei fradicio,” lo interrompe Antonio, cambiando discorso. “Siediti, il tè è quasi pronto.”
Alain si lascia cadere su un vecchio divano, allungando le gambe sul tavolino di fronte. Osserva l’amico trafficare a una piccola cucina a gas, fin quando non sente il fischio acuto del bollitore.
Con gesti rapidi, Antonio versa l’acqua scura in due tazze di porcellana, prende la zuccheriera e si avvicina ad Alain, porgendogli il tutto su un vassoio.
Alain sorride, sicuro di avere intravisto un piccolo inchino. Duecento anni di conoscenza, e il suo amico italiano si ostina ancora a fare i convenevoli. Il buonumore dura un attimo; un breve lampo di memoria – capelli biondi dietro il finestrino di un treno – e il sorriso gli si spegne sulle labbra.
“Che cos’hai?” domanda Antonio, le tazze in bilico sul vassoio. “Sembra che tu abbia visto un fantasma.”
Alain gli sfila il vassoio dalle mani e lo appoggia sul tavolino. “Penso di avere visto qualcuno, oggi. Qualcuno che non avevo più incontrato da molto, troppo tempo.” Si sporge in avanti, avvicina una tazza, prendendola fra le mani. "… E poi è scomparso, come ha fatto dopo l’ultima volta che ci siamo visti.”
Antonio si accomoda sulla poltrona all’altro lato del tavolino. “E chi era?”
Le mani di Alain si stringono attorno alla tazza fino a quando le nocche si sbiancano. “Aleksandros.”
“Chi?”
Alain deglutisce, gli occhi persi nel liquido scuro. “Aleksandros di Macedonia. Aleksandros il Grande, come lo chiamano ora. Il mio Aleksandros.” La voce si incrina. “Più di duemila anni, e sembra solo ieri.”
L’amico raddrizza la schiena, un lampo di interesse negli occhi. “Stai dicendo che Aleksandros di Macedonia è un Immortale?”
Alain annuisce. “Oh, sì. Lo è. Per sua eterna e infinita tragedia.”
L’altro fa un fischio, poi si porta la tazza alle labbra, prendendo un sorso. “E perché sarebbe una tragedia?” domanda, incurvando le labbra in un sorriso. “Conosco la storia, ma quello che voglio dire è: perché per lui sarebbe peggio che per tutti gli altri come noi?”
Alain sospira; lascia andare la tazza e si stende all’indietro, appoggiandosi allo schienale del divano. “Potrei dire che è stato per i dubbi costanti sulla sua ascendenza, o perché non ha potuto avere figli, come nessuno di noi…” Si porta una mano alla fronte, premendo le dita contro le sopracciglia. “… ma la vera ragione è molto più semplice. La ragione è che lui è immortale, mentre Hephaistion non lo era.” Socchiude gli occhi. “Qualche volta, Antonio, le cose sono orribilmente semplici.” Sospira di nuovo, mentre si alza dal divano e si avvicina al tavolo da lavoro di Antonio. Sopra, giacciono sparsi i pannelli di legno appena modellati, pronti per essere intinti nella vernice e nelle resine vetrose. Alain li accarezza, senza vederli veramente. I suoi occhi sono persi in un tempo e in un luogo lontani.
“Sai, Antonio, mi ha sempre rattristato pensare a Leonidas, il primo precettore di Aleksandros. È  passato alla storia come quello che ha inibito la sua crescita, negandogli il cibo e i vestiti caldi in inverno.” Prende tra le mani un mazzetto di crini di cavallo attaccati al riccio di un violino, poi li lascia ricadere. “Se fosse stato più adulto, la prima volta in cui è morto, probabilmente sarebbe diventato più alto.”
“Come l’hai incontrato?” domanda Antonio, la curiosità che gli brilla negli occhi. “Sei nato in Persia, e so che la Persia è stata per secoli il nemico principale dei greci.”
Alain si avvicina a una delle strette feritoie che danno sulla strada. Fuori, la vita dei mortali continua come sempre in un flusso di volti e di voci indistinte, una corrente impetuosa di mesi, anni, secoli anonimi che si accavallano e si sciolgono in ricordi a volte confusi, a volte vividi come fotografie impresse sulla retina.
“Ero uno dei diecimila Immortali, la guardia scelta del Grande Re dell’impero achemenide,” spiega Alain, gli occhi fissi sulla strada bagnata di pioggia. “Eravamo chiamati Immortali perché, se uno di noi moriva, veniva immediatamente rimpiazzato. Immagino che, nel mio caso, la definizione avesse una sfumatura del tutto diversa.” Si volta nella direzione di Antonio, gli occhi socchiusi per riabituarsi alla penombra della stanza. “La prima volta sono morto alle Termopili, e ovviamente mi sono riarruolato nei ranghi qualche anno dopo, spacciandomi per un mio parente. Ma, all’epoca di Aleksandros, molti dei miei compagni avevano cominciato a sospettare qualcosa, ed era solo questione di tempo prima che la voce arrivasse alle orecchie del Grande Re. Così, decisi che era il momento di lasciare l’impero.” Si appoggia alla finestra, le braccia conserte sull’ampio torace. La pelle scura del volto è segnata dalle cicatrici di molte battaglie, appena coperte dalla barba che si ostina a portare acconciata alla maniera persiana, come l’ultima vestigia del suo passato. “Mi accodai alla scorta di Artabazos, un satrapo del Grande Re, esiliato in Macedonia assieme alla sua famiglia,” continua Alain dopo qualche istante. “A quei tempi la Macedonia era un minuscolo stato in guerra con le altre città dell’Ellade, ma Philippos aveva creato un esercito formidabile, me ne resi conto non appena arrivai a Pella, e li vidi combattere.” Si interrompe; i suoi occhi si perdono di nuovo in un ricordo remoto. “Aleksandros era appena un adolescente, ma aveva già ricevuto l’educazione di un re e di un guerriero.”
“Com’era?”
Alain sospira, lasciando ricadere le braccia. “Aveva studiato con Aristoteles, amava le arti e la filosofia. Ma viveva per ricalcare le orme del mito omerico.” Le sue labbra si distendono in un accenno di sorriso. “C’era come un fuoco dentro di lui. Una fiamma che bruciava alta; chiunque gli stesse vicino non poteva far altro che venire abbagliato dalla sua luce. Un leone – non saprei come altro definirlo, Antonio. So che in lui riconobbi il condottiero che sarebbe diventato, e giurai a me stesso che non l’avrei abbandonato.”
“Come l’ha saputo?” Antonio si piega in avanti appoggiando il mento sui palmi. “Quello che era veramente, intendo.”
Alain sorride di nuovo. “A quei tempi era diverso. Gli Dei… erano più vicini alle cose degli uomini. Quando Aleksandros realizzò qual era la sua natura, lo prese semplicemente come un dono degli Dei, un segno del loro riguardo nei suoi confronti.” Il sorriso sembra morirgli sulle labbra. “Sua madre gli aveva riempito la testa di storie su come lui non fosse veramente figlio di Philippos, ma di Zeus in persona. Suppongo che questa fosse la conferma che lui si aspettava.” Si volta di nuovo verso la finestra, una mano alzata a togliere la polvere depositata sul vetro. “Aveva combattuto sin dalla più tenera età. A sedici anni suo padre lo portò con sé in battaglia, per conquistare le tribù barbare della Tracia. Fu lì che ricevette la sua prima ferita mortale.”
 
 
 
L’interno della pesante tenda da campo era rischiarato solo dal fuoco lasciato a bruciare nei tripodi. Nelle altre tende si udivano i lamenti flebili dei soldati feriti e, all’esterno, il canto di coloro che, ancora vivi, avevano deciso di celebrare la vittoria davanti alle coppe di vino puro, alla maniera dei macedoni.
Aleksandros era adagiato sul suo giaciglio; la profonda ferita all’addome aveva finalmente smesso di sanguinare, ma le fasciature erano ancora sporche e avrebbero dovuto essere cambiate.
Hydarnes osservò il suo volto liscio, circondato dalla criniera di capelli biondi, e ancora una volta si sorprese a pensare a quanto fosse giovane; a quanto i suoi occhi brillassero come lapilli incandescenti nell’oscurità.
“E così neanche tu sai perché sono… perché siamo così.”
La voce di Aleksandros lo distolse dai suoi pensieri. Per tutto il giorno i soldati l’avevano creduto morto. Persino suo padre, di solito così severo nei suoi confronti, non era riuscito a contenere la gioia, quando Aleksandros aveva riaperto gli occhi. Erano stati innalzati doni agli Dei, nel fuoco dell’olocausto. Poi, avevano parlato a lungo, lui e Aleksandros.
“No, giovane principe,” rispose Hydarnes. “Non so dirti il perché, non più di quanto un uomo mortale sappia dirti perché nasce. O perché muore. Perché gli uccelli volino in cielo e i pesci nuotino in mare.”
“Akhilleus era immortale. Era un figlio degli Dei. Forse…” Aleksandros sembrò sul punto di voler aggiungere qualcosa, ma rimase in silenzio. Akhilleus era da sempre il suo modello, ma Hydarnes non se la sentì di dargli la risposta che lui avrebbe voluto sentire.
Un fruscio all’entrata della tenda li fece voltare. Sulla soglia era fermo un giovane dai capelli scuri. Era più alto di Aleksandros e sembrava più adulto, ma a un primo sguardo avrebbero potuto essere fratelli. Le stesse fattezze gentili, lo stesso fuoco nello sguardo.
Il volto del principe si accese in un sorriso che sembrò rischiarare lo spazio attorno a lui.
“Hephaistion!”
Il nuovo arrivato scambiò una parola con la guardia all’ingresso, poi richiuse i lembi della tenda e si fece avanti, ricambiando il sorriso. “Sono venuto per vedere come stai, Alekos.” Nella sua voce era palpabile la preoccupazione, sebbene si stesse sforzando di nasconderla. Rivolse un cenno di saluto all’indirizzo di Hydarnes, poi si sedette sullo sgabello accanto al giaciglio del principe.
“Sto bene, philè. Gli Dei mi proteggono,” rispose Aleksandros, mentre a fatica si metteva seduto. “La battaglia… non è stata meravigliosa?" Scrutò l’amico con occhi resi liquidi dall’eccitazione del ricordo. “I nostri compagni sono stati magnifici quando hanno caricato la cittadella. E anche tu, Hephaistion.” Allungò una mano a sfiorare quella del ragazzo. “Prima di essere ferito ti ho visto, e combattevi come Ares fiammeggiante, in alto sul tuo cavallo.” Lo guardò con orgoglio. Hephaistion ricambiò lo sguardo e, nella sua fierezza, il volto sembrò risplendere di una bellezza quasi ultraterrena.
“Devi riposare ora, Alekos.”
“Sì. Ma tu rimani qua.”
Hydarnes si alzò e, in silenzio, si avviò verso l’ingresso della tenda. Si volse un attimo prima di uscire; i due ragazzi apparivano dimentichi di lui, e di qualunque altra cosa li circondasse. Guardando le loro mani, intrecciate nella penombra, Hydarnes ricordò le parole di Aleksandros, a proposito degli insegnamenti di Aristoteles sull’amicizia: ‘gli uomini in origine sono nati interi, poi sono stati divisi,’ gli aveva detto. ‘Solo la vera amicizia può riunire le due metà, rendendo l’anima di un uomo nuovamente integra.’
Hydarnes se ne andò senza parlare, richiudendo la tenda dietro di sé.
 
 
 
“Era il figlio di uno dei nobili più vicini a Philippos,” continua Alain, gli occhi velati dal ricordo, “lui e Aleksandros erano cresciuti insieme. Un giovane coraggioso, che in seguito divenne uno dei suoi generali più fedeli e poi chiliarca del suo impero.” Fa cenno ad Antonio di tacere. “No. Aleksandros non l’ha mai favorito, se è quello che stavi per chiedermi. Hephaistion è arrivato dov’è arrivato solo grazie ai suoi meriti.” Di nuovo un accenno di sorriso, mentre si allontana dalla finestra e si riavvicina all’amico. “Dopo la sua morte, in molti hanno tentato di screditarlo. In fin dei conti non era rimasto nessuno che potesse difenderne la memoria. Ma io c’ero, Antonio, e posso testimoniare la verità.” Si siede di nuovo sul divano. Afferra la tazza, che è diventata fredda. La lascia andare con una smorfia. “Aleksandros aveva vent’anni quando suo padre venne ucciso, e lui divenne Egemone di tutta l’Ellade.” Una risata roca gli sfugge dalle labbra. “Tutte le città-stato credettero di potersi liberare facilmente di questo giovane barbaro delle montagne. Ah, se si sbagliavano.”
Alza il viso, fissando le macchie d’umidità sul soffitto. “Il piccolo leone rase al suolo Tebe e ridusse Atene al silenzio. Poi, volse gli occhi là dove il suo desiderio bruciava più forte: il grande impero persiano, con i suoi confini che si estendevano fin dove nessuno si era mai spinto. La motivazione data al suo esercito era vendicare i torti secolari subiti per mano degli achemenidi, ma io so che le ragioni che lo muovevano erano altre.” Abbassa gli occhi, l’espressione assorta. “Aleksandros voleva vedere; le terre descritte dai filosofi, le grandi pianure e le montagne che toccano il cielo, i deserti infuocati e il grande mare accerchiante, alla fine del mondo, dove si diceva che camminassero animali enormi, con grandi orecchie e nasi lunghissimi. Era un esploratore, Antonio. Era un sognatore, e so che lo sarà sempre.”
“La Storia ci dice che raggiunse il suo scopo,” risponde Antonio, affascinato.
Alain annuisce. “Attraversò l’Ellesponto due anni più tardi e, dopo, nulla e nessuno fu in grado di fermarlo.” Fa scorrere le dita sui pantaloni di tela ruvida, poi stringe le mani a pugno. “Sulla piana di Troia, Aleksandros e Hephaistion resero omaggio alle tombe degli eroi, deponendo corone d’alloro nel luogo del riposo di Akhilleus e Patroklos. Fu allora che resero pubblico il loro legame.”
“Erano amanti?”
“Nessuno lo sa per certo, e a quei tempi sarebbe stato normale,” risponde Alain, sciogliendo i pugni e lasciando ricadere le mani lungo le cosce, “ma erano molto più di questo. Guardandoli insieme si sarebbe data ragione al filosofo, quando parlava dell’amicizia.” Un sorriso tenero gli incurva le labbra. “Erano l’uno parte dell’altro. In tutta la mia lunga vita non ho più visto un legame del genere tra due esseri umani. La stessa anima, divisa in due corpi.”
 
 
 
La battaglia si era conclusa da qualche ora; la piana di Isso era ricoperta dai cadaveri dei soldati persiani, e da molti degli opliti macedoni. Aleksandros aveva dato ordine di seppellire i corpi prima che i corvi iniziassero a pasteggiare. Il Grande Re Darios, sul suo cocchio dorato, era fuggito con quel che restava dei suoi centomila uomini, ritirandosi dietro le porte caspiche, e si era lasciato dietro il suo harem, sua moglie, sua madre e le sue figlie, alla completa mercé degli invasori. Forse, in quel momento, si stava chiedendo come avesse fatto, quel giovane barbaro con l’elmo di Medusa, a cacciarlo via come un cane randagio alle porte del suo palazzo.
La grande tenda svettava come una torre purpurea ricoperta di seta e broccati. Nessuno sbarrò la strada al Re quando varcò la soglia, accompagnato da Hydarnes, da Hephaistion e da alcuni dei suoi uomini.
L’interno era l’incarnazione di un sogno, per occhi che avevano da sempre vissuto nella più assoluta austerità: profumi di incenso, sandalo e gomme arabiche che bruciavano nei tripodi, suppellettili di oro finissimo, legni pregiati provenienti da ogni angolo del mondo, tendaggi delle stoffe più preziose, il collo delle donne adornato di gioielli di bellezza inimmaginabile.
Gli occhi di Aleksandros, ancora sporco dopo la battaglia, sembrarono sciogliersi a quella visione. Per la prima volta assaggiava lo splendore del mondo che era venuto a conquistare.
Due ancelle si fecero avanti, scortando una donna velata. Hydarnes si inchinò, presentandosi nella sua lingua madre. “Mia regina, sono qua per portarti il messaggio del Re dei macedoni e di tutti gli elleni,” disse con rispetto.
La madre di Darios si prosternò a terra, alla maniera della sua gente. Era anziana e le ancelle dovettero aiutarla, ma si inchinò con una grazia che pareva impossibile per una donna della sua età.
“Il Re desidera che si sappia che né a te, né alle tue figlie, verrà fatto alcun male,” continuò Hydarnes. “Verrete trattate secondo il vostro rango, con il rispetto che vi è dovuto. Il Re è qui per darvi la sua parola.”
La regina Sisigambis alzò il volto, i suoi occhi erano pozze scure dietro il velo di morbida seta. Sempre in ginocchio si avvicinò a Hephaistion, e gli rivolse un cenno di ringraziamento.
Gli uomini presenti – macedoni e persiani – trattennero il respiro. Per una donna persiana era naturale credere che l’uomo più alto e più bello fosse il Re, ed era un errore che in Persia sarebbe stato punito con la morte. Quando Sisigambis si rese conto dello scambio abbassò il volto, ritraendosi. Sembrò farsi piccola nelle vesti, mentre si preparava a ricevere il castigo.
Aleksandros scambiò uno sguardo con Hephaistion; per un istante i due si sorrisero – uno dei loro sorrisi segreti, che più volte Hydarnes aveva avuto modo di scorgere – poi si inchinò davanti alla regina e le prese la mano, aiutandola a rialzarsi. “Non hai sbagliato, madre,” le disse nella sua lingua, mentre la regina sollevava lo sguardo su di lui. “Perché anche lui è Aleksandros.”
 
 
 
“Dopo Isso, Aleksandros si rivolse a sud prima di sferrare l’attacco decisivo all’esercito di Darios,” riprende a raccontare Alain, tornando al presente con un sussulto. “Credo che volesse fargli gustare il sapore della sconfitta anche se, nel profondo, forse credeva che solo in Egitto avrebbe avuto le risposte che cercava.”
Antonio, un violino tra le mani, gli fa cenno di continuare. Le sue dita prendono a pizzicare le corde, producendo un suono sottile e armonioso.
Alain sorride al suono dello strumento, poi riprende il suo racconto: “La terra dei faraoni lo accolse come un salvatore, non fu sparsa una goccia di sangue. Aleksandros onorò la loro accoglienza, come faceva sempre di fronte a coloro che gli dimostravano lealtà.” Inclina il volto per seguire il movimento delle dita di Antonio. “Ma era l’oracolo di Ammon quello che davvero gli interessava. L’oracolo che lo proclamò figlio di Zeus.”
 
 
 
Le dune del deserto erano sfiorate dal vento, che portava con sé i profumi umidi dell’oasi. Siwa era un gioiello di verde e di azzurro nella macchia infuocata che la racchiudeva come una perla cresciuta nella sabbia. I compagni di Aleksandros erano schierati all’esterno, in attesa che l’oracolo parlasse.
Quando il Re uscì dal tempio, circondato dai canti dei preti e dal dolce muggito dei buoi attaccati alla barca del sole, i suoi occhi sembrarono accecati dalla luce. Hydarnes non avrebbe saputo dire se quella luce provenisse da lui o fosse attorno a lui, ma seppe per certo di chi era lo sguardo che Aleksandros cercò per primo. Si voltò verso Hephaistion, e vide l’orgoglio e l’amore negli occhi del suo compagno.
Quella notte, sdraiati sotto le stelle dell’oasi, Hydarnes si rivolse al Re come era solito fare con il giovane principe che un tempo era stato.
“Hai avuto le tue risposte, mio Re?”
Le braccia dietro la nuca, gli occhi rivolti alle stelle, Aleksandros si prese alcuni istanti per rispondere. “Che sono la progenie vivente di Ammon-Ra, il figlio di Zeus? Immagino che questo possa spiegare molte cose.”
Hydarnes non ebbe cuore di obiettare che quello non spiegava lui, né tutti quelli come lui. Aleksandros aveva bisogno di credere in qualcosa – di credere che la sua strada fosse segnata dal volere degli Dei, nei quali riponeva tutta la sua fiducia. Ma c’era qualcos’altro, una domanda inespressa che premeva sulle sue labbra, facendole contrarre in una smorfia dolorosa.
“Credi che anche Hephaistion l’abbia ricevuto?” Si voltò verso Hydarnes, gli occhi due pietre chiare che tremavano nel buio. “Il dono dell’immortalità.”
“Non l’hai chiesto ai preti, mio Re?”
Aleksandros scosse la testa. “Voglio sapere cosa ne pensi tu.”
Dunque era questo ciò che l’aveva turbato in tutti quegli anni, rifletté Hydarnes, sentendo il morso della compassione stringergli il cuore. Aleksandros era troppo intelligente per non sapere che i preti gli avrebbero detto qualunque cosa lui avesse voluto sentire. Era da lui che cercava le sue vere risposte.
“Non lo so, mio signore,” rispose in un sussurro. “Non lo so più di quanto non lo sappia tu.”
Il Re sospirò, voltandosi di nuovo a guardare le stelle.
Non dissero più nulla, non ne parlarono mai più. Ma Hydarnes sapeva che quel dubbio lo dilaniava, come l’aquila aveva dilaniato Prometheos, nutrendosi delle sue viscere sparse sulle rocce. L’avrebbe divorato fin quando non avesse avuto la sua risposta, in un modo o nell’altro.
 
 
 
“Hephaistion morì, presumo,” dice Antonio, strappando Alain alle nebbie del ricordo.
L’altro annuisce. “Dopo tredici anni di campagne, dopo aver visto insieme ogni orrore e meraviglia del mondo, Hephaistion si ammalò sulla via del ritorno. Febbre tifoide, o così credo.”
China il busto in avanti, prendendosi la testa tra le mani. “Era giovane, ed era forte. Per un po’ sembrò migliorare. Ci trovavamo a Ecbatana, Aleksandros presenziava ai giochi che aveva indetto per risollevare l’umore delle truppe, fiaccate dalla lunga guerra. Era lì quando giunse la notizia.” Si passa le mani tra i capelli, premendo forte i polpastrelli contro le tempie. “Aleksandros corse come un pazzo al suo capezzale, ma era tardi. Hephaistion era già morto.” Un singhiozzo gli si spezza tra le labbra, subito ricacciato indietro con forza. “Non ho mai visto un tale cordoglio in tutta la mia vita e non voglio vederlo mai più. Giacque sul corpo per un giorno e una notte, forse sperando che il suo amico riaprisse gli occhi. Ma non accadde.”
Antonio smette di pizzicare il violino e lo poggia a terra. Il rumore dello strumento contro il pavimento fa sussultare Alain, che alza lo sguardo umido di lacrime. Le asciuga rapido con la manica del maglione, prima di continuare.
“Aleksandros venne da me, mi porse la sua spada. Mi chiese di prendergli la testa e poi bruciare le sue spoglie. Era convinto che questo sarebbe bastato a dargli la pace. Nei suoi occhi si consumavano la pazzia e la disperazione che alla fine l’avevano raggiunto anche ai confini del mondo.”
“E cos’hai fatto?” domanda Antonio con un filo di voce.
“Non ho potuto accontentarlo.” Anche la voce di Alain è un sussurro. “Era mio amico. Lo amavo, così come amavo Hephaistion. Non gli tolsi la vita, ma forse gli ho negato molto di più. Perché so, Antonio, che la sua anima – il suo sogno, la sua visione, la fiamma che l’aveva alimentato in tutti quegli anni, mentre cambiava il volto del mondo – sono morti quel giorno.”
 
 
 
Aleksandros era immobile davanti all’enorme pira funebre. Gli artigiani avevano lavorato per mesi a quella costruzione colossale e la struttura svettava verso il cielo come un dito infuocato puntato contro gli Dei.
Hydarnes se ne stava in disparte, dietro agli altri compagni; osservava il suo re compiere l’ultimo passo nella spirale della sua pazzia.
La pira era alta più di cento cubiti ed era costata una fortuna, persino per le ricche casse dell’impero.
Sembrava il parto di un incubo, e forse lo era davvero: aquile d’oro con le ali spiegate planavano sopra basilischi di pietra attorcigliati lungo le colonne; gruppi di cacciatori infilzavano lance nel corpo di animali mitologici, mentre una centauromachia si svolgeva crudele, alla base della struttura. E poi statue di leoni e di tori, arcieri e opliti con le sarisse sguainate, meduse ringhianti, elefanti e cavalli a darsi battaglia. E in alto, tra le braccia di sirene dalle labbra dischiuse in un canto, stava Hephaistion, avvolto nelle fiamme.
Aleksandros fissava il corpo che si consumava nel fuoco, ma non sembrava davvero vederlo; i suoi occhi erano velati, lo erano stati fin dal giorno dei giochi, quando si era accasciato sul cadavere immobile del suo amico.
Il suo dolore era apparso eccessivo, persino per un re. Aveva fatto impiccare il medico e raso al suolo i templi di Asklepios, patrono della salute. Le criniere dei cavalli erano state recise e lui si era tagliato i capelli, per poi deporli sulla pira accanto a Hephaistion – come Akhilleus aveva fatto per Patroklos.
Solo pochi giorni prima si era gettato in una spedizione selvaggia nelle terre dei Cossiani, ritornando coperto di sangue e con le teste dei suoi nemici da offrire come sacrificio sul cammino di Hephaistion verso le ombre. E, nel gesto più disperato, aveva inviato un’ambasciata a Siwa, con la richiesta che Hephaistion fosse riconosciuto come eroe divino.
A Hydarnes mancò il respiro. Aleksandros pensava e credeva come un elleno. Voleva essere certo che, se la sua vita fosse terminata, avrebbe potuto rincontrarlo nell’aldilà.
Strinse gli occhi, accecato dal bagliore. Aleksandros era così immobile che sembrava essersi trasformato in una statua. E per un attimo, con gli occhi della mente, Hydarnes fu certo di vedere le sue ali che, in silenzio, si chiudevano per sempre.
 
 
 
“Non potei sopportarlo,” continua Alain, la voce resa incerta dal dolore, “mi sembrava che la mia immortalità fosse un insulto alla memoria di Hephaistion. Così, mentre Aleksandros affogava nel suo cordoglio, me ne andai.”
Antonio scuote la testa, senza parlare. Alain non gli presta attenzione e continua: “vagabondai a lungo, neanche mi ricordo dove. Il mondo non aveva fretta, il tempo non rivestiva alcuna importanza per me. Era più facile sparire a quell’epoca.” Si alza con uno scatto e si avvicina alla sedia su cui ha lasciato cadere l’impermeabile. “Non ricordo quando e dove sentii che Aleksandros era morto. All’inizio non ci credetti. Pensai che qualcuno potesse avergli davvero tagliato la testa, le battaglie erano feroci a quei tempi. Ma poi sentii anche che le cose non erano state così semplici.” Accarezza la stoffa del soprabito, fa per afferrarla ma poi la lascia andare. “C’erano voci di una malattia, di un qualche tipo di veleno. Mi dissero del suo funerale, di quanto il suo corpo fosse sembrato vivo. Del magnifico sarcofago che era stato creato per lui.” Alza il viso. Nella penombra della stanza i suoi occhi scintillano come ferro brunito. “Allora ne fui certo. Fui sicuro che, semplicemente, non aveva voluto più vivere. C’erano modi… erbe… cose che avevo appreso in Egitto e che certamente aveva sentito anche lui. Alcuni faraoni hanno dormito millenni in questo modo; forse per alcuni rende le cose più facili.”
Antonio si alza e raggiunge l’amico. Gli mette una mano sulla spalla. Alain sussulta al contatto.
“Continuai a tenere d’occhio la dinastia di Ptolemaios. Aveva voluto che Aleksandros riposasse in Egitto, forse nella speranza che questo validasse la sua successione al trono dei faraoni,” continua Alain, immobile sotto la presa gentile di Antonio. “Vegliai sulla sua tomba, vidi fondere il sarcofago per ricavarne oro. Vidi Cesare Augusto lasciare i suoi stendardi in omaggio alla sua memoria. E attesi ancora. Forse fin troppo, perché quando finalmente aprirono la tomba, lui se n’era andato.”
Antonio lo stringe più forte vicino al collo. Alain appoggia la mano sulla sua. “Oggi, alla stazione di Bercy, l’ho rivisto. E l’ho perduto ancora una volta.”
“Che cosa hai intenzione di fare?”
Alain alza le spalle. “Che cosa posso fare? L’ho cercato per duemila anni, lo cercherò per altri duemila, se necessario.”
“Non è stata colpa tua,” sussurra Antonio. “Non potevi cambiare il suo destino, nessuno può farlo.”
“Lo so,” risponde Alain, fissando i suoi occhi in quelli del compagno. “Ma c’è qualcosa che devo dirgli. Chiedergli scusa per non aver capito allora.”
“Chiedergli perdono per non avergli preso la testa, quando lui te l’ha chiesto?”
Alain gli rivolge un sorriso, che l’amico ricambia. “Sei perspicace, Stradivari.”
“Se non fossimo amici, non saremmo qui a fare questa conversazione.”
Alain annuisce. “Aleksandros amava profondamente e aveva bisogno di ricevere amore da quelli che lo circondavano. Suppongo che prese il mio diniego come un rifiuto d’amore. Mise fine alla nostra amicizia.” Sospira e sembra barcollare, ma è solo un attimo. “Voglio sapere se sta bene. Sapere se mi ha perdonato. E se ha finalmente trovato la pace e l’amore che cercava.” Fissa Antonio negli occhi, cercando – trovando – la comprensione di cui ha bisogno. Poi sorride, il volto che si ricompone, assumendo le fattezze dell’uomo temprato dai secoli.
Si svincola dalla presa di Antonio e afferra il soprabito, gettandoselo sulle spalle. “È  tardi. Ed è ora che ti lasci in pace.”
“C’è il divano, puoi restare,” suggerisce Antonio, “fa freddo là fuori.”
Alain scuote la testa. Un ultimo sorriso all’indirizzo dell’amico, poi si avvia verso la porta. “Grazie comunque.”
 
È fermo sul Quai des Tournelles, lo sguardo rivolto alle stelle. Non sono così diverse da quelle che ha osservato con Aleksandros, secoli prima. Le stelle non sono mai cambiate e in questo pensiero trova consolazione. Un vento leggero si avvita attorno alle caviglie, smuovendo la coda dell’impermeabile e sollevando la polvere accumulata sulla banchina.
Il vento sembra sussurrare, chiamare il suo nome dai recessi dei millenni. Se solo riuscisse a capire che cosa dice.
Ha smesso di piovere. Hydarnes sorride e si incammina nella chiara e fredda notte di Parigi, ascoltando la voce immortale del vento.
 
 
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Note:
 
I personaggi di questo racconto sono tutte figure storiche realmente esistite. Per i nomi propri ho usato la traslitterazione greca (Alessandro/Aleksandros, Efestione/Hephaistion, Idarne/Hydarnes), in quanto alcuni nomi in antico persiano sarebbero risultati astrusi all'orecchio di un lettore poco abituato.
Le descrizioni della pira funebre di Efestione sono state prese da Diodoro Siculo, così come ho adottato la denominazione di Erodoto per quanto riguarda gli "Immortali" della guardia persiana. Essi, infatti, erano conosciuti in Persia anche come Anusya – compagni.
L’aneddoto della regina di Persia non è inventato, ma è un evento realmente accaduto. Per le fonti storiche, mi sono rifatta alle principali sulla figura di Alessandro: Plutarco, Arriano e Curzio Rufo.
  
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