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Autore: Andromeda Lair    08/09/2015    1 recensioni
A volte la vita fa brutti scherzi, ma le persone tentano di non curarsene.
A volte la morte fa brutti scherzi, e le persone ne pagano le conseguenze.
Se vi fosse data la possibilità di vivere come spettatori, accettereste?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A diciassette anni sono stata coinvolta in un incidente mentre tornavo a casa da scuola. Chi era alla guida dell’auto che mi ha investita era sotto effetto di sostanze stupefacenti. È successo in pieno giorno ed io sono morta sul colpo.
Quando avevo quindici anni avevo avuto pensieri suicidi, ma davvero non credevo che sarei morta così presto, non in quel modo.
Successe però qualcosa di cui avevo solo letto nei romanzi e mai avrei creduto potesse accadere davvero. Sono diventata un fantasma.
Mi svegliai sul ciglio della strada in cui era avvenuto l’incidente due giorni dopo che era successo, sentendomi estremamente confusa e stranamente vuota. Mi resi conto di non avere più un corpo quando un passante mi attraversò senza neanche battere ciglio. Non riuscivo a carpire né il come né il perché. Perché a me? Perché non ero semplicemente morta, come doveva essere? Non credevo che qualche entità sconosciuta e padrona del destino avesse voluto darmi un’altra possibilità. Ero morta, la mia vita era finita, non avevo più nulla da fare in questo mondo.
I miei piedi mi portarono a scuola. Era martedì, c’era lezione e un compito in classe alla prima ora, un compito che io non avrei mai consegnato. Scoprii di poter passare attraverso gli oggetti, era una sensazione strana, come lo era la situazione in cui mi trovavo.
Ebbi sfortuna quel giorno, perché la coordinatrice aveva deciso di annunciare la mia morte alla classe. Non lo disse esplicitamente, a nessuno piace dire che qualcuno “è morto”, io ero stata coinvolta in un incidente e “non ce l’avevo fatta”.
Era strano sentire quelle parole associate al mio nome, era strano perché in teoria io non avrei mai dovuto sentirle. Mi guardai intorno con un misto di tristezza e curiosità, un sapore metallico sulla lingua. Molte facce erano scioccate alla notizia, qualcuno sembrava credere che fosse un scherzo di cattivo gusto, qualcuno cominciò a piangere, consolato da altri che non sapevano neanche come consolare se stessi. Avevo pensato che a nessuno sarebbe davvero importato di me, a quanto pare mi sbagliavo.
Notai quasi per caso che c’era un altro banco vuoto oltre al mio, quello accanto. E seppi improvvisamente che lei sapeva già, che la mia migliore amica sapeva già della mia morte e si era rifugiata nel conforto di casa sua.
A quel punto piansi, richiudendomi su me stessa come un riccio spaventato e rannicchiandomi in un angolo. Nessuno mi avrebbe vista, nessuno mi avrebbe sentita. Io non esistevo più, eppure ero stata condannata a vedere quella che dovrebbe essere stata la mia vita andare avanti senza di me. Non avrei più salutato nessuna di quelle persone, non sarei più salita su un autobus pieno di gente, non avrei più corso fino ad avere il fiato mozzo, non avrei più cantato. Anche in quel momento stavo piangendo, ma non avevo occhi per produrre lacrime né polmoni o gola per singhiozzare. Eppure sembrava così reale, come se da un momento all’altro qualcuno avesse potuto alzarsi e chiedermi cosa c’era che non andava. Non avevo bisogno di respirare, ma era come se l’aria che inspiravo fosse piombo liquido, come se il sangue che non mi scorreva più nelle vene fosse stato sostituito da acido. Era tutto così reale.
Mi sembrava che una qualche creatura mostruosa avesse deciso di artigliarmi il cuore, mentre lentamente realizzavo cosa significava davvero essere morta ed essere un fantasma. Avrei potuto anche prendere parte alla vita che mi sarebbe spettata, ma sarei stata una partecipante abusiva Di tutte le vite che avrei visto, nessuna sarebbe stata la mia. Io non avevo più diritto ad una vita e, realizzandolo, avrei preferito morire senza dover vedere o provare niente di tutto questo.
Rimasi lì per non so quante ore e quando alzai lo sguardo se ne erano andati tutti. Ricominciai a piangere pensando che non avrei mai più rimesso piede in quella classe.
L’unico posto in cui pensai di andare fu casa sua, la casa della mia migliore amica. Sapevo che l’avrei trovata lì e sapevo anche che avrei sofferto ancora di più vedendola e non potendole dire assolutamente niente.
Quando varcai la soglia di casa mi accorsi che non c’era nessuno e, arrivata alla porta di camera sua, la sentii singhiozzare. L’avevo vista piangere solo una volta e sentire di nuovo quel suono mi spezzava il cuore. Il fatto che fosse la mia morte a portarle tanto dolore mi faceva stare male, mi dava la nausea. Non sarebbe dovuta andare così, perché ci eravamo promesse di passare la vita insieme. Ognuna di noi aveva trovato nell’altra qualcuno a cui potersi sempre affidare, e adesso lei non aveva nessuno. L’avevo lasciata sola ed era una cosa che non mi potevo perdonare.
Mi avvicinai con passo felpato al suo letto, dove lei era sdraiata con la faccia sepolta nel cuscino, non so neanche io bene per quale motivo. Ero un fantasma, non mi avrebbe sentita comunque. Mi inginocchia vicino a lei e a vederla così disperata mi sentii come se tutto il mio corpo facesse male. Ma, pensandoci bene, la sua sembrava una reazione ragionevole, io avrei fatto probabilmente lo stesso. Comincia di nuovo a piangere, perché non avrei mai voluto vederla così, avevo promesso che non le avrei mai fatto del male.
Piansi in silenzio lacrime che per un attimo mi ero illusa di aver finito. Quello che stavo vivendo in quel momento era troppo surreale per essere vero. Ogni volta che alzavo gli occhi su di lei e la vedevo disperata e scossa dai singhiozzi, una scarica di dolore mi attraversava e distoglievo lo sguardo.
Non so quanto tempo fosse passato, ma ad un certo punto il desiderio di poterla consolare divenne soverchiante. Allungai una mano, come per scostarle dalla faccia i capelli corti e sussurrai le uniche parole che mi vennero in mente.
“Non piangere, sono qui.”
Si mosse, come se mi avesse davvero sentita e i nostri occhi si incontrarono. I suoi erano dello stesso marrone scuro che ricordavo, ma erano rossi di pianto. Sorrisi tristemente, perché sapevo che non mi avrebbe mai vista né sentita. Non più.
I suoi occhi si fecero improvvisamente grandi di stupore e le lacrime smisero immediatamente di scorrere. Mi guardava, il fiato ancora corto a causa del pianto. Aprì e chiuse la bocca un paio di volte come a voler dire qualcosa, ma nessun suono sfuggiva alle sue labbra. Non avevo idea di cosa stesse succedendo.
Bastò una parola, detta in un soffio e con voce un po’ rauca, per farmi capire.
“Samantha…”
Un sorriso grato le si fece strada sulla faccia e le lacrime ricominciarono a bagnarle le guance, ma erano lacrime di gioia. Dire che ero stupita sarebbe stato un eufemismo: avevo pensato che la mia esistenza fosse stata completamente cancellata da questo mondo e scoprire che la persona a cui tenevo di più era in grado di vedermi e sentire la mia voce mi riempiva il cuore di una gioia indescrivibile.
Si portò le mani alla bocca, tentando di reprimere i singhiozzi.
“Ommioddio… sei-sei viva!” esclamò.
A quelle parole la tristezza di prima riprese il suo posto. Credeva che fossi viva quando invece ero diventata un fantasma. Per un attimo soltanto pensai di nasconderle la verità, ma poi mi convinsi a parlare. Se lo meritava, almeno quello.
“No. Mi… mi dispiace Alex” mormorai con la testa china. Fu come se vedessi la felicità letteralmente scivolarle via di dosso e la tristezza e la più completa confusione prenderne il posto.
“Ma allora cosa… cioè tu…” balbettò. Era in difficoltà, e si vedeva, ma era normale data la situazione. Allora cominciai a spiegarle.
“Io… io credo di essere diventata un fantasma, Alex. Mi sono ritrovata stamattina sul ciglio della strada e non sapevo cosa… cosa fosse successo e poi sono andata a scuola e-“ mi si spezzò la voce mentre ricominciavo a piangere. “Hanno detto che ero morta e non ci credevo e poi non ti ho vista e… e… e sono venuta qui. Io… Mi dispiace Alex, mi dispiace così tanto.” Quando avevo finito tremavo.
Ci guardammo per un attimo e, senza pensarci due volte, l’abbracciai. Sorprendentemente potevo toccarla, come lei poteva toccare me. Non ci capivo più niente.
“Sam, perché?” disse con voce flebile dopo un tempo interminabile. Perché cosa? Perché ero morta? Perché poteva vedermi, sentirmi, toccarmi? Perché solo lei? Non avrei saputo rispondere a nessuna di quelle domande.
Scossi la testa sulla sua spalla, senza lasciarla andare. “Non ne ho idea, Alex, questa è roba che di solito si legge nei libri. Non so perché sono qui, né perché sia toccato a te.” Presi un respiro profondo e le dissi quello di cui avevo paura. “Posso parlare solo con te, per il resto del mondo io non esisto più. Non so per quanto tempo mi sarà concessa questa “seconda vita”, potrei scomparire domani, come potrei tra un mese o un anno.”
A quelle parole la sentii esalare un respiro tremolante, perché se fosse successo quello che temevo, sapevo che sarebbe stata ancora peggio. A perdere due volte la stessa persona c’è da impazzire.
“Non voglio perderti di nuovo, Sam. Resta con me, ti prego” disse in un sussurro strozzato, stringendomi più forte a sé.
“Sempre.”
Rimanemmo lì ferme per quella che sembrò un’eternità, mentre pensavo a quanto fosse strana quest’intera situazione. Era frustrante non sapere niente.
Alex mi spiegò che aveva telefonato a casa perché non rispondevo al cellulare e che i miei le avevano detto cos’era successo. In quel momento non avevo il coraggio di guardare in faccia i miei genitori, per un giorno solo avevo già sofferto abbastanza. E poi, la presenza di Alex mi rassicurava e mi rendeva un po’ meno triste. Sembrava tutto come prima, se non contavo il fatto che da quel giorno cominciai a vivere con lei.
I primi giorni furono surreali e ad entrambe veniva da piangere ogni volta che ci sfioravamo o guardavamo negli occhi, ma passarono in una calma quasi viscosa, con lei che andava a scuola ed io che ero troppo codarda per rimetterci piede. Avevo paura di risentire quel dolore lancinante che mi aveva assalita la prima volta.
Esattamente una settimana dopo l’incidente ci fu il funerale, una spiacevole interruzione del sogno che stavamo entrambe vivendo.
“Non devi venire per forza se non vuoi” mi disse Alex con un sospiro e la voce monotona mentre si sistemava il copri spalle nero. Il vestito che indossava le stava benissimo e glielo avevo visto addosso soltanto una volta, per una festa, ed ora lo avrebbe indossato al mio funerale. L’ironia beffarda della sorte.
Scossi soltanto la testa in segno di risposta, non ero in vena di chiacchiere. Era strano sentirla parlare con me del mio funerale perché di solito non succede. Ma chi sto prendendo in giro, non dovrebbe mai succedere che un morto senta parlare del proprio funerale ed abbia la possibilità di assistervi.
Ero stressata e nervosa. Cosa mi sarei dovuta aspettare? Era il mio funerale e pensarci mi faceva correre i brividi giù per la schiena.
Il viaggio in auto con i genitori di Alex fu silenzioso, nessuno voleva parlare perché in quelle situazioni le parole non hanno significato.
Arrivati là mi aspettavo che ci fossero pochissime persone, invece mi sorpresi a constatare che la folla era piuttosto nutrita: compagni, professori, alcune conoscenze, parenti vicini e lontani.
Poi vidi i miei genitori e mi si strinse il cuore. Mio padre, che di solito era così allegro e solare, non sorrideva più e sembrava invecchiato di anni. Mia madre però era in condizioni persino peggiori. Le occhiaie sotto i suoi occhi erano evidenti, come lo erano le scie delle lacrime che non aveva smesso di versare. Ai miei occhi sembrava una bambina spaventata ed ebbi un moto di paura. Non avrei mai pensato di vedere mia madre così fragile e vulnerabile, come se si potesse spezzare da un momento all’altro.
Non ascoltai una parola di quello che venne detto dal prete, riuscivo solo a fissare la bara e la buca nel terreno in cui sarebbe stata calata alla fine della cerimonia. Il mio corpo sarebbe stato seppellito lì sotto e sarebbe diventato ossa e in seguito polvere, mentre la mia esistenza veniva lentamente cancellata, ed io sarei stata ancora cosciente per assistere a quel processo.
Guardai per un attimo Alex, che era seduta accanto a sua madre e si guardava le punte delle scarpe. Potevo solo immaginare quanto stesse soffrendo in quel momento, sapendomi morta e allo stesso tempo ancora viva intorno a lei, con la sottile e costante paura di vedermi sparire da un secondo all’altro.
Per un attimo l’istinto prese il sopravvento sulla ragione e camminai verso il mio cadavere, vestito e truccato a festa e con gli occhi chiusi per sempre. Studiai quello che sapevo essere il mio volto e per la prima volta lo trovai bello. Sembrava quasi che stessi dormendo il sonno profondo e pacifico dei bambini.
Le gambe mi cedettero e caddi in ginocchio vicino alla bara. Ero una ragazzina, non sarei dovuta morire così, non così presto. Avevo sempre sognato di laurearmi, di viaggiare, di avere dei bambini un giorno, di sposarmi e di arrivare ad essere nonna ad una veneranda età, circondata da nipotini. Ma il filo della mia vita era stato reciso in modo brutale, senza lasciarmi alcuna via di scampo, se non la possibilità di vivere nelle spoglie di quello che sarebbe dovuto essere.
Ritenevo ciò che mi era capitato una cosa crudele, perché avevo lasciato tutto quello che avevo e adesso non potevo più farne parte, solo osservarlo da lontano. Avrei rivisto i miei genitori, ma non li avrei mai più abbracciati, avrei assistito alle lezioni, ma non mi sarebbe stato concesso fare domande, avrei partecipato alle feste, ma non avrei mai parlato con nessuno. Avrei dormito nel mio letto, ma sarebbe sempre stato come appena rifatto.
Quando ritrovai la forza per alzarmi vidi che la cerimonia era finita e pochi avevano intenzione di rimanere mentre la bara veniva calata e la buca ricoperta. Con passo strascicato mi fermai dietro ad Alex, che era in piedi e osservava la scena. Fu in quel momento che sentii qualcosa spezzarsi definitivamente e crollai. Mi aggrappai alla stoffa del suo vestito, posandole la testa sulla schiena e singhiozzando. Lei tremava, e poco dopo sentii i suoi singhiozzi riverberare attraverso la sua cassa toracica, facendoli assomigliare a terremoti. In mezzo al dolore lacerante per aver perso la vita tentavo freneticamente di trovare delle risposte, scossa dai singhiozzi e urlando al cielo una silenziosa preghiera per una ragione.
Dopo quel giorno la vita fu scandita da uno strano ritmo. Vivevo con Alex e parlavo con lei tutte le mattine, ogni tanto studiavo sui suoi libri e la aiutavo con i compiti in classe come solo un fantasma può fare, a volte andavo persino a scuola con lei. Partecipavo alla sua vita chiedendomi come sarebbe stata la mia.
La vidi gradualmente ritornare a sorridere, finalmente felice, anche se mi confessò che la mia morte le aveva strappato via un pezzo di cuore e la paura di perdermi di nuovo minacciava di portargliene via un altro. E anche io, se pur felice di stare con lei, avevo paura di scomparire, perché se fosse successo avrei smesso davvero di esistere, una volta per tutte. L’oblio a cui sarei andata incontro mi spaventava.
C’erano giorni felici e giorni tristi, poi c’erano i giorni in cui andavo a visitare i miei genitori. Alex sapeva dove andavo e non faceva domande. Non facevo molto, rimanevo a guardarli mentre andavano avanti senza di me e tentavano di ricostruire la vita che gli era crollata addosso con la mia morte. Mio padre continuava a lavorare e mia madre si ostinava a tenere in ordine la mia camera. Mi faceva tenerezza e tutte le parole del mondo non sarebbero bastate per scusarmi con lei, perché sapevo che la ferita che le avevo inflitto non si sarebbe rimarginata. A volte, quando ero seduta accanto a lei, sembrava che percepisse la mia presenza ed era doloroso sapere che, per quanto gridassi, non avrebbe mai più sentito la mia voce.
Ogni tanto si soffermava a guardare una mia foto o prendeva in mano il mio cellulare e leggeva le nostre conversazioni oppure ascoltava le memo vocali che avevo salvato e i suoi occhi si velavano di quella tristezza propria solo di chi ha perso qualcosa che non potrà mai riavere indietro. Eppure non piangeva quasi mai, come se avesse finito le lacrime da versare, come se neanche quelle ormai potessero esprimere appieno il dolore che provava.
Certe volte rimasi tutta la notte ai piedi del letto dei miei genitori ad osservarli mentre dormivano abbracciati, consolandosi a vicenda anche nel sonno. Quelle erano le notti in cui piangevo e quando tornavo da Alex lei mi abbracciava senza dire una parola.
Il tempo passava e i giorni si tramutarono in settimane, poi in mesi e in anni. Alex aveva finito il liceo ed era andata in vacanza a Parigi con il suo fidanzato dell’epoca. Non avrei voluto intromettermi, ma seguirla era l’unica cosa che potessi fare.
Nel novembre di quell’anno si iscrisse alla facoltà di ingegneria, ma il suo ragazzo la lasciò il febbraio seguente. Fui lì a consolarla come quando eravamo più piccole e si sentiva di non poter essere amata.
La guardavo crescere e diventare una donna, chiedendomi come ci si sentiva ad essere preda dell’amore. Io non avevo avuto tempo di sperimentarlo, ma sembrava un sentimento euforico ed effervescente, allo stesso tempo pesante e difficile da gestire. Sembrava bello.
Poi, durante il secondo anno di università, quando Alex aveva smesso di cercare il suo principe azzurro, mi innamorai. Non sapevo come fosse successo, non lo credevo neanche possibile ormai, ma quegli occhi verdi mi avevano catturata e non intendevano lasciarmi andare.
A stregarmi così era stata una ragazza che era in algebra uno con Alex e aveva origini greche e la pelle olivastra. Si chiamava Maria.
Con mia grande sorpresa lei ed Alex divennero amiche e quando rivelai la mia infatuazione alla mia migliore amica lei ne fu felice e triste allo stesso tempo, come lo ero stata io. Non sarebbe mai successo niente tra noi perché io non esistevo e non avrei mai potuto sfiorarla o parlarle. Era una sensazione piuttosto agrodolce, ma niente mi impediva di continuare ad amarla in silenzio.
Un giorno Alex glielo disse. “Sai, saresti piaciuta tantissimo alla mia migliore amica” e Maria sorrise, senza fare ulteriori domande sul verbo al passato. Alex aveva usato il verbo al passato perché quello ero, passato, io ero soltanto un ricordo.
Al quarto anno Alex era ancora amica di Maria e incontrò finalmente il suo tanto atteso cavaliere in armatura scintillante, Michael. Era un ragazzo alto, con i capelli biondi e gli occhi del colore delle violette ed era innamorato pazzo di Alex.
Seguii la loro storia con interesse per capire se stavolta fosse quella buona. Alex aveva avuto il cuore spezzato troppe volte perché accadesse di nuovo. Ma fortunatamente non ci furono intoppi e vidi un nuovo tipo di felicità prendere dimora sul volto di Alex.
Per quanto riguarda Maria anche lei trovò la sua dolce metà, non in un cavaliere ma in Heather, una principessa dagli occhi nocciola e i capelli castani. Mi rassegnai, non senza lacrime, ad aver perso il diritto di amarla. Pretendere che non avesse relazioni per tutta la vita era assurdo da parte mia, ma mi ritrovai ad essere invidiosa di Heather, invidiosa della vita che ancora aveva a disposizione. Se fossi stata in vita, forse avrei avuto una possibilità con Maria. Quando finì l’università Alex perse i contatti con lei ed io persi l’amore della mia vita.
In quel periodo, quando i giovani adulti si ritrovano nella frenesia dell’avvenire, io realizzavo che c’erano moltissime cose che non avevo fatto. Ed Alex si offrì di farmi girare il mondo assieme a lei. Accettai con gioia, accompagnata dalla sottile e ancora presente paura di dovermene andare.
Viaggiammo per parecchio tempo, fianco a fianco per paesi che avevamo visto solo in televisione o al cinema. Il mondo era così bello ed io ne avevo una nostalgia mortale. Avevo nostalgia del vento che scompiglia i capelli, della pioggia che inzuppa i vestiti, del calore del sole sulla pelle, della sensazione della sabbia sotto i piedi. Mi mancavano così tante cose perché, realizzai, mi mancava la vita.
La osservavo e in un modo strano e complicato ne facevo parte, ma rimanevo pur sempre una spettatrice statica.
Intanto l’orologio continuava a ticchettare, anche se per me era difficile averne la cognizione. Vedevo Alex crescere e vedevo il tempo passare e lasciare segni sulla sua pelle, ma io rimanevo immutabile, con ancora l’aspetto della diciassettenne che ero stata. Entrambe avevamo paura che il mio tempo sarebbe scaduto presto.
Quelli furono gli anni in cui lei trovò un lavoro e decise di sistemarsi. Feci in tempo a vederla diventare la signora Carson, bella da mozzare il fiato nel suo abito bianco e col velo a celarle il volto. Fui con lei anche durante la sua prima gravidanza, aiutandola in tutti quei piccoli invisibili modi di cui solo io ero capace. E intanto parlavamo e stavamo insieme come se non fosse passato neanche un giorno dai nostri anni da liceali.
Rimasi con lei in sala parto, tenendole la mano e sussurrandole parole che non ero neanche sicura sentisse in mezzo al dolore e all’adrenalina. Fu indescrivibile la gioia e il sollievo che provai quando sentii la piccola prendere il primo respiro. Improvvisamente fui invasa dalla consapevolezza che finché Alex fosse stata in vita io sarei rimasta in questo mondo.
Spinsi per un attimo il pensiero in un posto recondito della mia testa e precedetti la dottoressa nel mio annuncio.
“È una bellissima femminuccia, Alex” e lei sorrise, quel sorriso che aveva assunto così tanti significati diventato quello di una mamma.
Quando la prese in braccio si guardarono e stabilirono un legame che sapevo sarebbe durato per sempre. Poi Alex guardò me, come se sapessi che morivo dalla voglia di avvicinarmi a quella nuova vita. Era così piccola e fragile che anche il gesto di toccarle il palmo della manina mi rendeva nervosa.
Quando la sfiorai la bimba strinse le sue piccole dita paffute attorno al mio ed io iniziai a tremare perché nessuno era più riuscito a toccarmi tranne Alex. Si mosse appena e quando i suoi occhioni grigi incontrarono i miei una scarica elettrica mi corse lungo la schiena. Sapevo per certo che poteva vedermi.
La voce di Alex mi riscosse dallo stato di meraviglia in cui ero entrata.
“Samantha” disse. “Voglio chiamarla Samantha.”
La guardai, certa di aver sentito male. Lei ricambiò lo sguardo con occhi stanchi ma felici. “Voglio che si chiami come te.”
Non seppi mai cosa rispondere, ma le lacrime che mi solcarono le guance e il sorriso grato sul mio volto furono abbastanza per farle capire.
Passò un po’ di tempo e la vita era diventata frenetica, con Samantha da accudire, il lavoro e l’idea di comprare una casa, ma andava tutto a gonfie vele.
Un anno dopo Alex ebbe un altro figlio, un maschio, che chiamò Gabriel. Anche lui riusciva a vedermi, sentirmi e toccarmi e non era raro che sua madre mi lasciasse giocare con lui e sua sorella.
Intanto Michael aveva comprato una bellissima casa in uno dei quartieri più belli della città, vicina al centro ma non troppo e con un bel parco non molto lontano. Si trasferirono lì a maggio, giusto per godersi l’aria di primavera.
Da quel giorno fu come essere in una corsa contro il tempo, ma avendo ancora tutta la vita davanti.
Samantha e Gabriel crescevano fin troppo velocemente per i nostri gusti, ma era bello sapere che erano forti e sani. Quando Michael non era a casa per lavoro Alex mi faceva giocare con loro in giardino. Poi, quando si stancavano, io mi mettevo seduta sul prato accanto a lei, che di solito osservava la scena da sotto la quercia che avevamo in giardino. E le notti in cui l’altra metà del letto era vuota io le facevo compagnia, a volte stavamo a parlare fino alle prime luci dell’alba.
Quando compirono quattro anni i bambini smisero di vedermi, ma sembrava che ancora sapessero che ero lì con loro. Continuai ad aiutare i loro genitori ad accudirli, perché ormai li vedevo come i miei figli.
Tutti quegli anni furono un periodo felice anche per me, anche se avevo dei momenti in cui quella nostalgia e mancanza di quando Alex era giovane tornavano a perseguitarmi.
C’erano delle notti in cui mi ritrovavo rannicchiata vicino alla porta della camera padronale a guardare senza scopo il soffitto bianco, mentre sentivo Alex e Michael fare l’amore. Stavo vivendo un surrogato della vita che avrei dovuto avere e spesso me ne dimenticavo volontariamente.
Non avevo avuto la possibilità di fare cose come fare l’amore e non mi sarebbe mai più stato concesso. Io ero una reliquia del passato che viveva nella memoria e nella vita di una sola persona. Eppure lei sembrava non farci caso e mi voleva ancora bene.
Alcune volte, quando avevo quei momenti, andavo a dormire nella camera dei bambini, era rassicurante sentire i loro piccoli respiri mentre dormivano un sonno pacifico che io non potevo più avere.
Da lì fu una routine continua che durò per anni. Ci furono solo quattro avvenimenti a spezzarla. I funerali dei nostri genitori.
Il primo ad andarsene fu il padre di Alex, a causa di un infarto, poi fu il turno di sua madre, pochi mesi dopo. Erano anziani, ma morirono relativamente presto.
Fu un brutto colpo per entrambe, soprattutto per Alex, del resto erano i suoi genitori. Io avevo imparato a conoscerli negli anni in cui avevo abitato nella loro casa in centro e sentii la loro mancanza per molto tempo.
Meno traumatici furono i funerali dei miei, che se ne erano andati mentre dormivano abbracciati. Non so perché, ma penso che ogni figlio dia per scontata la presenza dei propri genitori. Perderli fu brutto, ma sapevo che per loro era stato peggio perdere me.
Ci consolammo per molte notti, abbracciate o semplicemente vicine, trovando conforto solamente l’una nella presenza dell’altra. Eravamo insieme da quasi una vita e non c’era nessuno che mi conoscesse come lei o viceversa. Era una sensazione strana quella di essere disposti a dare qualsiasi parte di te ad una persona, ma con lei sapevo che la mia fiducia era ben riposta.
Gli anni passarono di nuovo ed io la vidi cambiare di giorno in giorno, vidi i bambini crescere. Fui con loro il primo giorno di scuola e tentai di dare ad entrambi una mano quando mi fu possibile. Ero contenta che la loro fosse una vita felice.
Quando arrivò il momento di smettere di chiamarli bambini mi sembrò di vivere un’altra volta: il terrore del primo anno di liceo, le prime cotte, le occasionali litigate coi genitori, le scappatelle notturne.  Non avevo mai immaginato che la vita potesse riavvolgersi su se stessa in quel modo e mi sorpresi a pensare che, se me ne fossi andata in quel momento, non avrei avuto paura.
Entrambi diventavano più belli man mano che il tempo passava e guardando Samantha rivedevo me stessa diciassettenne. Come si comportava, come parlava, come esprimeva le sue emozioni, ogni volta la sua immagine si sovrapponeva a quella che avevo di me stessa.
Quando il “mondo degli adulti” si presentò alla loro porta nessuno dei due ebbe un momento di esitazione: Sam era una ragazza brillante e ricevette più di un’offerta per lavorare come giornalista. I suoi articoli erano i più belli che io avessi mai letto in un giornale.
Gabriel, che era più furbo e aveva un pizzico di malizia in più nei suoi modi di fare, decise di aprire un ristorante in centro, offrendo piatti squisiti di sua invenzione.
Era bello vederli crescere e costruirsi una vita e capivo l’orgoglio che provano i genitori nei confronti dei figli quando diventano indipendenti.
Intanto io continuavo a fare compagnia ad Alex ed ad aiutarla nei modi in cui mi era possibile. Mi sorprendevo che ancora riuscisse a sopportarmi dopo tutti quegl’anni e una volta glielo dissi.
“Quando eravamo giovani ci eravamo promesse di passare la vita insieme, e lo stiamo facendo. Perché dovrei lamentarmi?” mi disse con un sorriso gentile e gli occhi un po’ velati.
La osservai e vidi come il tempo l’aveva segnata, un paio di solchetti vicino alle labbra, la pelle che cominciava a cedere e le mani, quelle mani che da ragazza avevo amato tanto, che cominciavano ad assomigliare a quelle di un’anziana signora. E mentre il tempo per lei correva inesorabile io rimanevo la stessa, immutabile nel tempo come una fotografia scattata al momento giusto.
Ero profondamente legata ad Alex, così tanto che non lo credevo possibile, fino al punto in cui la mia vita dipendeva da lei. È stata indubbiamente la persona più importante della mia vita ed era tutto per me. Non sono sicura se fosse lo stesso per lei, lei aveva una vita al di fuori di me, io no. Ma l’ho amata più di ogni altra cosa al mondo, più di un’amica, più di una sorella, più di un amante, più della vita stessa. Perché lei era stata abbastanza gentile da farmi prendere in prestito la sua esistenza e il suo tempo in questo mondo.
Le lancette dell’orologio ripresero a camminare monotone fino al giorno in cui venne per Alex il momento di andarsene. Non era plagiata dalla malattia, né stava male per qualsiasi altro motivo, ma era arrivato il momento. Aveva vissuto una vita piena di emozioni e sapevo che non avrebbe cambiato un secondo di quello che era accaduto, per quanto strano, bello o doloroso fosse.
Io ero accanto a lei, in piedi vicino al suo letto, mentre Gabriel e Samantha erano seduti dall’altra parte. Michael se ne era andato due anni prima.
La stanza era silenziosa, riempita solo dal suono dei respiri. Guardai Gabriel, che aveva gli occhi bassi e le lacrime sul bordo delle palpebre, poi Samantha, che singhiozzava piano per non farsi sentire da sua madre. Volevo osservarli un’ultima volta, imprimere i loro volti nella mia memoria, perché sapevo che non li avrei mai più rivisti dopo quel giorno. Erano ormai adulti e confrontandoli con l’immagine che avevo di loro da bambini mi accorsi di quanto il tempo passi in fetta.
Guardai Alex che era distesa e respirava piano, ad occhi chiusi e sapevo che mancava poco. Non stava soffrendo ed era una cosa che mi dava sollievo, se ne sarebbe andata in silenzio e con discrezione, come aveva sempre fatto ogni cosa.
Aprì gli occhi, quegli occhi marroni che avevano la stessa luce di quando era ragazza, e guardò i suoi figli con tenerezza e nostalgia. Parlò per poco con loro, dicendogli di non essere tristi, che era la vita, mentre loro piangevano. Sfiorò i visi di entrambi per l’ultima volta.
Poi si voltò verso di me ed io le presi la mano. “Sei pronta?”
Annuì piano e mi mostrò quel sorriso luminoso che mi aveva accompagnata per tutta la vita. Sorrisi di rimando e seppi che ero pronta a passare un’eternità con lei.
  
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