Capitolo 20
Nelle catene dell’amore
“Oh carne, carne
mia, donna che amai e persi,
te, in quest’ora
umida, evoco e canto.
Come una coppa
albergasti l’infinita tenerezza,
e l’infinito
oblio t’infranse come una coppa.
Era la nera,
nera solitudine delle isole,
e lì, donna
d’amore, mi accolsero le tue braccia.
Era la sete e la
fame, e tu fosti la frutta.
Erano il dolore
e le rovine, e tu fosti il miracolo.
Ah donna, non so
come hai potuto contenermi
nella terra
della tua anima, nella croce delle tue braccia!”
Pablo Neruda
Berlino ovest, 9
novembre 1950
La
casa era un completo disastro. Ad accogliere il ritorno di Werner dal lavoro
non erano più il bacio di sua moglie e l’abbraccio di suo figlio ma, ormai da
un mese, era la gigantesca e angosciante confusione di piatti e vestiti sporchi
da lavare. Lo scompiglio della casa rispecchiava perfettamente quello dei suoi
pensieri. Werner si fece un po’ di spazio tra il mucchio di fogli e indumenti
sparsi sul divano e vi si accasciò, esalando un profondo sospiro. Strofinò gli
occhi umidi, arrossati, stanchi per la notte di lavoro in ospedale e le tante
altre notti trascorse insonni a piangere le ceneri del suo matrimonio. Pensava
a Nadine, ai suoi occhi gonfi di rabbia e delusione, alle sue parole infuocate
e alle proprie ancor più crudeli, al suo brutale distacco. Non riusciva a
rassegnarsi all’idea che cinque anni d’amore fossero stati distrutti in un
attimo di follia e che lui per primo ne fosse il carnefice. Conosceva benissimo
la fedeltà di sua moglie ma l’aveva ugualmente incolpata di tradimento,
accecato dal buio della paura – la stessa che gli aveva impedito di raccontarle
la verità su Kurt. Werner era sempre stato geloso di Kurt. A differenza sua,
lui non aveva permesso all’ombra del nazismo di trascinarlo con sé nel buio
dell’ingiustizia ma l’aveva combattuta, sacrificando la propria vita per amore
di Nadine. Non aveva speso gli anni della propria giovinezza per la rovina
degli altri né tantomeno aveva fatto carriera, arricchendosi sempre di più con
il loro sangue. Ma si era schierato dalla parte dell’umanità assurdamente e
atrocemente perseguitata, rinunciando a tutto ciò che era e che aveva. A
differenza del suo, quello di Kurt non era certo un passato orribile di cui
vergognarsi, un passato da nascondere ai propri figli, un passato da
dimenticare. Le parole di Nadine avevano aperto nel suo cuore un’enorme
voragine nelle cui profondità Werner era crollato, schiantandosi nella verità
del suo passato. Era stato colpito, trafitto, distrutto senza pietà dalla stessa
donna che un tempo con dolcezza lo aveva salvato dall’incubo “Günther”. Quella donna, quella dolcezza, quella compassione erano
scomparse e, lontano dall’amore che Nadine gli aveva strappato portandosi via
anche suo figlio, i fantasmi del suo passato ritornavano a tormentarlo
ricordandogli chi era stato e cosa aveva fatto lui, il dottor Werner Günther,
negli anni del nazismo. La sua sposa, la donna che amava, colei che gli aveva
cambiato la vita lo aveva anche rigettato nell’inferno dei sensi di colpa, nel
buio della solitudine e della tristezza, nel fango della disperazione. Werner
esalò un altro profondo sospiro e iniziò a sudare freddo. Il suo cuore ferito non
aveva smesso di sanguinare. Allentò il nodo della cravatta e, tremando
spasmodicamente, sbottonò il colletto della camicia. Il laccio delle sue paure
gli stringeva la gola come una morsa di ferro. Si sfilò la giacca e si sdraiò
sulla confusione del divano. La sua mente ingarbugliata cercava riposo nei
ricordi di un amore bello, immenso, forte che aveva vinto i postumi della
guerra superando gli ostacoli della malattia, delle rovine, della fame, dei
pregiudizi e aprendosi al miracolo dell’adozione. Chiuse gli occhi e smise di
tremare. I suoi pensieri si erano fermati all’attimo eterno di quel bacio nel
rosso del tramonto, tra le carezze del vento, sulla riva del lago, con la
speranza e i sogni nel cuore traboccante d’amore. E, ad un tratto, qualcosa
simile ad un sorriso apparve sulle labbra di Werner.
Città di
Fürstenberg/Havel
Un
gemito di dolore accompagnò il risveglio di Kurt: con un crack la sua schiena
si ribellava alle troppe notti trascorse a dormire, o meglio, a cercare di
dormire sul divano, scomodo, freddo. Kurt si svegliò già stanco e la colpa non
era soltanto della posizione sbagliata. Una battaglia interiore, infatti, lo
tormentava riducendolo ogni notte allo stremo. Si mise a sedere e,
stiracchiandosi un po’, rivolse lo sguardo alla porta d’ingresso. Quante volte
avrebbe voluto aprirla, buttare tutto all’aria, lasciarsi alle spalle la
brutale indifferenza di sua moglie ma ogni volta, puntualmente, si trovava ad
incrociare gli occhi amorevoli della sua bambina e il coraggio andava via. Era
ormai da un mese che Engel aveva smesso di parlargli – le uniche parole che gli
rivolgeva riguardavano la piccola Brigit –, di dormire insieme a lui, di farsi
toccare da lui. E così lo puniva per un qualcosa che con Nadine non aveva mai
fatto ma che, se scavava in profondità nelle sue viscere, avrebbe voluto. Il
silenzio di sua moglie lo costringeva a guardare dentro di sé e a combattere le
proprie contraddizioni. Il ricordo di Nadine occupava un posto importante nella
sua vita e si sentiva attratto dalla donna che aveva ritrovato dopo dieci anni.
Ma, allo stesso tempo, desiderava fortemente la sua Engel e si sentiva legato a
tutto ciò che il loro amore aveva costruito in quegli anni. Mai avrebbe potuto
scappare dalle sue responsabilità, tradire la promessa fatta al signor Franz,
abbandonare sua figlia, fare del male a sua moglie e si tormentava pensando a
quanto fosse poco l’amore che riusciva a darle. Per quanto potesse sforzare il
suo cuore, Kurt non riusciva ad amare in pienezza Engel, colei che – prima di
essere sua moglie – era stata il miracolo sulla sua morte, la cura per le sue
ferite, la forza nella sua disperazione, la speranza che asciugava le sue
lacrime, la pace sulla sua guerra, il suo tutto in un mondo che non aveva più
niente da offrirgli. La testa diventava sempre più pesante e le gambe, come
paralizzate, gli impedivano di rialzarsi. Di nuovo, si abbandonò sul divano e
s’infilò sotto la coperta mettendosi in posizione fetale. Era di nuovo solo
Kurt. Solo tra le braccia della sua tristezza, a contare i lividi dei suoi
errori, a raccogliere le lacrime dei suoi fallimenti, a soffocare i fantasmi
dei suoi limiti e delle sue debolezze. Perché non c’era mai fine al tormento
della sua sofferenza?
Lago
di Schlachtensee, 10 novembre 1950
In cinque anni, tante cose erano cambiate: le
strade, i negozi, le case, i parchi … lui stesso era cambiato, eccetto quello
squarcio di mondo immerso nella natura. Il lago Schlachtensee rimaneva sempre
lo stesso, teatro e spettatore dell’esplosione di un amore che pure era
cambiato perdendo la bellezza della sua speranza e della sua spensieratezza
nelle ferite dell’inganno e dell’amarezza. Senza farsi troppe domande, Werner
si era fidato della voce del suo cuore che lo guidava nel silenzio della
foresta in una fredda mattina di autunno. I suoi occhi, umidi di lacrime e di
stanchezza, videro da lontano una figura di donna con indosso un cappotto rosso
e una corda del suo cuore vibrò. Un palpito di gioia risvegliò il suo cuore e
lo squarciò d’amore: quella donna di spalle, che osservava immobile le rive del
lago, era proprio la sua Nadine. Si avvicinò lentamente e da dietro la strinse
in un abbraccio, accogliendo il suo sussulto.
Quel respiro
leggero che hai
l’onda del petto
che scende e che sale
e mentre sogno
ti penso e fa male
un’altra vita
eravamo oramai
adesso sì che
sto imparando
a stare nel
mondo
ancora qui per
noi.
Amedeo Minghi