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Autore: Dandelion And Burdock    10/09/2015    1 recensioni
Avremmo potuto riempirci di attenzioni e amore anche senza toglierci i vestiti e nonostante tutto sarebbe andato bene, perché noi non siamo questo. Noi siamo molto di meno e molto di più, e forse quella sottile linea di confine dove stiamo noi, dove ci ritroviamo ogni volta, può bastare per quello che è.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alex Turner
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Questa è l’ultima, giuro”.
“Cosa, canzone o sigaretta?” risponde in un sibilo ironico mentre espira il fumo verso l’alto.
Nel chiaroscuro notturno della camera da letto guardo la sua schiena ossuta accogliere il gonfiarsi dei polmoni un respiro dopo l’altro; seguo con lo sguardo la linea leggermente curva della colonna vertebrale che sporge tirando la sua pelle lattea fino all’elastico scuro dei boxer, illuminata soltanto dalla luce fioca dei lampioni che viene dalla finestra. È una bella luce, anche se aranciata in modo quasi malaticcio, quel tipo di luce avvolgente ed un po’ polverosa che ti fa sentire a casa.
Solleva lentamente e quasi a fatica il braccio magro per portare alle labbra l’ennesima sigaretta, ormai quasi terminata; nel buio quasi totale ne vedo l’estremità illuminarsi quando lui inspira vogliosamente l’ultima boccata, per il momento, di nicotina, catrame e tabacco bruciato.
C’è silenzio da ore, ormai, ma è un silenzio tranquillo, benigno, piacevole, del tutto innocuo. Un lampo illumina il cielo e la stanza per una frazione di secondo, seguito poco dopo dal frastuono rimbombante di un tuono. Un cane abbaia lontano, un’automobile passa veloce sotto casa, e nel giro di pochi minuti sento le gocce di pioggia ticchettare sul vetro e sopra la mia testa.
Mi sento in bilico, anche se forse è solo colpa del letto di Alex, troppo spropositatamente alto: lui dondola le gambe oltre il bordo, la schiena ingobbita mentre guarda il pavimento a più di un metro sotto i suoi piedi,  io sono rannicchiata con le spalle contro al muro a cercare, forse invano, di scrivere.
Ho la fobia dei fogli bianchi, e anche se so che forzare le parole è la cosa più sbagliata che io possa fare, mi trovo purtroppo in uno di quei momenti in cui sento il bisogno doloroso di vedere questo spazio vuoto rovinato da un insieme, magari sensato o magari no, di lettere scure, fossero pure stupide ed inutili. Il mio cervello non sta aiutando: la pagina aperta ed ancora pura che ho davanti sembra accusarmi da un tempo indefinito, un po’ come gli scheletri nell’armadio di Alex, sussurrandomi e urlandomi parole su parole che mi rimbombano nel cervello senza riuscire ad unirsi in qualcosa che faccia placare la mia fame e mi lasci respirare aria buona per un po’.
“Non hai sonno?” chiede.
“No, non proprio, ma se vuoi riposare vado di là”.
“Lascia stare, non riuscirei a dormire in ogni caso”.
Mi accendo una sigaretta mentre tra di noi scorre di nuovo il silenzio.
“A cosa pensi?” sussurro dopo un po’.
“A tante cose, almeno credo. Non riesco a mettere a fuoco”.
“So com’è”.
“Okay”.
Rimango a guardarlo per minuti senza fine mentre lui, inconsapevole o forse solo incurante del mio sguardo che lo indaga, consuma febbrile una sigaretta dopo l’altra fino a ritrovarsi tra le mani l’ennesimo, malinconico pacchetto vuoto.
Sbuffo chiudendo con violenza il quaderno.
“Fanculo”.
“Chi?”.
“Tu”.
Ride voltandosi, poi lancia il pacchetto oltre al letto e si sdraia su un fianco con il viso rivolto verso il mio iPod, che giace tra le lenzuola blu.
“Cosa ascolti?” chiede sorridendo.
“Secondo me sei in grado di indovinare”.
“Non è semplice, sai? Ho una rosa talmente ampia di artisti e canzoni tra cui scegliere…”
“E allora spremiti le meningi, Turner”.
Ridacchia felinamente per poi cedere il posto ad un broncio pensieroso dall’aria francese, tradito poco sapientemente  da una luce giocosa che gli illumina gli occhi scuri; sorrido involontariamente davanti a questa performance magistrale pensando a quante donne deve aver fatto sciogliere, con quelle labbra sottili reclinate verso il basso e con quegli occhi furbi e fanciulleschi.
“Vediamo…” rompe il silenzio dopo una manciata di secondi “Nutini? Oasis? Oppure gli Smiths?”
“Non vale, Al, hai sbirciato!”
“Giuro che no” esclama sollevando le mani mentre ride. “Allora, chi è?”
“Nutini. White Lies. Come quella che hai appena detto”.
“Non ho guardato, Katherine. È che ti conosco troppo bene”.
Ride.
“Piantala di prendermi per il culo, sai benissimo che non mi chiamo Katherine” esclamo con un sorriso tirandogli un pugno scherzoso sul petto.
“Così fai male, però”.
“E’ che te lo meriti, scummy rispondo sollevando l’angolo della bocca.
“Ah si? Me lo merito, dici?”
“E’ esattamente quello che ho appena detto”.
Sorride sornione nel buio, si avvicina fulmineo e comincia a farmi il solletico sulla pancia.
“Sei crudele!” esclamo tra le risa.
Rotoliamo come bambini tra le lenzuola per minuti interi, fino a che mi ritrovo sotto di lui a gridare un ansante “Mi arrendo!”, i respiri ansimanti che si uniscono e i nasi che si sfiorano.
“Posso?” chiede dopo un po’.
“Puoi cos…”
Mi bacia senza nemmeno riprendere fiato, un bacio dolce e violento e tante altre cose all’unisono, i sorrisi che si scontrano ed il mio cuore che accelera un battito dopo l’altro dicendo si, puoi, e non farti scrupoli.
È agonia, quella che sto provando adesso, è dolore viscerale e fisico in modo quasi inquietante nel sapere che noi, nonostante tutto, non siamo questo. Nel sapere che lui la settimana prossima tornerà a Los Angeles da Arielle come io tornerò a Londra e uscirò con quel tipo del Cafè, John, Jack, com’era? Ah, certo, Jules. “Sai una cosa?” penso. “Non me ne frega un cazzo”. E con quella dichiarazione di guerra stampata in testa mi slaccio il reggiseno.
 
Crolla sfinito accanto a me, le lenzuola leggere color della notte che ne modellano dolcemente il corpo scheletrico eppure armonioso che ho scoperto di amare centimetro dopo centimetro, e chiudendo gli occhi mi invita con un gesto della mano a stringermi a lui. Perché è questo che abbiamo fatto fino ad ora: stringerci. E non intendo solo stanotte, intendo dal giorno in cui ci siamo conosciuti. Ci siamo stretti per non buttarci, stretti per non lasciarci andare, stretti anche da lontano quando il nostro mondo sembrava crollare. Ci siamo stretti sopra ai nostri sogni e cuori infranti e ci siamo stretti davanti ad un camino perché dentro di noi c’era troppo freddo. Ci siamo stretti quando le emozioni erano troppe e belle e volevamo condividerne un po’, ci siamo stretti quando la nostra buona stella decideva di fare capolino da dietro le nuvole e buttare un occhio su di noi qua sotto, ci siamo stretti talmente tanto e per tanti motivi diversi che mi sembra paradossale che soltanto stanotte i nostri corpi abbiano trovato l’incastro perfetto. Le menti, quelle no; quelle erano ancorate saldamente l’una all’altra già da tempo.
“Va da sé che io e te ora siamo nei casini” sussurra dopo aver sbadigliato.
“Casini? Il resto del mondo è nei casini, io sto alla grande”.
Ride.
Scivolo sotto le lenzuola leggere e la sua mano delicata mi avvolge i fianchi, attirandomi a se.
“Non è di malattie genetiche che sto parlando” sibila sorridente a pochi centimetri dalle mie labbra.
“Parla per te” penso. “Magari non sarà genetica, ma se non è una malattia questa i tumori sono effetti collaterali”.
Lo so di cosa stai parlando” rispondo “di Arielle”.
“E di Jules”.
“Non mettere i puntini sulle i”.
“Non è questo il punto”.
“Senti, Alex, non c’è proprio nessun punto. Stai rovinando il momento”.
“Lo so”.
“E allora” , dico baciandolo, “vedi di stare un po’ zitto”.
Il divertimento sta nel fatto che ne io ne lui sappiamo cosa succederà adesso; è per quello che Alex ha sprecato il fiato distruggendo la beatitudine di questi attimi. Dico che ha sprecato il fiato perché non si può mai sapere cosa sia la cosa giusta da fare, in queste situazioni, figurati poi se lo so io che vado in crisi soltanto a scegliere cosa ordinare in caffetteria. E in fondo è proprio qui che sta il bello delle incognite; abbandonarsi all’istinto e prepararsi psicologicamente a prendersi delle esorbitanti batoste. Poi a volte capita che ti va meglio, se sei fortunato, ti capita che la gente ti prenda per un ingenuo bambinetto sprovveduto e ti perdoni. La maggior parte delle volte l’ingenuo sprovveduto è proprio colui che perdona, comunque.  Perlomeno seguendo la mia filosofia di vita.                                                                                                         Faccio scivolare le mani tra i suoi capelli, invasa da profondo appagamento nel non trovare la resistenza viscosa della brillantina, e cerco di svuotare il cervello mentre la sua bocca deposita baci leggeri sulle mie clavicole. Non ci riesco. Sai come dovrebbe andare, adesso?  Dovremmo addormentarci abbracciati, oppure stringerci sotto le coperte e guardare un bel film. E invece se andiamo ancora un po’ oltre finisce che lo facciamo un’altra volta, tutto da capo. Non che non mi vada, ben inteso, ma non sembriamo nemmeno più noi. Sembriamo due sconosciuti che si sono incontrati in un pub e credono di poter riempire il vuoto della loro vita con una scopata pseudo romantica. E non mi sta bene, cazzo, no, perché noi siamo Alex e Kat e nonostante tutto non siamo questo. Lo so che ho sbagliato, lo so bene, tanto bene da sentirmi in colpa per lui; perché avrei potuto fermarlo e quello stupido film sotto le coperte l’avremmo guardato, e ci saremmo anche addormentati davanti alla televisione, abbracciati magari. Avremmo potuto riempirci di attenzioni e amore anche senza toglierci i vestiti e nonostante tutto sarebbe andato bene, perché noi non siamo questo. Noi siamo molto di meno e molto di più, e forse quella sottile linea di confine dove stiamo noi, dove ci ritroviamo ogni volta, può bastare per quello che è. Forse non l’ho fermato perché nutrivo la speranza che il sesso si trasformasse in amore, mentre ora mi rendo conto che, nonostante un po’ di amore tra noi ci sia sempre stato, quello che è successo stanotte si può tradurre solo con del sesso che spera di riempire vite prive di affetto sincero. E quelle vite sono le nostre, purtroppo.
Sento la sua testa pesante tra la spalla e il collo, il suo respiro farsi più regolare, un ciuffo scomposto dei suoi capelli solleticarmi la pelle nuda. Dorme. “Eccolo, l’Alex vero” mormoro guardandolo. “L’Alex che pochi hanno visto. Questo è il mio Alex”.
Scivolo fuori dal suo abbraccio attenta a non svegliarlo, recupero la mia biancheria ed i vestiti e mentre un emisfero del mio cervello sbraita di rimettermi a letto e stringerlo e non lasciarlo mai più mi rivesto e infilo la mia roba nella borsa. Gloria a chi è più coraggioso di me; risalgo furtivamente la stupida scaletta e gli poso un bacio silente sulle labbra dischiuse. Un’imprudente carezza sui capelli, solo per spostargli il ciuffo, poi faccio per uscire dalla porta. “No, non così. Lasciagli almeno un biglietto”.
Scarabocchio frettolosa due frasi su un post-it stropicciato e macchiato d’inchiostro blu, dandomi della stronza per aver provato ad andarmene in quel modo; l’ho detto io stessa, non siamo sconosciuti.
Non è colpa tua, ma del mio stupido, stupido cervello.                                                                                                         
È che noi non siamo questo.                                                                                                                                               
Ti chiamo io,                                                                                                                                                                                  
K.
Scivolo oltre l’uscio con le scarpe in mano, come una ladra. Perché in fondo lo sono, una ladra, rubo attimi di vita felice alla gente come se la loro gioia mi spettasse di diritto. Me le merito anche io, un po’ di batoste.
Comunque non ho sbagliato proprio tutto, stanotte; avevo promesso di non fumare, e le sigarette fino ad ora non mi sono nemmeno passate per la mente.







Non so esattamente cosa abbia dato origine a ciò; so che ho impropriamente mescolato tre bozze trovate tra le note del telefono e uno dei miei infiniti notebook. Volevo soltanto far sapere che la luce che ho descritto è una luce particolare e che porto nel cuore, una luce che sicuramente non sarò riuscita a rendere nella maniera che merita a parole, la luce che ogni notte tra le 12 e le 3 mi avvolgeva nella mia stanza a Dublino. Non sono nemmeno riuscita a fotografarla come volevo, ma dovreste vederla.
Buona lettura,
K.

 
   
 
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