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Autore: Artemide12    10/09/2015    2 recensioni
[one shot per il contest "Verso l'infinito e oltre!" di Najara87]
"Oh, sono passati i secoli di grande splendore, sono passati gli anni delle grandi tecnologie, delle città utopiche e persino delle guerre più cruente tra spazio e pianeta, tra pazzi e paladini, sono passate le rivoluzioni, ci sono stati i robot umani e disumani, gli esperimenti genetici. Ci sono stati distruzione e riconquista, amore assoluto e odio puro.
C'è stato tutto quello che era stato immaginato in tutte le possibili versioni e con tutti i possibili epiloghi.
[...]
Ha vinto la scienza, e abbiamo perso i sentimenti.
Ha vinto la tecnologia, e abbiamo perso anima e corpo.
"
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"E quindi uscimmo a riveder le stelle."
Dante Alighieri, Inferno XXXIV, 139

 

 

Infilo il camice bianco in una sacca senza piegarlo, lasciando che si appallottoli e si sgualcisca insieme a tutto il resto. Non mi fido a lasciare le mie cose in laboratorio, anche se c'è un rischio quasi maggiore nel portarsele dietro.

Assicuro con le cinghie la sacca di cuoio alla schiena, poi salgo sull'elevatore fuori uso a quasi un secolo. Ormai la scala a pioli di emergenza viene usata regolarmente.

Mentre salgo con movimenti meccanici volto la testa verso il tunnel buio, umido e pieno di muffa da cui sono venuta. Anche per questa settimana, devo dire addio alla civiltà.

Sblocco l'apertura della botola sopra di me, faccio scorrere lateralmente il pannello e un mucchio di foglie marce mi si rovescia addosso appiccicandosi al mio corpo.

Con la coda me le spazzo via dagli arti inferiori per essere più libera nei movimenti.

Mi isso sul terreno fangoso e richiudo la botola, poi la copro di nuovo di foglie. Alcune mi rimangono attaccate ai polpastrelli a ventosa, ma non so dove pulirmi.

Mi guardo intorno per assicurarmi che nessuno mi abbia vista.

Sembra di no.

Mi chiedo che ore siano. È buio, ma non vuol dire niente. Qui è sempre buio. Così come il laboratorio è sempre illuminato. Se fossi ancora laggiù potrei chiedere l'orario a qualcuno, ma quassù... una simile domanda rivelerebbe un grado di civilizzazione non accettabile.

Abbandono la posizione quasi eretta e avanzo a quattro zampe. Mi è più naturale e sono più veloce, ma detesto sentire questo terreno molliccio contro l'addome e dover tendere il collo per sollevare la testa e guardarmi costantemente intorno.

Scivolo in mezzo alla fitta vegetazione zigzagando rapida tra le radici e passando sotto a rami, foglie, insetti e molto altro che non voglio sapere. Spine, resina e acqua fangosa scivolano sul mio corpo nudo senza muovermi. Mi curo solo di non far strappare la sacca. Il contenuto mi serve quasi più della pelle. Quasi, perché fuori dal laboratorio il mio istinto di sopravvivenza si fa improvvisamente molto più forte di qualsiasi altro sentimento.

Per abitudine, alzo gli occhi al cielo per prendere qualche punto di riferimento, ma non vedo niente. Solo un uniforme, scuro e freddo grigio metallico.

La Ricostruzione è andata avanti. Quanti giorni ci rimangono prima che ci lascino qui a morire? In ogni caso, non saranno mai abbastanza.

Senza contare che potremmo ucciderci prima tutti a vicenda.

Come rispondendo ai miei pensieri, versi profondi e terrificanti si fanno strada nel buio.

Mi arrampico su un arbusto che può quasi definirsi albero sperando che i colori sgargianti del mio corpo non attirino troppo l'attenzione.

La scena che trovo non è diversa da tante altre che ho visto ho addirittura vissuto.

La prima cosa che distinguo è un grosso rettili, un mio simile. Le sue squame hanno i tipici colori rosso, giallo e bianco dei maschi che si potrebbero individuare a chilometri di distanza.

L'altro ibrido è un mammifero, lo capisco dai suoi versi e dalla parvenza di pelo. È più piccolo e meno scattante, ma anche molto più agile del suo avversario.

Non mi soffermo su di loro più di qualche istante. A poca distanza è riversa la carcassa di un altro rettile. Intravedo il blu, l'azzurro e il giallo delle femmine e rabbrividisco.

Quasi ogni specie, ormai, è diventata cannibale all'occorrenza.

Ma mentre rettile e mammifero si contendono la preda, è qualcun altro a banchettare. Piante carnivore. Già buona parte delle zampe della femmina morta non esiste più.

Il maschio intanto scatta per afferrare il mammifero, ma quello riesce a sgusciargli via e addentargli la coda. Il rettile emette un sibilo gracchiante e comincia a dimenare la coda finché il mammifero non vola via andando a sbattere contro un albero.

Finalmente posso vederlo meglio. È un vecchio ibrido, uno di quelli riusciti meglio. Ricorda allo stesso tempo un piccolo lupo e un grosso topo. Il lato positivo è che non ha niente di umano. Ibrido o no, è un animale e basta, senza una scatola cranica ampliata né inquietanti scintillii coscienti negli occhi gialli. Non c'è cattiveria in quelli della sua specie.

Al contrario della mia.

La luce crudele negli occhi del maschio mette paura. Avanza lentamente, a quattro zampe, disegnando ampi ventagli con la coda.

Il mammifero non si muove – deve avere qualcosa di rotto – e comincia a ad emettete gemiti sottili e brevi, in successione, sembra quasi un pianto.

Per quanto intelligente, il rettile è troppo preso dalla sua vittoria per rendersi conto che quello è un richiamo, per notare i movimenti tra la vegetazione o sentire tanti altri piccoli respiri intorno a lui.

Quando una quindicina di altri mammiferi escono allo scoperto, è troppo tardi. Saltano addosso al rettile tutti insieme e sebbene lui ne riesca a ferire gravemente tre, sono loro ad avere la meglio. Presto, anche il maschio è una carcassa.

I mammiferi non si avvicinano neanche alla femmina.

Prima che notino la mia presenza, mi dileguo.

Non penso alla scena a cui ho appena assistito. Non è la prima e non sarà l'ultima.

La mia specie, come tutti i rettili e gli altri ibridi a sangue freddo, sarà solo la prima a scomparire quando ci sarà negata la luce del sole.

Continuo a scivolare in un ambiente di totale abbandono dove gli unici sentieri sono quelli segnati dal passaggio di qualcuno prima di me. Sembra passata un'eternità quando sento finalmente il terreno farsi meno umido e più sassoso. Il sottobosco di dirada e gli arbusti si fanno un po' più alti.

Secondo i dati del laboratorio, dall'altra parte del pianeta sono già morte quasi tutte le piante. Qui sopravvivono solo grazie alla luce che serve per i lavori della Ricostruzione.

Gli odori mi dicono che sono vicina alla mia tana. Rallento gradualmente fino ad arrivare davanti ad un muro - anche se forse dovrei dire il muro visto che è l'unico rimasto.

Mi ci arrampico con facilità, almeno finché le mie zampe non incontrano qualcosa di liscio e cedevole che mi rimane attaccato ai polpastrelli a ventosa. Alternativamente, scuoto gli arti, ma non me ne libero del tutto.

Mi trascino fino in cima al muro saggiandone come sempre la sicurezza prima di issarmici. È spesso abbastanza per contenere il mio corpo lungo ma fino.

Guardo ciò che mi sono portata dietro dalla parete verticale. È qualcosa di decisamente artificiale. È troppo rettangolare, bianco e sottile per essere naturale. Lo annuso e poi provo a strappare un angolo.

Carta, mi ricordo improvvisamente. Non ne vedevo più da non so quanti decenni. Ormai, se anche valesse la pena abbattere i pochi arbusti rimasti, non ci sarebbe nessuno capace di produrla. Tranne i droidi, ovviamente, loro sono capaci di tutto. Persino costruire un involucro sopra all'intero pianeta e lasciare a morire tutto ciò che c'è sotto solo perché non è più salvabile.

Ma perché lasciare dei preziosissimi fogli di carta attaccati al mio muro?

Giro il foglio. Su questo lato c'è una stampa.

Raffigura un pianeta in costruzione. Dalla parte non ancora completata si può vedere l'interno concavo. Dentro, non c'è altro che un nucleo di energia. Nessun altro pianeta morente. Come se tutti noi già non esistessimo più.

L'ottimismo dei miei colleghi al laboratorio può essere accartocciato e bruciato. I droidi non salveranno nessuno, nemmeno noi "evoluti" nemmeno noi "civili". Costruiranno il loro mondo utopico e senza vita. La storia va avanti, in un modo o nell'altro.

Torno a guardare il manifesto. Accanto al pianeta in costruzione, c'è un satellite che sta subendo la stessa sorte. Non sapevo che stessero ricostruendo anche la luna, ma non mi stupisce affatto. Se potessero – e prima o poi potranno – metterebbero le mani anche sul sole.

Ma chi ha messo questi manifesti sul mio muro?

Appallottolo il foglio e lo stringo in una zampa.

Cerco a tentoni la fossa nel muro tra ciò che resta della struttura di cemento armato e mi ci infilo. Ormai c'è la sagoma del mio corpo.

Mi stendo sulla schiena, per quanto questa posizione sia un rischio, e spingo la sacca sotto la testa, come cuscino, senza però sfilarmela.

Finalmente alzo gli occhi al cielo.

I lavori di Ricostruzione sono andati avanti, ormai sono nel mio campo visivo. Domani mi avranno levato il mio minuscolo spicchio di cielo.

Ci sono tante stelle come non ne ho mai viste, sono una più luminosa dell'altra. Una più lontana dell'altra.

La carta scricchiola un po' nel mio pugno sempre più serrato.

Con uno scatto improvviso la scaglio lontano, poi mi chino recuperando tutti gli altri manifesti. Mi sporgo pericolosamente per staccare dal muro quelli che non mi sono portata dietro.

L'ultimo non di accartoccia e attira la mia attenzione. La carta è più spessa e rigida, il formato è più piccolo.

Volto il manifesto. Il retro non è bianco.

Una sola riga. Sembra stampata, ma l'odore di un inchiostro diverso mi suggerisce che è stata scritta dopo, magari aggiunta a mano da un droide.

E quindi uscimmo a riveder le stelle”.

Sono parole che risuonano nella mia mente all'improvviso, mentre le leggo, senza che neanche sapessi di conoscerle.

Sono un verso, una parte di qualcosa, ma cosa? Devo sforzarmi per capire. Per ripescare dalla mia memoria qualcosa di così lontano da non essere nemmeno un ricordo, sono una fantasia sbiadita di una bambina ancora più umana che animale.

Cosa significa questa frase qui e ora?

È uno scherzo? Qualcosa senza senso?

Impossibile.

È opera di un droide, un senso deve averlo per forza.

È un messaggio? Per me?

E che tipo di messaggio?

Un avvertimento? Una promessa?

Ma di cosa?

E quindi uscimmo a riveder le stelle.

Alzo di nuovo lo sguardo al cielo. Presto, forse già domani, non godrò più di questo spettacolo.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.

È questo che vuol dire? Che le rivedrò? Che non rimarrò intrappolata all'interno del pianeta Ricostruito?

Tento inutilmente di sopprimere la speranza che si gonfia all'istante nel mio petto.

Su questo pianeta la speranza ha già fatto abbastanza danni.

Emetto un verso sommesso e sibilante che dovrebbe essere un sospiro.

Forse la speranza è l'ultima a morire, ma questo non vuol dire che sia immortale.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.

Chiudo gli occhi.

E la mia memoria mi porta altrove, ricostruendo uno scenario lontano secoli da ora ma forse vicinissimo nello spazio.

Non è un ricordo infantile come credevo, ma adolescenziale.

Rivedo intorno a me gli ultimi umani. Gli ultimi ad essere stati bambini e poi ragazzi, destinati a non diventare mai adulti. E gli ultimi adulti che non sarebbero invecchiati.

Sento una tranquillità che non credevo potesse più esistere, nemmeno nei ricordi o nei sogni.

Ci sono solo altri due ibridi. Nessuno degli umani ne sembra sorpreso.

È una scena breve, pochi fotogrammi che si ripetono in continuazione, al rallentatore. Suoni attutiti, come registrati da molto lontano.

Perché la mia attenzione è – ed era – focalizzata sull'adulto al centro della stanza.

La sua voce è l'unica che sento prima indistinguibile poi sempre più chiara, quasi emergesse a fatica dai labirinti del mio cervello.

Quella frase. Ancora e ancora.

Ripetuta ogni volta meglio, con la musicalità di una poesia.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.

È una conclusione. Questa è l'ultima scena di una registrazione molto più lunga, ma anche l'unica che mi rimane. Non sapevo nemmeno di averla.

La scena riparte, ancora e ancora. Soffice come una nuvola, calda come un abbraccio.

Ogni volta un nuovo particolare acquista nitidezza. Le mani intrecciate di due mie compagne di classe, gli occhiali di un altro, uno scarabocchio in un angolo del banco, i sussurri degli altri adulti fermi di lato.

La scritta sulla lavagna.

Dante Alighieri

Apro gli occhi dopo quelli che potrebbero molti anni o pochi secondi.

Non so bene se era solo un ricordo o in parte anche un sogno perché forse mi sono davvero addormentata, ma in ogni caso sento immediatamente che ciò che ho visto è reale. O almeno lo è stato.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.

Ora ricordo. Era l'ultimo verso di una composizione.

Ma perché tirarlo fuori adesso?

Scatto a sedere e poi ruoto su me stessa rimanendo in ginocchio.

Chi è stato? Chi ha messo questo qui?

Perché? Perché?

Perché riportare alla luce qualcosa di così lontano? Qualcosa che è appartenuto alla cultura umana.

Quando della più grande civiltà esistita su questo pianeta non resta che un muro.

Un solo, banalissimo muro di mattoni ormai grigi e ricoperti di muschio.

Oh, sono passati i secoli di grande splendore, sono passati gli anni delle grandi tecnologie, delle città utopiche e persino delle guerre più cruente tra spazio e pianeta, tra pazzi e paladini, sono passate le rivoluzioni, ci sono stati i robot umani e disumani, gli esperimenti genetici. Ci sono stati distruzione e riconquista, amore assoluto e odio puro.

C'è stato tutto quello che era stato immaginato in tutte le possibili versioni e con tutti i possibili epiloghi.

C'è stato tutto.

Persino il niente. Anni e ai di niente.

Ma ora basta.

Ha vinto la scienza, e abbiamo perso i sentimenti.

Ha vinto la tecnologia, e abbiamo perso anima e corpo.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.

La fine dell'Inferno.

E se domani non fosse nulla di quello che avevo immaginato?

Se iniziasse il Purgatorio, la redenzione?

Guardo verso l'alto. Forse questo è davvero un messaggio. Forse c'è davvero speranza che alcuni di noi si salvino, che la vita continui, che non stia per crearsi un pianeta di soli robot.

Forse non è ancora la fine, forse è solo l'ennesimo inizio.

Ma questo vuol dire solo che abbiamo ancora qualcosa da perdere.
 




 


     NdA

Ciao, questa è la mia prima storia sul genere fantascientifico e anche la prima con cui partecipo ad un concorso perciò posso solo sperare bene.

Forse non è ciò che di solito si associa alla fantascienza, ma volevo scrivere qualcosa di diverso. Qualcosa che andasse oltre le grandi tecnologie e tutto il resto. E così mi sono chiesta "e dopo?", "e dopo?".
E dopo niente ecco. Potrà sembrare pessimista, ma vi assicuro che io non lo sono. Penso solo che sia il corso naturale delle cose. Gli anziani non sono tutti un po' di nuovo bambini? Allo stesso modo, sono dell'opinione che arriveremo ad un culmine di magnificenza e poi regrediremo. Ovviamente non torneremo ad un punto zero, ovviamente ci porteremo dietro tutto il passato e non torneremo alla preistoria però sarà una specie di post-storia.


Grazie mille a chiunque sia finito qui anche solo per caso, spero vivamente che la storia vi sia piaciuta e che mi farete sapere cosa ne pensate.

     Artemide


 

  
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