Questa lettera l’ho
scritta per un tema a scuola… sinceramente poi ho dovuto accorciarla quindi mi
dispiaceva perdere tutto il resto, così l’ho postata qui… spero che qualcuno la
legga e mi commenti!
Ciao!Ciao!!
Chihiro
Cara
sorella,
come
ben sai dopo il mio profondo tormento nel convento di S. Francesco, ho avuto il
coraggio di venire finalmente a trovarti. Quanta gioia ho visto nei tuoi
profondi occhi, quando hai scoperto chi in realtà fosse quell’uomo,
che in un primo momento ti aveva turbato l’animo con una menzogna. Il tuo volto
era sbiancato e a me misero si era stretto il cuore. Allora perentorio ti ho
rivelato la verità e una gioia mai provata, nata alla vista del tuo dolce
sorriso, prese il posto del mio turbamento. Mi sentivo leggero
e tutti gli eventi causa del mio malessere si erano dissolti.
Ahimè, ma
una situazione del genere non poteva durare a lungo.
Mi scuso
per essermene andato via così velocemente, ma i miei doveri mi chiamavano e una
forza interiore mi diceva che dovevo tornare a Ferrara, dove il mio Signore mi
aspettava impaziente, per poter leggere una nuova stesura della mia
Gerusalemme.
Ma
arrivato a Ferrara nessuno mi accolse, essendo tutti troppo presi da un
matrimonio fasullo.
Fui rinchiuso
a Sant’Anna dove attualmente risiedo.
La mia
cella è confortevole per essere quella di un malato di mente. Il letto è comodo
e le sue coltri sono abbastanza calde da potermi riscaldare anche negli inverni
più freddi. Il cibo proviene direttamente dalle cucine della reggia degli
Estensi e il materiale per scrivere non mi viene mai
negato.
A quanto
pare il mio Signore non è del tutto infuriato con me. Alcune suore mi hanno
persino detto, che mi tiene qui solo per proteggermi dall’inquisizione.
Se è vero
o meno non lo potrò mai sapere, perché so già che non potrò mai più tornare
alla corte di Ferrara.
Forse me
ne andrò a Roma. Ho ancora qualche conoscenza dei tempi passati che mi potrà
aiutare.
Mi
dispiace, ma non ho il coraggio di rivederti. Dopo averti vista sposata e con
due meravigliosi figli, il mio animo si è accorto che la casa in cui siamo
cresciuti non era il posto per me. Sarei stato troppo occupato dal mio lavoro
per giocare con i miei nipoti e un cognato non proprio adatto per il banchiere
che è tuo marito.
Sarei
stato una figura scomoda. Un parassita che sarebbe vissuto alle vostre spalle.
E così,
quando sarò uscirò da questo posto, terrò fede a ciò
che ho scritto e non mi vedrai mai più.
Spero che
questa lettera ti giunga al più presto. Scrivo con la paura che quel maledetto
folletto dalla casacca marrone, me la nasconda non appena poggerò la penna.
Mi
perseguita da anni, con la sua risatina di scherno ogni volta che non trovo
qualcosa.
Per causa
sua ho smarrito tre canti della mia Gerusalemme e ho dovuto riscriverli più
volte, come per esempio la morte di Clorinda, personaggio da me amato, perché
rappresenta la donna che la società nasconde.
In questo
ultimo mese ho riscoperto proprio questo personaggio, a causa di un incontro
assai particolare dettato dal destino.
Credo che
Dio abbia cercato di dirmi qualcosa: forse il personaggio da me creato è una
figura blasfema, perché le donne non dovrebbero combattere ma essere protette.
Circa un
mese fa, durante le mie due ore di libertà nel chiostro dell’ospedale, ho
incontrato una giovane donna che ricorderò per sempre.
Non era
per la sua semplice bellezza contadina che il mio sguardo ha incontrato il suo,
ma per la fierezza con cui la sia leggiadra figura si
muoveva.
Era
ricoperta di stracci e la coperta sottile che copriva le sue spalle, era
macchiata di sangue.
Solo in
un secondo momento, osservandola meglio, mi accorsi che era il suo. Le sue
braccia erano ricoperte da bende macchiate da quel color cremisi, che a scatti
lasciavano intravedere la pelle nuda, segnata da cicatrici ormai vecchie.
Quando mi
avvicinai ad ella per la curiosità, i suoi occhi verdi si intrecciarono ai
miei, scrutandomi nel profondo, come alla ricerca di un qualcosa, tanto da
farmi arretrare di qualche passo.
Lei non
abbassò mai lo sguardo, anche quando riuscii ad avvicinarmi a lei.
Accennai
un sorriso e come ai vecchi tempi facevo con le dame, abbassai il capo in segno
di saluto.
Allora
lei si sciolse, sorridendomi e facendomi segno di seguirla verso un angolo
sicuro del piccolo giardino.
Mi
presentai e lei mi rispose dicendo di chiamarsi Zelinda. Che coincidenza, il
suo nome faceva rima con Clorinda.
Diversamente
da quello che poteva sembrare, la sua voce era stanca, tanto che rabbrividii a
sentire quei suoni spenti uscire dalle sue labbra.
Parlammo
per un tempo che a me parve secoli: le confidai il motivo per
cui ero lì e quale fosse il mio ruolo all’interno della corte Estense.
Ne rimase affascinata, tanto che ci promettemmo che il giorno dopo, ci saremmo
incontrati nuovamente, ed io gli avrei raccontato la mia opera più importante.
Così andò
avanti per una settimana.
Le due ora a noi permesse volavano velocemente, ma io riuscivo sempre a
raccontarle qualcosa e vedere il suo dolce sorriso. Credo che mi stessi innamorando e il mio animo voleva sapere altro da lei
che il suo nome.
Infatti
il primo giorno della settimana, le chiesi perché era lì.
Scoprii
cose che non avrei
voluto sentire.
Le
apparenze ingannano realmente.
Era
vissuta nelle campagne di Ferrara fino ai suoi quindici anni. Poi un signore di
città l’aveva presa sotto la sua ala protettrice, facendola lavorare nel suo
palazzo.
Mi disse
che per i primi mesi era vissuta felicemente e con fierezza perché finalmente
poteva fare qualcosa per i suoi cari, mandando i soldi del suo operato alla
famiglia molto indebitata, fino a quando il suo
padrone aveva iniziato a darle più attenzioni.
Un anno
dopo era madre di una bambina, che dopo pochi mesi era morta fra le sue
braccia.
Fu in
quel momento che iniziò a tagliarsi.
Disse che
quello era l’unico modo per non pensare all’altro suo dolore. Che quello fisico
era talmente potente da farle dimenticare.
Ma il suo
padrone non poteva più vederla e dopo soli due anni era stata mandata via e
marchiata come pazza.
Per tutto
il tempo in cui l’avevo ascoltata, mi ero accorto che raccontava con una
naturalezza inumana, quasi come se non fosse accaduto seriamente a lei,
imponendosi una fierezza austera.
Zelinda
era una donna forte, una guerriera che rifiutava la propria autentica identità,
dimenticandosi della sua femminilità.
Solo
quando era sola, tornava ad essere ciò che la natura le aveva dato e allora
tranquillamente prendeva una lametta e si incideva profondi tagli nella pelle.
Seriamente
mi ha ricordato Clorinda. Una donna impavida, che non si faceva intimorire dal
nemico, ma che al momento della morte, capiva ciò che era realmente.
Zelinda
in questo caso, si era accorta di chi fosse in realtà alla morte della figlia.
Non sai
quanto ho pianto sorella mia, quando una settimana fa ho scoperto che l’avevano
portata via. Non so che fine abbia fatto, magari l’hanno ricondotta dai suoi
cari, ma anche se mi impongo questo pensiero, il mi cuore si lacera dalla
tristezza.
Sono
nuovamente rimasto solo in questo posto e mi sento soffocare.
Che
società contorta che è la nostra. Non è un posto adatto a persone come me, che
a stento riescono a sopravvivere.
Io
credevo di contare qualcosa per ciò che scrivevo, che la mia visione di una
nuova crociata sarebbe piaciuta, ma a quanto pare mi sono solamente illuso.
Tuo,
Torquato Tasso