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Autore: Chihiro    08/02/2009    3 recensioni
"Cara Sorella"... Torquato Tasso scrive una sua ultima lettera alla sorella tanto amata. La mia visione di un genio tanto contorto.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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Cara sorella,

Questa lettera l’ho scritta per un tema a scuola… sinceramente poi ho dovuto accorciarla quindi mi dispiaceva perdere tutto il resto, così l’ho postata qui… spero che qualcuno la legga e mi commenti!

Ciao!Ciao!!

Chihiro

Cara sorella,

come ben sai dopo il mio profondo tormento nel convento di S. Francesco, ho avuto il coraggio di venire finalmente a trovarti. Quanta gioia ho visto nei tuoi profondi occhi, quando hai scoperto chi in realtà fosse quell’uomo, che in un primo momento ti aveva turbato l’animo con una menzogna. Il tuo volto era sbiancato e a me misero si era stretto il cuore. Allora perentorio ti ho rivelato la verità e una gioia mai provata, nata alla vista del tuo dolce sorriso, prese il posto del mio turbamento. Mi sentivo leggero e tutti gli eventi causa del mio malessere si erano dissolti.

Ahimè, ma una situazione del genere non poteva durare a lungo.

Mi scuso per essermene andato via così velocemente, ma i miei doveri mi chiamavano e una forza interiore mi diceva che dovevo tornare a Ferrara, dove il mio Signore mi aspettava impaziente, per poter leggere una nuova stesura della mia Gerusalemme.

Ma arrivato a Ferrara nessuno mi accolse, essendo tutti troppo presi da un matrimonio fasullo.

Fui rinchiuso a Sant’Anna dove attualmente risiedo.

La mia cella è confortevole per essere quella di un malato di mente. Il letto è comodo e le sue coltri sono abbastanza calde da potermi riscaldare anche negli inverni più freddi. Il cibo proviene direttamente dalle cucine della reggia degli Estensi e il materiale per scrivere non mi viene mai negato.

A quanto pare il mio Signore non è del tutto infuriato con me. Alcune suore mi hanno persino detto, che mi tiene qui solo per proteggermi dall’inquisizione.

Se è vero o meno non lo potrò mai sapere, perché so già che non potrò mai più tornare alla corte di Ferrara.

Forse me ne andrò a Roma. Ho ancora qualche conoscenza dei tempi passati che mi potrà aiutare.

Mi dispiace, ma non ho il coraggio di rivederti. Dopo averti vista sposata e con due meravigliosi figli, il mio animo si è accorto che la casa in cui siamo cresciuti non era il posto per me. Sarei stato troppo occupato dal mio lavoro per giocare con i miei nipoti e un cognato non proprio adatto per il banchiere che è tuo marito.

Sarei stato una figura scomoda. Un parassita che sarebbe vissuto alle vostre spalle.

E così, quando sarò uscirò da questo posto, terrò fede a ciò che ho scritto e non mi vedrai mai più.

Spero che questa lettera ti giunga al più presto. Scrivo con la paura che quel maledetto folletto dalla casacca marrone, me la nasconda non appena poggerò la penna.

Mi perseguita da anni, con la sua risatina di scherno ogni volta che non trovo qualcosa.

Per causa sua ho smarrito tre canti della mia Gerusalemme e ho dovuto riscriverli più volte, come per esempio la morte di Clorinda, personaggio da me amato, perché rappresenta la donna che la società nasconde.

In questo ultimo mese ho riscoperto proprio questo personaggio, a causa di un incontro assai particolare dettato dal destino.

Credo che Dio abbia cercato di dirmi qualcosa: forse il personaggio da me creato è una figura blasfema, perché le donne non dovrebbero combattere ma essere protette.

Circa un mese fa, durante le mie due ore di libertà nel chiostro dell’ospedale, ho incontrato una giovane donna che ricorderò per sempre.

Non era per la sua semplice bellezza contadina che il mio sguardo ha incontrato il suo, ma per la fierezza con cui la sia leggiadra figura si muoveva.

Era ricoperta di stracci e la coperta sottile che copriva le sue spalle, era macchiata di sangue.

Solo in un secondo momento, osservandola meglio, mi accorsi che era il suo. Le sue braccia erano ricoperte da bende macchiate da quel color cremisi, che a scatti lasciavano intravedere la pelle nuda, segnata da cicatrici ormai vecchie.

Quando mi avvicinai ad ella per la curiosità, i suoi occhi verdi si intrecciarono ai miei, scrutandomi nel profondo, come alla ricerca di un qualcosa, tanto da farmi arretrare di qualche passo.

Lei non abbassò mai lo sguardo, anche quando riuscii ad avvicinarmi a lei.

Accennai un sorriso e come ai vecchi tempi facevo con le dame, abbassai il capo in segno di saluto.

Allora lei si sciolse, sorridendomi e facendomi segno di seguirla verso un angolo sicuro del piccolo giardino.

Mi presentai e lei mi rispose dicendo di chiamarsi Zelinda. Che coincidenza, il suo nome faceva rima con Clorinda.

Diversamente da quello che poteva sembrare, la sua voce era stanca, tanto che rabbrividii a sentire quei suoni spenti uscire dalle sue labbra.

Parlammo per un tempo che a me parve secoli: le confidai il motivo per cui ero lì e quale fosse il mio ruolo all’interno della corte Estense. Ne rimase affascinata, tanto che ci promettemmo che il giorno dopo, ci saremmo incontrati nuovamente, ed io gli avrei raccontato la mia opera più importante.

Così andò avanti per una settimana.

Le due ora a noi permesse volavano velocemente, ma io riuscivo sempre a raccontarle qualcosa e vedere il suo dolce sorriso. Credo che mi stessi innamorando e il mio animo voleva sapere altro da lei che il suo nome.

Infatti il primo giorno della settimana, le chiesi perché era lì.

Scoprii cose che non avrei voluto sentire.

Le apparenze ingannano realmente.

Era vissuta nelle campagne di Ferrara fino ai suoi quindici anni. Poi un signore di città l’aveva presa sotto la sua ala protettrice, facendola lavorare nel suo palazzo.

Mi disse che per i primi mesi era vissuta felicemente e con fierezza perché finalmente poteva fare qualcosa per i suoi cari, mandando i soldi del suo operato alla famiglia molto indebitata, fino a quando il suo padrone aveva iniziato a darle più attenzioni.

Un anno dopo era madre di una bambina, che dopo pochi mesi era morta fra le sue braccia.

Fu in quel momento che iniziò a tagliarsi.

Disse che quello era l’unico modo per non pensare all’altro suo dolore. Che quello fisico era talmente potente da farle dimenticare.

Ma il suo padrone non poteva più vederla e dopo soli due anni era stata mandata via e marchiata come pazza.

Per tutto il tempo in cui l’avevo ascoltata, mi ero accorto che raccontava con una naturalezza inumana, quasi come se non fosse accaduto seriamente a lei, imponendosi una fierezza austera.

Zelinda era una donna forte, una guerriera che rifiutava la propria autentica identità, dimenticandosi della sua femminilità.

Solo quando era sola, tornava ad essere ciò che la natura le aveva dato e allora tranquillamente prendeva una lametta e si incideva profondi tagli nella pelle.

Seriamente mi ha ricordato Clorinda. Una donna impavida, che non si faceva intimorire dal nemico, ma che al momento della morte, capiva ciò che era realmente.

Zelinda in questo caso, si era accorta di chi fosse in realtà alla morte della figlia.

Non sai quanto ho pianto sorella mia, quando una settimana fa ho scoperto che l’avevano portata via. Non so che fine abbia fatto, magari l’hanno ricondotta dai suoi cari, ma anche se mi impongo questo pensiero, il mi cuore si lacera dalla tristezza.

Sono nuovamente rimasto solo in questo posto e mi sento soffocare.

Che società contorta che è la nostra. Non è un posto adatto a persone come me, che a stento riescono a sopravvivere.

Io credevo di contare qualcosa per ciò che scrivevo, che la mia visione di una nuova crociata sarebbe piaciuta, ma a quanto pare mi sono solamente illuso.

Tuo, Torquato Tasso

   
 
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