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Autore: itshaze    12/09/2015    1 recensioni
Mi guardò negli occhi, semplicemente, e fu allora che la sentii. L’affinità elettiva. Ed in un secondo eravamo come due particelle a vibrare nell’aria. Come due composti che si separavano da ciò a cui erano legati in precedenza. Non importa da quanto: ci separavamo e basta. E io la sentivo legata a me, come mai nessuno lo era stato prima d’ora. E guardandola negli occhi mi chiedevo se lo sentisse anche lei, il peso del destino. Perché ora mi è rimasto solo il peso della disparità.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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affinità elettive - o quasi


5 P.M.

Non so perché precisamente io abbia deciso di iniziare a scrivere di me, di dar retta a chi sostiene mi possa far bene. Eppure non ci trovo nulla di bello, per il momento. La punta a sfera della penna scorre rapida sulla carta ed il mio essere mancino già comincia a mostrare i primi fastidi: l’inchiostro non ancora asciutto mi sta macchiando la mano e Dio se è fastidioso.

Ma lasciamo perdere, dicono mi farà bene. Facciamo finta di crederci.

A chi rivolgermi, poi? Ad un ipotetico voi? Ancora devo decidere a chi indirizzare questo ammasso di nulla, per giunta. Ma dato che dovrebbe far bene a me, forse penso sia il caso di indirizzarlo a me stesso, ad un me che non sa o che finge di non sapere.

O magari potrei indirizzarlo a quella ragazza al bancone che mi sta guardando sottecchi. Sorride di tanto in tanto, ripulendo un bicchiere di scotch con uno straccio. Forse le lascerò il mio numero. O magari le lascerò l’intero quadernetto. In tal caso il numero meglio non darglielo, dato che per stare ‘meglio’ dovrei raccontarle tutto dall’inizio. Ci metterò parecchio, ma sono solo le cinque del pomeriggio ed il locale chiude verso le due: c’è tempo.

Allora ricominciamo da capo, per la signorina del bancone che si ritroverà o a leggere ciò o il mio numero sbiadito sul tovagliolo che ho appena usato per asciugarmi le labbra sporche di birra.

Vede, spesso mi domando come sia possibile che la genetica sia stata così bastarda con me. Voglio dire: mia madre è sempre stata una gran donna, dalle grandi capacità, sveglia, intelligente con una grande carriera alle spalle. Una meticolosa osservatrice capace di applicare le proprie abilità organizzative in ogni campo. Solo una come lei potrebbe dirigere la Chase Bank. Eppure, nonostante tutti i suoi pregi, l’unico impensabile difetto sono andato ad ereditare: l’eccessivo essere orgogliosi e puntare sempre fin troppo in alto.

Ecco, e se magari mia madre è sempre stata in grado di rigirare la cosa a proprio vantaggio senza rischiare di rimanerne ferita, io invece ho sempre azzardato in maniera eccessiva finendo per seminare il nulla. Aria fritta. Pretendo troppo senza riuscire ad ottenere niente.
E poi c’è mio padre. Lui di difetti ne ha tanti, non che siano brutti difetti per carità: son belli. Sa, lui è uno scrittore e da lui ho preso tutta l’intera abilità nell’osservare il mondo.

Spesso però non è così bello come sembra. Riuscire a sentire gli altri ed a comprenderli attanaglia in te una responsabilità non da poco. Perché finisci per esser tu l’unico in grado di comprendere gli altri ad un livello tale da volere che qualcuno comprenda te in quel modo. Il che è impossibile. Quindi tu stesso divieni puro ignoto per te stesso. E se non ti manda in panne questo, figurati cosa.

Poi, indubbiamente, come il peggiore degli herpes, mi ha mischiato l’essere romantici.

Mi capisca ora, signorina, sconnetta momentaneamente la parola ‘romantico’ dall’immagine che ne danno film come The Notebook o il fantomatico idillio fra Jack e Rose di Titanic. Essere romantici è una maledizione, è un modo di vedere le cose e di sentirle. È un’angoscia pura in quanto immancabilmente legata alla concezione satura di ‘pessimismo’. Come disse il buon vecchio Fitzgerald -senza citarlo propriamente- i sentimentali sono convinti che le cose durino in eterno. Credono nel fantasmagorico amore senza fine, capace di alleviarti da qualsiasi pena e di renderti indicibilmente soddisfatto eternamente. I romantici invece, sono fermamente convinti della fine di ogni cosa. La contemplano, quasi la pregustano, navigando anticipatamente in un dolore che non gli appartiene ancora. Come se mirassero e rimirassero il coltello che, ancora a distanza di dieci metri, sta per infrangersi nel loro costato. Loro assaporano il sangue prim’ancora che sgorghi, convinti che sgorgherà. Perché dovrà farlo, semplicemente.
Ed io sono così pessimista, signorina. Così dannatamente pessimista che sostengo la legge di Murphy debba divenire legge universale, quella che va dal semplice pane imburrato alle più grandi predizioni negative.

Semplicemente perché sono romantico ed io nel dolore ci sguazzo.

Ma torniamo a me, perché mi pare di aver reso per bene l’idea di come genetica e fato abbiano unito le loro forze tramando contro un me che sin da piccolo ha mostrato atteggiamenti tanto peculiari. Prendo un altro sorso di birra e la guardo, nel frattempo, sorridere ad un altro cliente.

Ebbene, romantico o no, non ho mai avuto relazioni serie. Sarà perché ero troppo impegnato a nascondermi nell’ombra. Semplicemente perdevo la testa per ragazze semplici ma irraggiungibili, ma che per me erano l’essenza di ciò che mi avrebbe potuto rendere soddisfatto.

Ricordo che ad esempio alla tenera età di quattordici anni trovai questa ragazza. Mi sembrò di innamorarmene e si, non temo di parlare di innamoramento. Ogni sensazione provata a qualsiasi età, può essere autentica. Non siamo un’enoteca: non è che i sentimenti quanto più appartengono a persone adulte tanto più son buoni. Siamo esseri umani e l’amore è una malattia che non fa distinzioni. Semplicemente ne diventi affetto con una facilità disarmante.
Era una mia amica, presto divenne la migliore. Fin troppo convinto del fatto che fossimo uguali. Anime simili destinate a cercarsi. Mi cercava, io mi lasciavo cercare. Tanto che ne godevo che mi parve quasi di essere al settimo cielo. E sa: all’epoca mi bastava. Vede come sono intensi i sentimenti a qualsiasi età! Anche un semplice sorriso suo mi dava una scossa all’anima, faceva vibrare il mio stomaco come pochi rapporti lo hanno fatto mai. E ricordo quasi ogni cosa.
“Sai, sei strano Kyle”
“Strano..?”
“Sì, insomma, non ho mai avuto un amico come te. Cioè, sembra tu ci tenga veramente a me e non so come ringraziarti per questo”
“Ti voglio bene, semplicemente”
“Lo so che mi vuoi bene, e so di potermi fidare di te. Non lo dimostro quando ci sono gli altri solo perché non sono brava nel dimostrare i miei sentimenti... capisci?”
“Sì, capisco”
E come se capii. D’altronde Dio sa in quante altre occasioni sono stato costretto a capirlo. Perché semplicemente io non sono così. Io ho sempre scelto persone incapaci nel mostrare il loro affetto e mi sono sempre chiesto come mai. Com’è possibile che io sia una calamita per persone così differenti nel mio modo di agire sebbene le cerchi sempre in base alle affinità. Io lo dimostro il mio tenerci a qualcuno. Non ho paura di aiutare, di dare affetto, disponibilità, supporto. Non ho paura di regalare sorrisi autentici né di avvicinarmi alle persone che amo. Semplicemente perché so di averle scelte. So di aver adoperato i miei criteri. So di essere selettivo, ma almeno ciò mi rende possibile circondarmi di persone simili a me.

Ad ogni modo tutto si rivelò fittizio con lei. Andrea si dimostrò opportunista come poche. Ed io che ammettevo con una scrollata di spalle che avrei fatto qualsiasi cosa pur di tenerla al mio fianco, iniziai a captare sin da subito i primi segni di un imminente allontanamento. Avevamo sedici anni quando smettemmo completamente di rivolgerci la parola. Voltai pagina, chiudendo gli occhi. Perché davanti al dolore, se non sei troppo forte per rivendicarti solo questo puoi fare.

Signorina, io le chiedo ora: lei come avrebbe fatto? Era il primo vero buco nella mia vita. Un solco lasciato da qualcuno che era stato in grado di scavare a fondo. Ancora oggi se penso all’affetto che mi legava a lei sento una sorta di morsa, la stessa che mi accalappiava quando un fugace sorriso le allentava le labbra.

Il modo con cui le si illuminavano gli occhi dopo una delle battute a raffica che era capace di fare.

Ma pazienza, oramai c’è solo risentimento in ciò che scrivo e col passare degli anni le cose si sono amplificate. D’altronde è anche questo un altro aspetto negativo dell’essere romantici: il dolore si moltiplica in maniera esponenziale, sempre.

Ricordo che il periodo dei miei sedici anni fu critico.

Quando hai sedici anni d’altronde c’è poco da fare. Sei catapultato improvvisamente in una sensazione di mancata stabilità. Ricordo che tutto ciò che avevo all’epoca erano i libri ed i miei amici. Entrambi mia linfa vitale. Per il resto mi pareva sempre di navigare in incertezze, dubbi, odio verso me stesso. Troppa voglia di crescere senza passare per il percorso di vera e propria crescita.

Io mi odiavo veramente. C’era qualcosa, qualcosa di fisso che era come il fulcro di me in cui era contenuta una quantità d’odio lancinante. Non ne sapevo l’origine, non ne sapevo il perché. Semplicemente i miei sedici anni erano caratterizzati da un Kyle che a fatica riusciva a guardare il proprio riflesso nello specchio.

La mia dei sedici anni, non era la classica compagnia di giovani in cerca di svago, lo svago lo andavamo raccattando noi ed a modo nostro. Durante una serata casuale passata giocando a Cluedo e mangiando tranci di pizza surgelata, ad una di loro, Carol sfuggì un’idea, tra un sorso di birra ed un altro.
“Creiamo la capsula del tempo”
Tutti si voltarono guardandola con un’espressione un tantino perplessa. Io mi trovai a sorridere.
“Come quella dello Sleepover Club? Sapevo avremmo dovuto spararci High School Musical endovena, l’altra sera. Magari a quest’ora proponevi un karaoke con le canzoni trash del 2000”
Le mie parole fecero ridere tutti, come sempre.
Non so qual è la ragione scientifica della strana sintonia che si instaura con determinate persone. Insomma, io sono sempre stato un tipo estremamente socievole per un breve periodo della mia vita dopodiché, surclassati i quindici anni, ho iniziato a chiudermi a riccio. Divenire estremamente silenzioso, anche se in compagnia di conoscenti, mi rendeva quasi sicuro. Eppure con loro, con quella comitiva di amici di una vita, sentivo di essere veramente me stesso e senza alcun filtro, come se non ci fosse più un me, come se fosse un noi: un’unica grande vita che respira, formata da tante anime assolutamente diverse, eppure accomunate da un qualcosa di platonico.
“Si, come quella stronzata” ribadì Carol, finendo il trancio di pizza.
All’epoca era ancora un’adolescente grassottella, dalla pelle olivastra e lo spirito allegro. E forse rimpiango il fatto che il mondo sia stato tanto crudele con lei dal privarle di quella gioia autentica.
Intervenne Frank, appena sbucato dal cesso di casa mia “E sentiamo... cosa vorresti metterci dentro?”
“Non ne ho idea... cose nostre magari. Tipo foto o boh, pensieri o previsioni. Sotterriamo tutto e tra sette o otto anni cacciamo tutto fuori”
“Sempre se saremo ancora vivi”
Tutti e tre mi lanciarono violentemente i cuscini addosso.
“Hey, calmi!” ridacchiai istericamente.
“Allora, per me va bene... Kyle? Carol e Mairi?”
Una volta che annuimmo, Frank batté le mani sfregandosele poi fra di loro.

Da quel momento ci mettemmo all’opera, e l’impegno andò avanti per settimane. Dal nulla ci ritrovammo con una sessantina di foto nostre, vecchi ricordi e bigliettini di tutti i tipi. Perfino i post-it che usavamo per giocare ad ‘Indovina Chi’ scoprimmo che erano stati accuratamente conservati da quasi tutti noi, alcuni più stropicciati di altri. Fece capolino il tappo di una bottiglia di Champagne.
“Oddio... sei seria Carol? hai conservato il tappo del nostro Champagne del veglione?” Mairi se lo stava rigirando fra le dita, quando lo riconobbe subito.
“Dopo che mi è entrato in un occhio mi pare anche il minimo!”
Per non parlare delle mie foto, quasi tutte stampate mesi o anni prima. Certo, non mi andava di rinunciarvi per così tanto tempo
“Guarda che fra sette anni le riprendi, eh!”
“Non si può fare sei, Frank?”
“NO KYLE!”
Fra queste ce n’era una che mi piaceva in particolare, una sorta di primo piano in cui i nostri visi ricoprivano l’intera foto. La mia testa era posata su quella di Carol, quella di Mairi sulla testa di Frank. E con uno di quei filtri bianco e nero sembrava una bizzarra foto d’epoca, con quei bizzarri sorrisi che tanto mettevano allegria.

Sotterrammo la capsula in una di quelle campagne che si trovavano nei dintorni di Upper East Side, una sera. Stando ben attenti a non farci scoprire da nessuno. Col GPS appuntammo le coordinate sui nostri telefoni e rincasammo, giusto per un’altra partita alla Play.
In quel momento, dopo aver sotterrato la capsula, ebbi la sensazione come che fosse certo che l’avrei dissotterrata sempre con quelle persone. Era impossibile separarci all’ora. Non quando l’uno era il prolungamento del pensiero dell’altro. E me ne convinsi così tanto che rimasi di quell’idea fino a qualche mese fa.

Sono passati esattamente nove anni anni e continuo a sentire solo Carol, di loro. Semplicemente il dolore ci ha fatti allontanare. L’impossibilità di reggere determinate situazioni difficili.

Quell’anno stesso il divorzio dei genitori di Frank fu l’inizio di una serie di prove che la nostra amicizia dovette sopportare. Fu dura, ma riuscimmo ad esserci tutti per lui. Quando pochi mesi dopo la madre di Carol morì, in un tremendo incidente d’auto, ci fu una sorta di retromarcia da parte degli altri. Una lenta e silenziosa retromarcia.

La verità è questa: l’uomo, quando non può essere partecipe del dolore, vi sfugge. Per questo siamo sempre soli, nel nostro dolore. Perché il più delle volte gli altri sono incapaci di osservarlo. Non è questione di aiutare. Non bisogna aiutare una persona che soffre. Non vi è rimedio alla sofferenza di un amico, di un parente, di un amante. Non ci sono parole delicate che allevino le ferite. Esiste la presenza. La capacità di rendere ciò che è stato stravolto, normale come un tempo. Essere presenti nonostante le situazioni, nonostante gli umori è fondamentale ma nessuno lo capisce. Tutti troppo intenti a cercare un rimedio, ma il rimedio siamo noi stessi e la pazienza che abbiamo. Semplicemente quando si tratta di attesa, dinanzi al dolore non proprio, l’uomo si tira indietro.

Forfait.

Ma io mi chiedo come mai, lei non se lo chiede? Come mai solo io capisca queste cose. O almeno, come mai io le capisca e non riesca ad esservi indifferente. Infatti io me lo domando spesso: che gli altri capiscano ma semplicemente dicano ‘eh vabe’ con un’alzata di spalle? Io non riesco ad alzare le spalle, non riesco a voltarle, non riesco ad essere impassibile. Per questo gli altri vanno. Io invece resto.
E restai.
Restai tante di quelle volte ed in tante di quelle situazioni, senza dir nulla, che è quasi assurdo e si potrebbe confondere il mio restare come un semplice modo di essere stupidi.
Nel caso di Carol, restai perché lo meritava.

Tre mesi fa io e Carol abbiamo dissotterrato la capsula.
Ma di questo le parlerò più avanti, sono solo le sei e dieci e ho ancora molto da dirle.





recensite, che io vi voglio bene ♥
(ps. il titolo è direttamente ispirato al libro di Goethe Die Wahlverwandtschaften)
  
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