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Autore: Shu    08/02/2009    2 recensioni
Le quattro persone che erano passate in quella casa avevano tutte ricevuto amore.
Quattro… il Quadrifoglio… il numero perfetto.
E lei, per una volta, era adesso il cinque, il dispari, l’elemento estraneo, che non partecipava dell’armonia, della straordinaria semplicità che significava conoscere quella gioia.
La pioggia che tutti loro avevano sentito addosso, e lei mai.
Genere: Triste, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Su
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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[Quarta storia per la writing community a tema CLAMP "Daisuki", appartenente dunque alla mia serie "Aenigma"; Il mio set di temi e info sulla raccolta? Li trovate qui.
Tema scelto:
(#30) 06. Rain-speckled hair. Ambientata, per quanto possa sembrare strano, dopo la "fine" di Clover.]

 

 

 

 

Era in un posto dove pioveva.

Dove pioveva dietro ad una finestra, cioè. Non si era accorta della finestra fino ad allora, aveva soltanto sentito il rumore della pioggia, ma, rifletté, doveva aver saputo anche prima che si trovava in uno spazio chiuso, in una sorta di casa, perché l’acqua non le cadeva addosso, e non sentiva freddo, l’aria era ferma.

Ad ogni modo, la finestra c’era. Alta, con l’intelaiatura di ferro e una lunetta in cima, tutta brillante di gocce. Aprendo di più gli occhi si rese conto del chiarore che emanava quella finestra: anche se si vedeva che fuori il cielo era nuvolo, il riquadro del vetro era comunque molto più luminoso rispetto alla casa attorno a lei. La sua vista faceva molta fatica ad abituarsi a quel contrasto. Comunque, adesso aveva la consapevolezza di trovarsi in una casa; le era bastato formulare quel pensiero per esserne sicura. E dire che fino a qualche attimo prima sapeva solo che c’era della pioggia da qualche parte, fuori, che cadeva.

E dire che prima d’allora non aveva mai sentito la pioggia cadere.

La sua mente tornò d’istinto ad un pensiero familiare –anche se in quel momento le sembrava molto distante. Si chiese, come infinite altre volte, dove si trovasse il luogo in cui viveva prima, in cui aveva vissuto per quasi tutta la sua esistenza. Che luogo era, uno dove non pioveva mai? Perché mai, nemmeno una volta aveva visto l’acqua scivolare sulle pareti di cristallo della sua prigione, né aveva sentito quel piccolo rumore rassicurante che adesso occupava l’aria. Ricordò di aver immaginato che la sua gabbia fosse contenuta dentro un’altra gabbia, ancora più grande, per isolarla definitivamente non solo dagli uomini, ma da ogni traccia dell’esistenza di un mondo esterno. Cercò di richiamare alla mente il giorno che era entrata nell’Istituto, per capire se davvero le strutture fossero state due, ma scoprì che era molto difficile afferrare le memorie. Per quanto si sforzasse, per quanto tendesse i suoi pensieri, i ricordi sembravano ritrarsi in un alone confuso, voltarle le spalle per non farsi vedere in viso. Sapere che quei ricordi c’erano, esistevano, nitidi come li conosceva prima, e non poterli raggiungere era una sensazione straniante, che le gettava addosso l’ombra di un’immensa fatica.

Stanca, confusa, rimase per alcuni minuti senza pensare a niente, solo ad ascoltare la pioggia e a riempirsi gli occhi della luce dietro il vetro. Le ci volle un po’ per notare che ora riusciva a distinguere anche qualche dettaglio di quella casa, quelli più vicini alla finestra. Il muro intonacato di bianco, dall’apparenza fredda. Il pavimento a scacchi. Il riflesso di qualcosa di metallico nella semioscurità, ora che si era avvicinata vedeva che si trattava di uno stereo. Ah, perché si era avvicinata? E quando? Quando si era alzata? Perché prima si trovava distesa, seduta? Non riusciva a rispondere a nessuna di quelle domande, non si era accorta di aver fatto nessun movimento, non aveva sentito niente.

Per la verità, non sentiva assolutamente niente. Forse nemmeno di avere un corpo.

Ma lasciò stare, quel genere di pensieri erano troppo pesanti, faticosi.

Si concentrò sullo stereo, scorgendo poco più in là la sagoma di un divano; e in quel momento seppe di essere a casa di Ran e Gingetsu. Non poteva sbagliarsi, riconosceva bene il posto. Del resto, quanti posti aveva visitato nella sua vita? Pochi. Contò nella mente: il ricordo scolorito della casa con la mamma, l’Istituto, casa di Ran, poi una girandola di luoghi attraversati di corsa –un vicolo, un albergo, grattacieli sorpassati in volo- e infine, il Fairy Park. L’appartamento dei due uomini era però uno di quelli che le erano rimasti più impressi. Forse perché, dall’odore del tè ai fogli sparsi sul pavimento all’impressione di libertà e d’amore, di quel luogo aveva invidiato tutto.

“Ran!” chiamò, anche se non sapeva se stava chiamando solo nella sua mente, o ad alta voce. “Ran? Signor…Gingetsu?”

Il silenzio che ricevette in risposta era talmente alto e compatto da darle la certezza che la casa era vuota.

Riabbassò lo sguardo sullo stereo e stavolta si allungò verso i pulsanti. Le bastò avvicinarsi che un’immagine prese corpo in mille spirali sulla base tra le casse… l’immagine di una donna…

Una statua che cantava…

Oluha.

Rimase incantata, col cuore gonfio di emozione, a guardare il piccolo ologramma. Era un po’ disturbato, come accadeva con i vecchi movie, e non c’era nemmeno il sonoro anche se la figura muoveva le labbra e le mani. Ma riconosceva benissimo l’immagine, e l’ondata di felicità che l’aveva presa, la stessa di quando era entrata in quel luna-park abbandonato; e scoprì di ricordare le parole di tutte le canzoni.

“Love…” le venne in mente, e cominciò a mezza voce, non le importava più di sapere se i suoni le uscissero dalla gola o se esistessero solo al suo orecchio.

“Love… though you’ll laugh, in the entire world, the most important word…”

Dallo stereo pendevano almeno una dozzina di cavi. Mentre cantava, lei ne prese uno, quasi automaticamente, inserì lo spinotto; e sussultò nel vedere che il suo ologramma si scomponeva per lasciar posto ad un’altra figura.

La stanza si riempì all’improvviso di musica, di una voce intensa che era dappertutto, come se i muri nascondessero decine di casse.

“God, please tell me, redder than red, the truest love.

Love… though you’ll laugh, to us, the most important word.”

“Oluha…” sussurrò lei, e cadde in ginocchio davanti all’immagine, la vista che le si allagava di lacrime.

Aveva davanti, per la prima volta, com’era veramente Oluha.

Si tese quasi ad accarezzare con le ciglia l’ologramma, inebriandosi di ogni dettaglio. La donna aveva una gran massa di capelli neri e ricci, che si avvolgeva attorno alle dita mentre cantava. Era bellissima, di una bellezza particolare, coi grandi occhi truccati e le labbra lucide di rosso, e indossava un vestito tutto lacci e spacchi che sembravano fatti apposta per attirare gli sguardi. Sorrideva sempre.

Di colpo, la visione che aveva avuto di lei per tutto quel tempo le apparve pallida e scialba. La statua che aveva fatto creare, col suo viso triste e la corporatura troppo da ragazzina, non rendeva l’idea della donna. Non era affatto come si era immaginata.

Era molto più straordinaria.

“Non trovi che le somigli?”

“Per niente.”

Aveva davvero ragione quando le aveva detto così… Kazuhiko.

Il suo frammento di mondo in penombra vacillò e per un attimo si spense.

Kazuhiko…

Si aggrappò al mobile dello stereo. Non era mai svenuta in vita sua, ma pensò che doveva essere così. O forse no, era solo una vertigine. Neanche di quelle ne aveva mai provate, il suo potere poteva sostenerla in alto, tanto in alto quanto riusciva a immaginare; ma nessun volo le aveva dato il capogiro che era adesso la consapevolezza di ricordare quel nome, di avere tra le mani tutti, tutti i momenti che aveva passato con lui.

Kazuhiko…

La sua sagoma in controluce, dietro il fumo d’una sigaretta. L’odore di quelle sigarette, e dei suoi vestiti, il rumore del suo respiro affannato. Un’immagine lucidissima di quegli occhi, duri, concentrati, ma con in fondo ancora qualcosa che guizzava, forse le tracce di un’allegria, di scherzi, di voglia di ridere. Il calore di una mano che stringeva la sua.

Il calore, la mano di Kazuhiko.

“Now, come close to me; I’ll sing an endless song…”

Ma era per lui che Oluha cantava quella canzone, era a lui che diceva quelle parole, e forse anche gliele sussurrava all’orecchio, in abbracci che lei non riusciva ad immaginare, nel buio delle loro notti… un buio che mai, ne era certa, mai era stato come quello che lei ora si vedeva intorno –come quello delle notti tutte uguali dentro la sua prigione.

Questa volta sentì con chiarezza le ciglia bagnarsi di lacrime, e il calore scivolare lungo le guance.

Quella canzone era nello stereo di Ran e Gingetsu, perché forse anche loro l’ascoltavano dialogando l’uno con l’altro nel silenzio. Un silenzio senza i cigolii del passo degli automi, il ronzio degli uccelli meccanici: no, solo uno spazio sconfinato, dove ascoltare il respiro di un altro, e immaginare il modo per renderlo felice.

Tra quelle mura, il suo potere coglieva le tracce di chi vi era passato: una presenza salda, taciturna, poi una più lieve, fresca e sfuggente come acqua, un passo chiassoso e irrequieto sui pavimenti, e infine, più lontana di tutti, l’ombra di un profumo di donna.

“Love…”

Le quattro persone che erano passate in quella casa avevano tutte ricevuto amore.

Quattro… il Quadrifoglio… il numero perfetto. E lei, per una volta, era adesso il cinque, il dispari, l’elemento estraneo, che non partecipava dell’armonia, della straordinaria semplicità che significava conoscere quella gioia.

“Love…”

Amore, che si era riversato su di loro inarrestabile e generoso come la pioggia dietro la finestra, finché non aveva riempito ogni piega dei loro vestiti, ogni centimetro della loro pelle, ogni pensiero e l’aria che respiravano.

La pioggia che tutti loro avevano sentito addosso, e lei mai.

Avvertì il gelo del pavimento sotto le piante dei piedi mentre si avvicinava alla finestra. I vetri erano appannati di una strana condensa che rendeva indistinguibile il mondo là fuori; poteva riconoscere solo il grigio del cielo, gli aloni soffusi dei neon. E le gocce.

Immaginò che fuori fosse molto freddo, immaginò il colore dell’asfalto bagnato; ritrovò nella mente lo spaccato di una visione che un giorno le aveva offerto il suo potere.

Un ragazzino piccolo, coi capelli lunghi, raggomitolato per terra sotto il diluvio, in mezzo alla folla, a mille passanti che lo guardavano ma non si fermavano mai.

Il Trifoglio fuggito… quello che aveva per nome solo una lettera… Ran.

E immaginò anche il dopo, quello che sapeva essere successo, anche senza averlo visto. Si figurò nella mente l’imponente profilo del soldato, la frangia, il cappotto grondanti d’acqua, stagliarsi contro il cielo vuoto, inginocchiarsi a raccogliere il bambino.

E la pioggia cadeva.

“Ti disturbo, Oluha? Sei con il tuo… fidanzato?”

Una piccola risata, dall’altra parte del telefono.

“Macchè, Kazuhiko è a casa. L’altra sera è venuto al mio concerto, diluviava, ma lui si era scordato l’ombrello… risultato, ora è a letto con la febbre. Gli uomini a volte sanno essere veramente scemi, sai, Suu?”

E la pioggia cadeva. E lei si vedeva l’uomo che correva tra la gente e le pozzanghere, imprecando, tirandosi l’impermeabile sopra alla testa, e poi la donna, che invece rideva, i riccioli imperlati di gocce, e si faceva trascinare per mano sotto l’acqua.

Capelli bagnati di pioggia, tracce di una tenerezza, di un mondo che a lei era precluso.

Dietro la finestra, il diluvio scendeva giù, come le sue lacrime.

Perché era lei, ad essere stata sempre rinchiusa lontano dal mondo, in un angolo dove tutti potevano far finta che lei non esistesse, e così anche lei stessa aveva finito per far finta di non esistere, e non era giusto, no…

Non era… giusto?

Ma davvero… non era giusto?

Sentiva che poteva respirare, adesso, anzi, che boccheggiava –inspirò profondamente, e insieme all’aria, al suo sapore stordente, le entrarono dentro nuovi pensieri.

Nuovi, vecchi pensieri, quelli che in fondo sempre erano stati nella sua mente.

Forse era sempre stata rinchiusa perché così doveva essere. Perché la sola volta che era voluta uscire aveva messo in pericolo le vite di tanti, di quelli a cui voleva bene –adesso ricordava tutto, anche come era finito il suo viaggio.

Perché la scintilla di quell’amore piccolo, immaturo, immaginato, la scintilla d’amore che portava dentro di sé era troppo potente per quel mondo.

Un mondo in agonia, che si reggeva sui fili della tecnologia e della tirannide, del doppio gioco e della corruzione, dove il potere era tutto –un simile mondo non poteva reggere il peso della sconfinata semplicità di un amore.

Sì, lei era sempre stata il dispari, l’estraneo, l’elemento diverso, perché aveva sempre avuto dentro di sé qualcosa di troppo grande: così era stato per il suo dono, così era adesso per quell’amore irrealizzabile, rovinoso. Ma da altrettanto tempo aveva imparato a tenere quell’enormità sigillata tra i piccoli confini del suo corpo di bambina. A riporre tutte quelle cose dentro di sé, e rinchiudercisi, accoccolata nel posto caldo dei suoi pensieri, dei suoi sogni, dei suoi desideri.

Aveva sempre vissuto di niente, solo con l’infinità della sua anima.

Adesso, aveva ricordi che le sarebbero bastati per colmare cento esistenze.

Adesso, non piangeva più.

Posò il palmo contro il vetro di una finestra che non sapeva se fosse vera oppure no, il palmo di una mano che non sapeva neppure se esisteva. Forse quella casa attorno a lei era solo la costruzione di un’immaginazione, oppure anche dopo la morte si sogna, e quello era il suo sogno. Forse la sua vita si era spenta. O forse no.

O forse, tutto questo non aveva più molta importanza.

Lei c’era.

E aveva un posto dove stare, un cuore colmo di mille minuscole cose. Quelle minuscole cose che rendono vera un’esistenza. Sulla sua pelle era caduta soltanto una goccia d’affetto, di felicità, d’amore, ma quella goccia aveva tinto il suo essere per sempre. Ed era più che abbastanza.

Aveva quella consapevolezza, aveva una casa, aveva un vetro dietro cui veniva giù la pioggia, e un raggio di sole.

E d’improvviso, allungò la mano, spalancò la finestra e chiuse gli occhi.

L’acqua sul viso e tra i capelli, i rumori del mondo, l’aprirsi del cielo alto sopra la città, alto come il suo spirito, sospeso senza ali fuori da ogni prigione, finalmente libero…

Per la prima volta, la pioggia.

Per la prima volta, aveva voglia di ringraziare per essere viva.

 

 

 

Tra le rovine buie e contorte che si stagliano contro il cielo dell’alba, tra il fumo e i bagliori dell’incendio, in mezzo al nulla, alla polvere e al sangue, una bambina si alza in piedi.

   
 
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