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Autore: CaskaLangley    04/03/2005    7 recensioni
Un raccontino sull'arco di tempo che Cloud trascorre a Nibelheim, dopo all'incidente nel giorno della morte della madre di Tifa.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Cloud Strife, Tifa Lockheart
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: FFVII
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OMOI 

"....keep this a secret... please..."
"an important wish... no one would ever understand..." 



1.1
Era mezzo soffocato dal sangue.
C’era tanto di quel sangue che gli otturava le vie respiratorie, gli sembrava di morire.
Poi un rumore brusco, voci forti, ben distinte, gli fecero pensare che forse sarebbe bastato alzarsi dal suolo perché gli si strappasse di dosso la certezza della fine.
Non riuscì a tirarsi su subito, ma sollevò appena la testa e soffiò forte col naso; grossi grumi di sangue in getto macchiarono la terra grigia, ed anche se il sangue continuava ad uscire e dovette tirare indietro la testa per non ingoiarlo, ora poteva respirare.
C’erano ancora voci. Quando riuscì a concentrarsi su quanto gli stava attorno, con ancora la testa dolorante, confusa e strapiena di un denso e nero catrame, capì che qualcuno si stava rivolgendo proprio a lui.
Provava a muovere la gamba, ma faceva troppa fatica; il ginocchio gli faceva il male di una lama e di uno strappo messi assieme.
Cercò di capire che avesse intorno, cosa gli stessero dicendo. Gridando. –perché gridavano?
Realizzò.
Si buttò in avanti ed il sangue trattenuto si riversò velocemente sulle labbra.
Stesa, in quella parte dove il terreno era più roccioso, i capelli le cadevano scompigliati tutt’attorno, sulle spalle, sulla terra, sul petto, sopra il viso. Il suo viso carino, confortante. Poi notò il sangue, sotto la sua testa. S’apriva e s’espandeva come una macchia d’acquerello, solo infinitamente più scura e più densa.
Suo padre la stava chiamando, ma chi era con lui gli impedì di continuare a scuoterla. Se solo avesse potuto, anche lui lo avrebbe fatto, avrebbe gridato che bastava così, che quel corpo non andava agitato, solo accarezzato, che alle sue orecchie non dovessero giungere le urla, solo i sussurri. Ma non poteva perché Cloud non sapeva usare le parole. Non sapeva neppure cosa fossero, quasi, le parole.
Ecco perché non parlò.
“Come hai potuto portare Tifa in un posto così pericoloso?!”
E non parlò mai.
Il padre di Tifa la prese in braccio e la portò via.
Cloud aspettò che il ginocchio gli facesse meno male, aspettò a lungo e alla fine visto che non cambiava niente si alzò faticosamente e saltando e zoppicando e trascinandosi si diresse in paese. Gli andò incontro sua madre, l’avevano lasciata andare da sola nonostante le montagne fossero così pericolose.
Lo abbracciò e lo aiutò a tornare a casa, mentre era seduto sul suo letto e con acqua fresca gli veniva pulito il viso non rispondeva alle domande che gli venivano fatte, anche a quelle che almeno un po’ capiva. Era tutto confuso, una sola cosa era chiara.
Tifa.
Quella bambina che gli faceva accelerare il cuore quando gli passava accanto. Quella bambina che andava d’accordo con tutti, eppure sembrava anche diversa, da tutti, sembrava così matura, così intelligente e dolce, così…famigliare. Nonostante non le avesse nemmeno mai parlato.
Con lei nella testa si addormentò, nonostante il dolore al ginocchio.
Quando si svegliò, non sapeva dire se fossero passati giorni o secondi, riuscì a domandare con estrema fatica: “Come sta?”
Sua madre pianse di gioia nel vederlo parlare. Lui invece voleva piangere e basta.
Abbassò gli occhi su una fasciatura, la sua gamba era steccata.
Chiese di nuovo, sforzandosi di più perché temeva di non essere stato chiaro: “Come sta?”
“Non è colpa tua.” Disse sua madre, stringendolo al seno “Tesoro, non è stata colpa tua.”
E invece si, lo era, lui lo sapeva. E non perché glielo avevano detto, ma perché era chiaro che avrebbe dovuto fare qualcosa, avrebbe dovuto poter fare qualcosa, e invece era stato troppo lento, troppo goffo, troppo…debole.
Questa, era la sua colpa. Non essere stato forte abbastanza da proteggere la sola persona di cui desiderasse l’attenzione. La gratitudine. L’amicizia, forse.
Il denso e nero catrame stagnava. Immaginava che non si sarebbe mai asciugato.



1.2
Ancora il sangue nella bocca. Era una sensazione famigliare, ormai, da molto tempo. I segni della sua giornate si tracciavano nel sangue, quello che perdeva o che faceva perdere, quello che inghiottiva o tirava su col naso. E poi nei lividi, nell’ecchimosi, nei graffi di una semplice caduta.
Il suo corpo si rovinava con troppa facilità.
Il suo corpo era troppo debole.
Si alzò in piedi reggendosi a una gamba del serbatoio.
Guardò il suo avversario sfidandolo a continuare, a scagliarsi ancora contro di lui, a farlo ancora soffrire. A contribuire a rendere il suo corpo più forte.
Invece il bastardo pianse, giocandosi così l’ultima schifosissima carta. Aveva diciassette merdosissimi anni e strillava come una scolaretta di undici chiamando la mamma.
Cloud non se ne andò neanche, ormai dipendeva da quelle scene.
Dalla gente che vociava e da quella che invece lo accusava, da chi gli dava del pazzo e da chi non smetteva mai di ricordargli che sarebbe finito su una brutta strada, se continuava così.
A casa, mentre sua madre lo rattoppava come un vecchio pupazzo, pensò che ne voleva ancora.
Era impagabile quella sensazione, come le persone che vedi ogni giorno da sempre improvvisamente ti sembrino nuove e interessanti nel momento in cui notano quanto problematico sei, quanti guai riesci a crearti, quanti nasi riesci a spaccare e quanti puoi fartene spaccare senza crollare. Era intensa. Potente più del dolore, potente più di ogni altra cosa.
Quasi ogni altra cosa.
Di notte, Cloud apriva la finestra e guardava verso l’alto.
Sperava sempre che avrebbe intravisto la figura di Tifa, anche solo di sfuggita, si sforzava di ricostruire nella memoria la sua camera da letto, il suo volto così come lo intravedeva segretamente quando incrociava alla lontana il suo cammino.
Non la vedeva chiaramente da così tanto tempo che aveva paura di dimenticare come fosse fatta.
Ma poi, quando chiudeva la finestra, si stendeva nel suo letto e la tracciava sul soffitto.
Occhi da gatta, crenati di rubino, contornati da un ventaglio fittissimo di ciglia che s’alzavano e abbassavano insieme alla palpebra sottile, eleganti come la ruota di un pavone.
Il naso piccolo, le labbra d’un bel rosso delicato anche al naturale, in perfetto rilievo rispetto al viso, labbra che immaginava morbide e lisce anche quando la guardava mangiucchiarsele, un viso regolare e un po’ pallido, colorato alle gote come la buccia di una pesca matura.
Da qualche tempo, impossibile dire esattamente quanto, nutriva interesse per le sue spalle nude, che sembravano piene di salute nonostante il chiarore, per il suo collo d’avorio e quel seno rotondo che non la smetteva di crescere, che sotto le magliette e i vestitini a volte ancora da bambina rimbalzava ammiccando allo sguardo. Immaginava i suoi fianchi solidi e pronunciati, le natiche modellate dall’esercizio che stava seguendo, le gambe lunghe e snelle. Il suo calore, tutta la sua morbidezza.
Non sapeva come fosse successo la prima volta, ma era diventata una deliziosa abitudine toccarsi pensandola. Giusto un poco, per non farle altro male.
Allora non aveva assolutamente idea di cosa fosse esattamente il sesso, non aveva che vaghe impressioni e scene colte qua e là da racconti carpiti per caso o dalla televisione, ma sapeva che per accendere il suo desiderio doveva pensare a Tifa, impegnarsi per creare il più verosimilmente possibile il suo corpo sopra o sotto di lui.
E dopo si sentiva una merda, quando passata l’euforica tranquillità che gli dava lo svuotarsi sul suo ventre immaginario tornava chiara e precisa la certezza che mai e poi mai avrebbe potuto essere degno di lei, non importava quante facce spaccasse ogni giorno.
Non vedeva Tifa a più di cinque metri da sette anni.
Sapeva che esisteva, sentiva la sua presenza, ma non poteva avvicinarla.
S’attaccava avidamente al suono della sua voce quando squillava anche lontano da lui.
Si chiedeva se profumasse ancora vagamente di borotalco o l’odore della sua pelle stesse diventando quello di una femmina, una donna vera, non una fantasia.
Il catrame restava. Se possibile, lo riempiva sempre di più. Poteva cacciarlo venendo, ma come una risacca poi tornava indietro.
Era chiaro che non poteva perdonarsi.
 


1.3
“Cloud…” sospirò sua madre, con quel tono di voce che solo le madri conoscono, quella specie di rimprovero sussurrato una fievole corrente di rammarico, come se per loro fosse proprio impossibile non sentirsi colpevole.
Cloud era impegnato; pungolava con l’indice la guancia sinistra per tastare dall’esterno la consistenza della gengiva spappolata, per spingere altro sangue sulla lingua ed assaporarne l’essenza ferrosa.
“E dire che sei stato cresciuto da una donna sola…”
Cloud trasalì, ma senza cambiare né l’espressione né la posizione.
Dondolava le gambe e non riusciva a capire cosa sua madre intendesse dire, se siccome era stato cresciuto da una donna avrebbe dovuto essere più femminile o semplicemente avrebbe dovuto avere più riguardo nel non causarle ulteriori problemi.
Non chiese spiegazioni, non piaceva a nessuno dei due parlare di papà, nonostante non avessero -almeno dichiaramene- cattivi ricordi di lui. Cloud non aveva praticamente nessun ricordo, di lui.
L’assistente del dentista si sporse in sala d’aspetto e chiamò per cognome una donna rubiconda.
La madre di Cloud gli premette un fazzoletto contro le labbra che stavano colando liquido rosso.
“Oh, Cloud…” ripeté sospirando.
Lui era seccato da queste attenzioni che lo facevano sentire uno stupido bambino di otto anni. Ne aveva quattordici, ormai, e voleva essere trattato da uomo.
Scostò seccatamene la mano della donna e prese un giornale a caso dalla pila alla sua destra. Si trattava di un quotidiano vecchio di una settimana, più o meno, ma leggerlo non gli interessava davvero, voleva solo focalizzare la sua attenzione di qualcosa di diverso dalla sua bocca sanguinolenta.
Le prime pagine erano ormai da tempo occupate dalle cronache della Guerra di Wutai. Non si era mai soffermato ad ascoltare nessuna notizia che ne parlasse e quando sentiva qualcuno discuterne si tappava moralmente le orecchie. Non gliene fregava niente di una guerra che si combatteva a mille miglia da lì, quando ogni giorno lui combatteva piccole battaglie ben più dure con se stesso.
Ma qualcosa lo bloccò sulla foto in bianco e nero che occupava un quarto di pagine.
Fece conoscenza con la leggendaria immagine del Grande Sephiroth.
Una goccia di sangue cadde sul giornale e sua madre sospirò: “Oh, Cloud…”



1.4
La cosa assurda fu che lo fece davvero.
Impossibile, improponibile, solo un mese fa.
Ci aveva pensato molte volte prima di allora, certo, ma mai seriamente. Non aveva fiducia in se stesso abbastanza da mettersi anche solo a pensare una cosa del genere.
Ma adesso era diverso. Adesso aveva un desiderio.
Le cose sarebbero cambiate. Le cose dovevano cambiare. Le avrebbe fatte cambiare.
Cosa avrebbe lasciato, dopotutto?
Sua madre…ma quello era un favore che le faceva. E in quanto al paese, e a tutti quelli che lo abitavano…da quelli se ne andava volentieri.
C’era lei, certo…lei…
Era per lei, si ripeteva, era tutto per lei.
Per diventare il tipo di uomo che avrebbe potuto proteggerla. Per diventare il tipo di uomo che lei…
E quando lo sarebbe diventato, allora anche lui avrebbe cominciato a sopportarsi, a tollerare di vivere nel proprio corpo, con la propria faccia. Anzi, sarebbe stato fiero di guardarsi, e di farsi guardare. Sarebbe stato un eroe. Degno del Grande Sephiroth. Si sarebbe distinto in guerra per la sua potenza e il suo coraggio, tutti lo avrebbero ammirato, tutti lo avrebbero riconosciuto.
E quando questo sarebbe successo…sarebbe tornato da lei.
Per dirle che poteva proteggerla, adesso.
Che era diventato il tipo di uomo che lei…Ci sarebbe riuscito. Sicuramente.
Per questo, si era deciso a farlo.
L’aveva vista, affacciata alla sua finestra. E l’aveva chiamata. Le aveva chiesto di vedersi, quella notte, al serbatoio. Suo padre doveva averlo sentito perché l’aveva portata via, rimproverandola di qualcosa. Ma lei lo aveva guardato, i suoi occhi da civetta dei boschi, ed aveva annuito.
Impossibile, improponibile, solo un mese fa.
Sua madre gli chiese cosa volesse mangiare. Non faceva che sospirare e guardarlo con dolore. Da quando, dopo insopportabili insistenze, le aveva fatto accettare l’idea che suo figlio si sarebbe arruolato, viveva ogni giorno come se fosse l’ultimo della sua vita.
Cloud capiva come dovesse sentirsi, non era così insensibile.
Lui era rimasto l’unico uomo della sua vita, e si preparava ad abbandonarla in primavera, la stagione in cui sbocciano i fiori e dovrebbe essere tutto più vivo, tutto più famigliare.
Ma nel suo futuro Cloud vedeva qualcosa di più di una squallida vita di paese, qualcosa di più di un impiego a Midgar, casa-lavoro giorno dopo giorno, fino alla fine.
Quello che vedeva brillava troppo forte per ignorarlo.
Aveva un desiderio, ora. Troppo importante per lasciarlo andare.



1.5
“Io so perché combatto.
Per salvare il Pianeta, certo.
Ma oltre a questo, ho delle ragioni personali.
Un desiderio, molto personale.
E voi?
Voglio che tutti voi cerchiate qualcosa del genere dentro voi stessi.
Se non lo trovate, beh, va bene lo stesso.
Non si può combattere senza una ragione, giusto?
Quindi, non ce l’avrò con chi non dovesse tornare.”
Essere ascoltato, essere guardato, essere rispettato…in che forma aveva ottenuto tutto questo?
Una forma fasulla? Forse.
Ma poi, quando anche l’illusione era crollata, Cloud aveva aperto gli occhi ed aveva trovato ancora tutti attorno a lui. A loro non importava che non fosse un SOLDIER. Non importava che non fosse Sephiroth, o che non fosse Zack. Loro si accontentavano di lui.
Poca roba, pensava, ma è una sensazione piacevole.
Sul ponte di comando dell’Highwind ascoltava ogni parola, i discorsi sottilmente imbarazzati di chi non sa se dire ‘ci vediamo’ oppure ‘addio’, e finisce così per dire sciocchezze, inutilità. Cose consolanti, in fondo.
Cloud si guardò le mani, i guanti rovinati e segnati dalle battaglie.
Si può dimenticarlo, il sapore del sangue? Si può fare qualcosa per cancellarne le tracce, o quello che versi, quello che perdi, s’attacca dentro di te come nero catrame?
E se tutto il sangue che hai versato per arrivare fino a qui non dovesse bastare?
Se dovessi…fallire, anche questa volta?
Cloud si girò e vide che Tifa si stava congedando da Barret; celava così bene il dolore da sembrare triste.
Se dovessimo fallire, Tifa?
I loro sguardi si incrociarono e lei gli sorrise.
Cloud realizzò che in qualunque modo sarebbe andato bene, l’importante era combattere per il suo desiderio, il più che poteva, fino alla fine. Non poteva dubitarne proprio ora.
Anche se l’eco del cratere attraversato dal vento gli faceva paura, Cloud sorrise a sua volta.

  
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