Capitolo
16
Elena's
POV
Tutti
pensavano che mi stessi arrendendo, e in un certo senso era
così.
Ma
la scelta spettava a me.
Era
mia.
Non
ne potevo più di essere coccolata e tenuta sotto una campana
di vetro. Ero una
donna adulta, ed era ora che iniziassi a comportarmi come tale.
Se mi restava da vivere poco tempo, sarei stata io a decidere come
trascorrerlo.
Io.
E nessun altro.
Nel
breve periodo passato insieme, Damon era riuscito a darmi un assaggio
di come
avrebbe potuto essere se le cose fossero state diverse, se fossi stata
normale.
Pensare alla vita che avremmo potuto avere lasciava l’amaro
in bocca, e faceva
male sapere che non sarebbe mai stata nostra. Ma ero stata a lungo
negli
ospedali e isolata dal resto del mondo, perciò sapevo quanto
dovevo ritenermi
fortunata di avere a disposizione anche solo quel poco tempo che mi
restava.
E
lo volevo trascorrere con Damon, non a lottare per una causa persa.
Sentii
bussare alla porta e alzai lo sguardo. Vederlo entrare in quella stanza
mi
ricordò di tutte le volte che l’aveva fatto.
Ciononostante, il suo arrivo mi
riportò alla mente tanti bei ricordi.
Avevo
dormito la maggior parte del tempo e la giornata era volata senza che
me ne
accorgessi. Fuori si era fatto buio, e la luce della luna illuminava la
sua pelle.
"Non
potevo starti lontano", disse Damon, avvicinando una sedia al letto.
Benché
cercasse di apparire tranquillo e allegro, si vedeva che era abbattuto.
"Il
dottore ha detto che le analisi sono a posto, per cui dovrebbero
dimettermi
domani"
"Bene"
intrecciò le dita alle mie, la fronte aggrottata.
"Parlami,
Damon. So che sei arrabbiato per via della decisione che ho preso, ma
io…"
Si
alzò e si mise sul letto, accanto a me.
"Adesso
non ho voglia di parlare", disse sfilandosi la maglietta per poi
gettarla
a terra.
Le
mie mani furono subito sul suo petto scolpito, sui muscoli definiti.
"E
se entra qualcuno e ci scopre?" chiesi alzando lo sguardo lentamente,
fino
a incontrare il suo.
"Gli
altri li mandati a casa a riposare, e il dottore è in pausa.
Di tutti gli altri
me ne frega ben poco"
Quelle
parole mi eccitarono, e feci subito per spogliarmi.
Ma
lui mi fermò.
"No,
lascialo fare a me"
E,
come se avessimo a disposizione tutto il tempo del mondo, mi tolse un
capo alla
volta, ammirando ogni centimetro della mia pelle che restava scoperto.
"Passerei
la vita a guardarti", mormorò.
Cominciò
a baciarmi ovunque, e io iniziai a muovermi e a strusciarmi addosso a
lui, che
tirò fuori un preservativo dal portafogli e si tolse il
resto dei vestiti.
Coprendoci col lenzuolo, si mise sopra di me. Ogni carezza era lenta,
ponderata, come se volesse memorizzare ogni curva, ogni
linea
del mio corpo, come se mi stesse già dicendo addio.
Gli
presi il mento e feci in modo che mi guardasse.
"Ehi,
sono ancora qui con te"
Lui
non disse niente, la sua unica risposta fu un lunghissimo bacio
straziante. Gli
infilai le dita tra i capelli e l’attirai più
vicino a me: non si doveva fermare.
"Piano.
Stasera voglio farlo così", mi sussurrarono le sue labbra,
sfiorandomi il
collo.
Era
molto diverso dal modo febbrile e appassionato in cui
l’avevamo fatto le altre
volte. Travolto dalle emozioni e dalla rabbia, Damon era stato
sfrenato. Adesso,
le stesse emozioni erano ancora presenti e si agitavano sotto la
superficie, ma
erano diverse.
E,
mentre mi teneva il viso e mi guardava con tutto l’amore e la
devozione del
mondo, io sentii che c’era qualcosa che mi sfuggiva.
"Ti
amo, Elena Gilbert", disse.
Poi
mi penetrò, dandomi un piacere che
s’irradiò in tutto il corpo. Senza mai fermarsi,
continuando a muoversi lento, iniziò a baciarmi, mi
accarezzò le spalle,
circondò i seni tondi, per poi, finalmente, afferrarmi i
fianchi e affondare
ancora di più, facendomi godere.
I
baci camuffavano i gemiti, mentre lui si agitava per raggiungere
l’orgasmo, che
arrivò pochi secondi dopo.
Ci
rivestimmo, e io tornai ad accoccolarmi vicino a lui. Mi piaceva
sentire il
calore che emanava. Tra le sue braccia non sentivo mai freddo. Mi
addormentai
così, stretta nel suo
abbraccio,
sentendomi al sicuro.
-
Mi
svegliai, spaventata. Mi allungai per cercare Damon al mio fianco.
Ma
lui non c’era più.
Mi
strofinai le braccia per ritrovare il calore che avevo perso,
perché lui se n’era
andato. Lasciai correre lo sguardo in tutta la camera, nella speranza
di scorgere
la sua sagoma in un angolo buio.
Ma non c’era.
Con
la coda dell’occhio notai che c’era qualcosa sul
comodino. Mi girai e trovai
una nostra foto, come una polaroid..lui che con la macchinetta in mano
e io
vergognosa che poggiavo la fronte sulla sua spalla, cercando di
nascondermi..ma
un sorriso mi aveva tradito. Come ora. Sorrisi e la presi, per poi
stringermela
al cuore, come fosse stata la cosa più preziosa del mondo.
Fu
allora che mi accorsi della lettera.
Su
una busta bianca, Damon aveva scritto il mio nome.
Mi
tremavano le mani mentre l’aprivo.
"Elena,
sappi che questa è la cosa più difficile che
abbia
mai fatto.
I giorni passati con te sono stati i più belli e
sereni di tutta la mia vita.
Non ci sono parole per spiegare cosa significa
perdere la persona che ami.
Mi hai insegnato ad amare di nuovo, a vivere di
nuovo. Hai dato una ragione alla mia esistenza.
È per questo che non posso restare a guardarti
morire.
Perché, se lo facessi, non credo sopravvivrei.
Mi dispiace.
Damon"
La
lettera si sgretolò tra le mie mani, mentre le lacrime mi
bagnavano il volto. Chiudendo
gli occhi, mi tornarono alla mente il suo sguardo combattuto, le
carezze
incerte della sera prima, quando avevamo fatto l’amore.
Lo
sapeva già.
Mentre
io cercavo di capire come mai avesse un’aria così
malinconica, lui mi diceva
addio, con ogni bacio, ogni carezza.
E
adesso se n’era andato.
Quando
mi resi conto di quello che era successo, il mio pianto disperato
straziò il
silenzio della stanza. Mi aveva lasciata da sola.
No,
cambierà idea. Ha soltanto bisogno di tempo.
Cercai
il cellulare.
Adesso
gli mando un messaggio. Gli dico di tornare,
per parlarne insieme.
Gli
avrei spiegato di nuovo le mie ragioni, e lui avrebbe capito.
Saltai
giù dal letto e andai a prendere lo
zaino che Damon aveva preparato per me. Rovistai al suo interno, trovai
vestiti,
cose per il bagno, e infine il telefono. Ma il suo numero in rubrica
non c'era
più.
Lo
aveva cancellato. Mi aveva cancellato dalla sua vita. Non voleva essere
trovato, e questo mi uccise più della malattia.
Rimasi
immobile in mezzo alla stanza. Adesso capivo tutta
l’enormità di ciò che era
accaduto.
Damon
se n’era andato… E non sarebbe mai più
tornato.
-
Tornata
a Casa Salvatore, nulla era più come prima. Il freddo mi
stava uccidendo
l'anima, perché nonostante le coperte il gelo era dentro il
mio cuore.
Ma
non lo odiavo. Affatto. Odiavo il fatto di non odiarlo.
Bussarono
alla porta: era Elizabeth che veniva a controllare come stessi. Tornava
ogni
ora. Lei e Olga non mi lasciavano mai da sola. Per essere una che stava
lentamente morendo, stavo benissimo.
Ciò che le preoccupava era il mio stato emotivo. Nonostante
la causa fosse suo
figlio.
"Ciao,
tesoro. Ti ho portato la cena", disse Elizabeth con un vassoio in mano.
"Non
ho fame"
"Elena,
devi mangiare", insistette, mettendolo vicino al letto.
Mi
tirai su e mi sedetti a gambe incrociate, quindi guardai il piatto e
scossi la
testa.
Allora
mia madre sbuffò.
"Dai,
Elena, io ce la sto mettendo tutta, ma tu mangi appena, non parli con
nessuno e piangi
fino allo sfinimento. Non so più cosa fare. Da quando
Damon…"
"No!
Non voglio parlare di lui", dissi, alzando una mano per fermarla.
"Va
bene. Ma almeno mangia. Sono preoccupata"
Nel
vedere gli occhi lucidi sul suo volto, mi si strinse il cuore.
"Scusami.
Mi riprenderò, te lo prometto. Ho soltanto bisogno di tempo.
E poi, guarda,
adesso mangio", dissi prendendo la forchetta.
"Bene.
Posso restare qui con te?" mi chiese con un sorriso appena accennato.
Io
annuii, facendole spazio sul letto. Damon non si vedeva più.
Olga mi aveva etto
che era andato a stare da un amico, per non rimanere qui. Per non
vedere me.
Grazie
al cavolo.
Presi
il telecomando e accesi la TV: guardare qualcosa di scemo,
anziché parlare, mi
avrebbe fatto bene.
E
invece no, porca miseria. Mi
si strinse lo stomaco e mi venne la nausea.
Di
fronte ai miei occhi, in perfetta qualità HD,
c’era Damon, che con indosso un
jeans e la sua solita maglia entrava in un locale con Finn e...Rebekah.
Era
circondato da
telecamere e microfoni, che lui cercava di allontanare. Il gossip
molesto e
nauseante.
Le
telecamere continuarono a seguirlo e i giornalisti non smettevano di
fargli
domande. Ma lui li ignorò e sparì
all’interno dell’edificio.
Elizabeth
spense la TV, io però rimasi a fissare lo schermo nero.
"Stai
bene?" mi chiese.
"No",
risposi onestamente.
Perché
Elizabeth non dice niente?
Nessuno lo fa. Non è nemmeno un po' disgustata?
Se
non altro adesso avevo la risposta che cercavo. Sapevo
dov’era. Era tornato a
casa, alla sua vita normale, lontano da me.
Amare
una persona come me, vivermi accanto, era troppo difficile.
Aveva
scelto la strada più facile, quella più sicura.
Proprio
come avevo fatto io.
Damon's
POV
Alle
sette in punto, lo schermo del cellulare
s’illuminò: era mio padre.
Presi
subito il telefono e risposi:
"Ehi"
"Ciao,
figliolo"
"Come
sta oggi?" gli chiesi, e m’immaginai il sorriso sulle sue
labbra.
"Sei
come un disco rotto"
"Ti
prego"
"E
va bene. Sta meglio. Ha finalmente ricominciato a mangiare. Tua madre e
Olga non
la lasciano mai sola e sembra che piano piano si stia riprendendo"
"Ma
sono passate tre settimane"
"Sì,
d’accordo, ma tu l’hai lasciata… nel
cuore della notte. Ti aspettavi una
reazione diversa?"
Poggiandomi
allo schienale del divano di casa di Finn, mi strinsi il naso tra
pollice e
indice.
"Quando
glielo dite?"
"Domani.
Le diremo che abbiamo presentato ricorso e che l’abbiamo
vinto.»
"Pensi
che ci crederà?"
"Non
lo so. Lo spero. Sennò questa cazzata non sarà
servita a niente
"Bene"
sorrido tristemente
"Non
è per niente felice", mi confessò.
La
sua voce tradiva stanchezza e rammarico.
"Allora
siamo in due. Ma continuo a preferire il suo odio al suo amore, se
questo
significa che continuerà a vivere, che non
morirà. Non mi perdonerei di non
aver fatto tutto il possibile"
"Spero
tu sappia ciò che stai facendo"
Ignorai
quelle parole. Non lo sapevo più quello che stavo facendo,
maledizione.
"Adesso
i soldi ci sono: fai quello che devi fare. Ci sentiamo
domani», dissi prima di
chiudere la telefonata
e buttare il cellulare sulla scrivania.
Elena's
POV
"Avete
fatto ricorso?" urlai, sbattendo la forchetta sul tavolo.
"Sì,
ehm…" farfugliò Elizabeth, prima di tamponarsi la
bocca col tovagliolo di
stoffa e mettersi dritta sulla sedia.
Lanciò
un’occhiata a Giuseppe, e gli fece un cenno con la testa;
quindi si rivolse di
nuovo a me.
"So
che ci avevi chiesto di non farlo, tesoro, ma è della tua
vita che stiamo
parlando, e io… noi non
potevamo restare qui fermi a guardare e non fare niente"
Li
squadrai. "Quando?"
"’Quando’,
cosa?" disse Giuseppe, aggrottando la fronte.
"Quando
avete presentato il ricorso?"
"Un
paio di giorni dopo che Damon se n’è andato",
rispose.
A
sentirgli dire quelle parole, mi si spezzò il cuore. Per una
frazione di secondo,
quando mi avevano detto del ricorso, avevo pensato che ci fosse anche
lo
zampino di Damon. Si era così
arrabbiato,
era talmente contrario alla mia decisione, che pensavo avrebbe fatto
qualcosa. Ma
in realtà non avrei voluto che facesse niente,
perciò davvero non capivo per
quale motivo scoprire che lui non c’entrava mi avesse
rattristata in quel modo.
"Ok.
Quindi avete presentato ricorso. E adesso?" chiesi, mentre riprendevo
la
forchetta per giocare coi pomodori che avevo nel piatto.
"Niente."
Guardai
Elizabeth, che sorrideva.
"Cosa
vuol dire ’niente’? L’hanno
già respinto?"
"No,
Elena. L’hanno accolto."
Mi
scivolò la forchetta dalla mano e cadde a terra con un gran
frastuono. Con gli
occhi pieni di tutte le lacrime che avevo trattenuto fino a quel
momento, guardai
prima Giuseppe e poi sua moglie, entrambi felicissimi.
"Accolto?"
Annuirono
all’unisono, per poi alzarsi dalle rispettive sedie e venire
ad abbracciarmi.
"Siete
sicuri?" chiesi loro, lasciando finalmente libero sfogo al pianto.
"Sì,
siamo sicuri", risposero ridendo.
"Ma
perché?"
"Non
lo so. Forse hanno cambiato idea. O forse è stato un
miracolo", disse
Elizabeth.
La
osservai per nulla convinta, e lei scoppiò a ridere di nuovo.
"Chi
se ne importa? L’hanno approvato!"
"Oddio,
non ci credo!"
-
Era
trascorso quasi un mese dall’ultima volta in cui avevo visto
Damon, sentito le
sue dolci carezze e la sua voce profonda. Ogni minuto che passava mi
pareva un
anno intero. Avevo sempre creduto che guardar scorrere il tempo da un
letto di
ospedale fosse un’agonia. Ma veder scivolare i giorni senza
Damon accanto era
un inferno.
«Glielo
dirai?» mi chiese Elizabeth.
Alzai
lo sguardo e la trovai che mi fissava. La TV era spenta e Giuseppe se
n’era
andato. Erano passate due ore e io mi ero persa nei miei pensieri.
"A
chi?"
Lei
mi lanciò un’occhiata poco convinta, come a dire: Mi
prendi in
giro?
Sospirai,
esasperata.
"No.
Mi ha lasciata. Non è stato abbastanza forte da restare
quando le cose hanno cominciato ad andare male. Anche se il trapianto
è stato
approvato, non significa che da adesso in poi sarà tutto in
discesa. Se torna e
il trapianto non attecchisce? Cosa fa, se ne va di nuovo?"
"Non
lo so", rispose lei, addolorata.
"Lui
ha scelto la sua vita. E adesso io scelgo la mia, senza di lui. Non
dirglielo.
E' tuo figlio, lo so, ma ti prego"
-
Aspettare
che ci sia un midollo disponibile è un po’ come
aspettare un disastro naturale:
sai che prima o poi arriverà, ma non sai né come
né quando.
Per
giorni restai incollata al telefono e al cercapersone fornito
dall’ospedale.
Alla
terza settimana, cominciai a perdere la speranza. Non
arriverà mai.
«Arriverà,
Elena. Devi essere paziente», mi disse una sera Giuseppe.
-
Dovevo
essermi addormentata, perché a un certo punto mi sentii
scuotere.
"Elena,
svegliati"
"Cosa?
Perché? Lasciami dormire sul divano", protestai.
"Ha
appena chiamato l’ospedale. Ci siamo", disse Elizabeth
Mi
tirai su di scatto, mi guardai intorno e alla fine mi resi conto che
era lì
davanti a me. Olga ed Elizabeth e Caroline correvano di qua e di
là per
preparare la borsa.
Nell’osservarle,
fui colta da un attacco di panico.
Oddio,
è tutto vero. Non
dovrò
più aspettare che squilli
il
telefono.
Ci siamo, ci siamo. E se
muoio? E se muoio su quel tavolo operatorio e questi
sono gli ultimi istanti che passo con la mia famiglia?
Morirò senza aver
rivisto il suo volto.
"Elena,
respira. Inspira l’aria dal naso, piano, a fondo»,
mi diede istruzioni Caroline,
facendo in modo che tenessi la testa bassa, tra le ginocchia.
"Non
so se ce la faccio!" gridai.
E
di punto in bianco non guardavo più il pavimento ma la
faccia della mia amica
bionda.
Si
era messa in ginocchio e mi aveva preso il viso tra le mani, per farmi
coraggio.
"Sei
la persona più forte che conosca, Elena. In
quell’ospedale ci sono i migliori
chirurghi del Paese. Andrà tutto bene."
"Ok",
annuii, rispondendo con un filo di voce.
A
quel punto Giuseppe si rialzò e mi prese in braccio, come
fossi stata una bambina.
Elizabeth
ci seguì all’auto. Giuseppe mi adagiò
sul sedile di dietro e io mi distesi con
la testa sul cuscino, mentre guardavo loro due mettere le borse nel
bagagliaio.
Giuseppe si sedette al volante e partì.
In
un quarto d’ora appena, arrivammo all’ospedale e
superammo le porte a vetri del
Centro Trapianti.
Dopo
averci fatto firmare un miliardo di moduli, cui in tutta
sincerità non prestai
la minima attenzione,
ci accompagnarono in una stanza, dove aspettammo di parlare col
chirurgo.
Qualche
minuto più tardi, sopraggiunse un uomo di mezza
età, già vestito da sala
operatoria. Mi strinse la mano e si presentò come il dottor
Westhall.
"Piacere
di conoscerla", risposi.
"Sono
sicuro che andrà tutto alla perfezione, tesoro", mi disse il
dottore, facendomi
l’occhiolino.
Be’,
almeno lui ha delle certezze.
Il
dottor Westhall procedette coi dettagli dell’intervento,
dicendoci quanto
sarebbe durato e cosa avrebbero fatto. Rispose alle nostre domande
dopodiché
andò a finire di prepararsi.
L’attesa
era sempre la parte più difficile, stare lì a
fissare la porta e a chiedersi
quanto mancava, quando si sarebbe aperta di nuovo.
Dopo
un’ora, finalmente venne a prendermi un’infermiera,
che ci lasciò il tempo di
abbracciarci e salutarci, prima di condurmi in sala operatoria e
prepararmi. Un’infermiera
molto materna mi accarezzava la fronte mentre io fissavo il soffitto.
Respirando dalla bocca, contavo le piastrelle.
"Ci pensiamo noi a te, adesso
dormi», mi
sussurrò.
Damon..
Poi
divenne tutto nero.