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Autore: Alphabet Loser    14/09/2015    1 recensioni
Una giovane guardia notturna, appena assunta in un museo, riceve una visita dall'Arte stessa.
[1229 parole]
Genere: Fantasy, Poesia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era notte, e il museo era avvolto nel buio, rischiarato solo da qualche faretto a lato delle opere. L'ora di chiusura era passata da tempo, e l'edificio era silenzioso. Si sentivano solo i passi, alcuni più leggeri, altri più pesanti, delle guardie notturne, e le rare parole che scambiavano quando si incontravano.
 
Emanuele era appena stato assunto, quella era la sua prima notte al lavoro. Camminava tra i corridoi che, vuoti, sembravano molto più larghi, facendosi luce con la torcia. Ogni tanto, si toccava il mazzo di chiavi legato alla cintura. Le statue sembravano quasi spettrali, così bianche e lisce, nella penombra.
 
Arte, intanto, scendeva dai quadri, scavalcando la cornice prima con una gamba e poi con l'altra.  Poggiava entrambi i piedi per terra, saldamente, per prenderne il pieno controllo. Saltò un paio di volte sul posto, poi corse. Con le braccia aperte, sfiorando le statue con la punta delle dita. Emanuele la sentì correre, prima di vedere Arte spuntare da un angolo.
 
«Chi sei?» chiese. Le stava illuminando il viso con la torcia.
«Sono Arte»
 
Lo prese per mano. Emanuele poteva pretendere una spiegazione, ma quello era un museo e lei era Arte.
Arte aveva il corpo di una ragazza sui vent'anni, con i capelli lunghi e ramati. Indossava un vestito che forse era solo un pezzo di stoffa tenuto insieme con dello spago, le lasciava scoperta una ragazza. Aveva una corona di fiori in testa ed era scalza.
 
«Non ti ho mai visto. Sei nuovo? »
«Sì»
«E come ti sembra la tua prima notte di lavoro?»
«Uhh... Carina, credo.»
 
Gli mise un braccio sulle spalle, e Emanuele fu costretto ad abbassarsi per essere alla sua altezza. Arte allungava il collo per guardare quadri che ormai conosceva a memoria, sorrideva ai personaggi come per salutarli.
Arte aveva le lentiggini sulla pelle bianca, sembrava leggera come una nuvola.
 
«Profumi di... qualcosa. Qualcosa di buono.»
 
Lei lo guardò, serena come un cielo d'aprile. Emanuele si sentì avvampare, non sapeva perché l'aveva detto.
 
«Vaniglia e mela verde» continuò.
 
Ora il museo semibuio non sembrava più tetro, ma misterioso e affascinante, pieno di magia. Arte portava Emanuele a visitare ogni sala, e raccontava di com'erano stati dipinti quadri e scolpite statue. Ne parlava come se ci fosse stata anche lei, e forse era vero.
 
Non sentiva più i passi delle altre guardie e le loro sporadiche conversazioni, ma solo la voce di quella ragazza che non era nemmeno sicuro esistesse. Forse era un'allucinazione, forse era un sogno. Ma quando arrivarono le luci dell'alba, lui se ne doveva andare, e lei lo salutò entrando in un quadro. I suoi capelli ramati diventarono pennellate sulla tela, e lei continuava a sorridergli, da un dipinto pieno di fiori e luce.
 
Quando Emanuele tornò al lavoro, la notte dopo, salutò distrattamente i colleghi. Doveva cercare Arte. Girò per i corridoi, e finalmente trovò il quadro. La riconobbe, lei gli sorrideva, ma per quanto aspettasse, la ragazza restava solo un disegno. Allora si allontanò, pensando che forse era lei che lo doveva trovare, e non il contrario, ma non si fece vedere. Quasi se ne dimenticò. Poi sentì una musica, come d'arpa, e i suoi passi si affrettarono a cercarne la fonte. Le note si fecero più forti. E finalmente, eccolo, davanti a lui, un ragazzino bianco, che avrà avuto firse sedici anni, che suonava una cetra bianca.
Era tutto candido, immacolato. Sembrava fatto di marmo, ma i suoi vestiti davano l'idea di essere morbidi, la sua pelle pareva liscia e tiepida, i suoi capelli si arricciavano sul collo e sulla fronte. Doveva essere greco.
 
«Non vedevo l'ora di rivederti» disse.
 
Abbandonò la sua cetra, come il gioco di un bambino stufo. Emanuele avrebbe voluto che suonasse ancora, ma pensò che in fondo non aveva importanza.
Arte si alzò e stirò le braccia dietro alla testa, piegando un ginocchio. Sembrava un gatto pigro che si riposa al sole, ma lo fa con quella tipica grazia felina.
 
«Allora, come stai oggi?»
«Bene, grazie»
 
Emanuele non sapeva cosa rispondere all'Arte. Non sapeva cosa dire, se cercare di iniziare una conversazione o restare in silenzio, ogni argomento sarebbe stato banale.
 
Arte quella notte prediligeva le statue e non più i dipinti, le accarezzava, le ammirava con occhi sognanti, oppure saliva sul piedistallo e imitava le loro posizioni, a volte perché gli piacevano particolarmente, altre solo per prendere in giro i personaggi.
E forse era solo un gioco di luci, forse era solo Emanuele che era stanco, ma gli sembrava di vedere le espressioni di quelle sculture cambiare, mentre guardavano Arte, chi più affettuosamente, chi meno.
 
Quando passarono davanti agli uffici del personale, Emanuele decise di prendersi un caffè. Non sapeva se offrirne uno anche a lui.
Le statue bevono?
Si sentì un po' stupido a farlo, e Arte rispose di no distrattamente, mentre osservava la macchinetta, come se fosse un manufatto antico.
Gli chiese se poteva annusarlo, e Emanuele avvicinò il bicchiere al suo viso. Era strano vederlo così da vicino, notare che era così impeccabilmente bianco.
Arte arricciò il naso.
 
«È amaro» disse.
 
In effetti lo era, almeno paragonato al suo odore dolce e lieve di candela spenta.
 
Un'altra notte passò troppo in fretta. Emanuele restò anche più del necessario, ma Arte evidentemente se ne doveva andare. Tornò al suo piedistallo, si sedette sul suo sgabello e imbracciò la cetra.
 
«Tornerai domani? »
«Io sono sempre qui. Sei tu che devi venire. Domani ti faccio volare.»

Emanuele sorrise, mentre lo sguardo di Arte si perdeva nel vuoto, le dita sulla sua cetra si pietra.
 
Quando salutò i suoi colleghi e se ne andò, si chiese se anche loro vedessero ciò che lui vedeva. Forse succedeva solo i primi giorni. Forse nessuno ne parlava perché non era una cosa credibile. Forse, per qualche strana magia, se ne erano dimenticati.
Gli piaceva pensare di essere l'unico a cui era successo, ma non gli sembrava possibile.
 
Il giorno dopo passò lentamente, Emanuele aspettava solo di poter tornare al museo. Si chiedeva che forma avrebbe assunto Arte quella notte. Sapeva che era inutile cercarla.
 
Stava aspettando impazientemente, e capì che era arrivata quando sentì profumo di erba bagnata dalla riguarda e fiori di campo, e sentì dei cinguettii e un frullo d'ali. Si voltò, e il corridoio venne invaso da uno stormo di uccelli, farfalle e libellule. Le lucciole illuminavano la stanza buia.
Ovunque si girasse, vedeva intorno a sé un turbinio di colori. Arte non parlò, quella notte, ma cantò, danzò per lui. Ogni tanto a Emanuele sembrava di essere sollevato da terra, di librarsi nell'aria. Volava, come Arte gli aveva promesso. A volte, in mezzo a quelle piccole luci gialle, quelle ali trasparenti, quelle piume, quel canto argentino, quel suono di ali in volo, gli sembrava di scorgere una ciocca di capelli rossi, o di sentire una nota suonata da una cetra di marmo.
 
Il giorno arrivò come sempre, e Emanuele seguiva lentamente Arte, aspettando di vedere l'opera da cui era uscita quella notte. Ma non successe. Con sua meraviglia, il ragazzo vide quello stormo multicolore volare verso una finestra che non avrebbe dovuto essere aperta, e da lì andarsene. Rimase solo il profumo di prato.
Emanuele sbadigliò. Era ora di andare anche per lui.
Ma non aveva alcuna fretta. Salutò le altre guardie, e uscì. Sapeva che, da quel giorno, avrebbe sempre visto Arte, fuori e dentro il museo.
  
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