Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: dimest    14/09/2015    1 recensioni
Viviamo in un’era in cui non esistono mostri, dove la democrazia e la Repubblica sono state spazzate via da un’economia liberista e la nostra quotidianità è stata posseduta dall’etica del lavoro: se non lavori, non puoi considerarti parte di questa società.
Per chi vive in questo Paese, non c’è via di fuga. Non c’è libertà di parola, non c’è libertà di stampa; ogni informazione è boicottata da questi Titani dello Stato e la gente ne ha paura. Una fottuta paura.
La libertà che crediamo di possedere è solo un'illusione; viviamo nella mera convinzione che le nostre decisioni possano influenzare il nostro futuro.
Da qualche tempo però la speranza si sta ridestando in tutti noi. Questo è possibile solo grazie a chi non si è piegato di fronte alla terribile realtà di cui siamo vittime, loro che combattono contro questi Titani dell’economia; loro che si fanno chiamare “jiyu no tsubasa”, le “ali della libertà”.
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Pov Eren. Coppia: LevixEren
Genere: Angst, Azione, Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 03

 

Nei giorni a seguire, appena il tempo e gli impegni me lo permettono (oltre all’evitare Mikasa che, non so davvero come, sono riuscito a fare finora), esco da casa in gran fretta e raggiungo Levi.
Miglioro nel corpo a corpo, non abbastanza da riuscire a batterlo, ma sufficientemente da vincere sempre più spesso i litigi con Jean; talvolta, però, riesco anche a colpire il mio-alquanto-scontento-istruttore pentendomene l’attimo successivo quando mi atterra con assoluta brutalità.
Ho cominciato a collezionare una serie infinita di lividi che m’impediscono di dormire bene la notte ed eseguire correttamente alcuni movimenti senza grugnire per il fastidio, destando così tutta la materna (nonché assillante) preoccupazione di Mikasa.
Non mi curo granché di tutto ciò: ogni mio miglioramento è un passo verso la Ribellione e, mentre m’immergo nell’acqua calda gemendo per il dolore delle varie botte infieritemi questo pomeriggio, sorrido come un idiota al pensiero che il mio obiettivo diviene via via raggiungibile.

 


< Ricordatevi che lunedì effettueremo la visita alla Capitale. Raccomando a tutti voi massima puntualità alla stazione di Shiganshina, educazione e rispetto, specialmente alla presenza delle guide che ci accompagneranno alla fabbrica e alla sede della Wall Rose Co. Detto questo, passiamo ai compiti per la prossima settimana. > annuncia l’insegnante allo squillare della campana mentre scrive sulla lavagna una serie infinita di numeri, ognuno dei quali corrisponde ad un esercizio del quale non mi preoccupo di prendere nota.
Ogni anno propongono quest’insulsa gita alle ultime classi per mostrare a noi giovani e plasmabili menti come gira l’economia ed indurci a fare scelte necessarie alla società; come se le varie storielle di “come viviamo bene nel nostro piccolo e benestante mondo”, inculcateci fin dalla scuola primaria, non fossero state pienamente sufficienti.
Un mucchio di stronzate ovviamente: non basta puntare in alto, essere il migliore e mostrare costante impegno, ci vuole anche molta fortuna, agganci validi e una piccola somma di denaro per sperare di lavorare alla Capitale. Solitamente noi “fecce della società” possiamo solo aspirare al ruolo di direttore in piccole fabbriche all’interno della nostra cerchia di mura.
A ben capirci, non sono critico, descrivo solamente i fatti nudi e crudi di questa patetica realtà.
Ci portano a vedere luoghi di prestigio sapendo perfettamente che noi non potremo mai farne parte, accrescendo a dismisura l’odio verso i benestanti e l’ingente depressione nell’età adulta in cui vedremo sfumare i nostri sogni. Ecco un altro dei motivi per cui combatto contro questo marcio sistema capitalistico.

Sbircio la lavagna con fare annoiato continuando a masticare la penna e sorreggendomi la testa con il pugno: non ho voglia di prendere appunti, men che meno andare alla gita di lunedì. Potrei inventarmi una serie infinita di scuse o cercare di prendermi appositamente il raffreddore, ma so bene che la mia assenza sarebbe presa come un insulto personale al sistema gerarchico ed avrei problemi con la sicurezza per qualche mese. Sarei catalogato, infatti, come possibile membro degli Jiyu no Tsubasa solo perché “mi sono permesso di mancare ad un evento simile cui molte persone hanno dedicato tempo prezioso”. Certo: come se poltrire dietro ad una scrivania e firmare qualche pezzo di carta di tanto in tanto (poiché sono gli altri a svolgere il più del lavoro) fosse questo gran impegno. La paranoia è diventata comune sentimento tra i ceti prestigiosi, ognuno deve salvaguardarsi come può e quest’assurda caccia alle streghe è riportata in tutti i servizi quotidiani: basta un solo passo falso, una parola, un gesto fuori dall’ordinario per essere prontamente inserito nella lista nera sociale. Se il tuo nome dovesse sfortunatamente comparire lì, le speranze di trovare un impiego o risollevarti da qualsiasi difficoltà risulterebbero pressoché nulle.
Tengo per me le mie idee, anche se la voglia di urlarle in faccia al corpo docenti è abbastanza forte.
Poi, un pugno alla spalla mi ridesta dai pensieri e non so come riesco a sputare la penna prima che questa mi finisca in gola.
< Allora Jeager, hai già scelto quale abitino metterti per il grande evento? > ironizza Jean, appoggiando un gomito sulla mia testa.
Una venetta inizia a pulsarmi pericolosamente, ma il mio tono è fin troppo tranquillo in confronto alla rabbia che mi ribolle dentro: < Perché? Vorresti vestirti come me così da essere decente per una volta? >
Da qui è un degenerare d’insulti e frecciatine che terminano solo con l’entrata dell’insegnante. L’ora prosegue con magistrali voli di palline di carta e pezzetti di gomma, i quaderni si aprono sulle teste dei compagni circostanti per ripararsi dalla “pioggia” e i rimproveri a riguardo non mancano ad arrivare, ma preferisco proseguire l’assurda battaglia piuttosto di pensare a cosa mi riservi il futuro.

All’ora di pranzo ci ritroviamo tutti intorno al nostro solito tavolo con un panino oppure con il piatto del giorno della mensa.
< Anche la vostra classe andrà in gita alla Capitale lunedì? > domanda Armin ad Annie appena questa occupa posto accanto a lui.
La ragazza annuisce distrattamente, lo sguardo fisso per nulla convinto sulla poltiglia che le hanno rifilato; meglio evitare domande a riguardo.
< Fantastico. > esordisce Connie. < Almeno avremo delle ragazze in gita con noi. Ci sarà da divertirsi. >
< Sarebbe bello potersi distrarre per una giornata, ma i professori hanno deciso di farci scrivere una relazione a riguardo con “particolare enfasi su cosa la visita ci ha trasmesso”. > ribatte Armin, accennando un sorriso.
Tutti restano in silenzio per un attimo, indecisi su cosa dire, poi cambiano argomento. Io grugnisco di disappunto. Trattenermi dal ribattere è uno sforzo immane, però non ho altra scelta: in un mondo in cui la libertà di parola è punibile con la morte, nessuno può permettersi di mettere in discussione il sistema, nemmeno un bambino.

 
Il lunedì arriva velocemente e davvero in pochi mancano all’appello. Qualcuno è venuto con la febbre alta e qualche altro con il raffreddore, tuttavia sono stati rimandati a casa per evitare di diffondere germi in un luogo di tale prestigio. Vorrei vomitare.
Il treno si svuota a mano a mano che ci si avvicina alla Capitale. I Titani viaggiano (ovviamente) su costose macchine, mentre i loro dipendenti si accontentano di ben riforniti autoveicoli; sono pochissimi i lavoratori che viaggiano su mezzi pubblici, per lo più a riempirli sono turisti e scolaresche.
Lo splendore dei palazzi, la ricchezza che si respira nell’aria (mista allo smog delle auto) e che si riflette nelle vetrine decorate con parsimoniosa artisticità, sembra volerci sbattere in faccia il grado di povertà nel quale viviamo quotidianamente.
Per terra non si scorge neppure un granello di sporco nonostante alcuni passanti in giacca e cravatta non si facciano scrupoli a gettare mozziconi di sigaretta davanti a noi; poi arrivano di gran lena gli spazzini e in poco tempo rimuovono il tutto.
Gli articoli sportivi e i vestiti lussuosi attirano i nostri sguardi, in esigui riescono a trattenersi dal premere il viso contro le vetrine, ma siamo comunque costretti a ritirarci in fretta a causa delle lamentele dei professori e delle occhiate torve e pregne di disgusto dei negozianti. Se non abiti in questa cerchia di mura, divieni un appestato ai loro occhi. Così dopo poco smettiamo di guardarci intorno.
Dieci minuti dopo l’ora prestabilita ecco che arrivano le nostre guide, tutte strette in cappotti costosi all’ultima moda, traballanti sui loro alti tacchi a spillo.  Assomigliano a delle galline con quel loro ancheggiare ridicolo.
< Scusate il ritardo, è sorto un problema all’ultimo secondo. Sapete: problemi in ufficio.> si giustificano queste sfoggiando un caloroso sorriso (con tanto di occhiatina complice), ma il forte aroma di caffè e il puzzo di nicotina mandano in frantumi in pochi attimi la loro improbabile facciata.
I professori annuiscono, impotenti di fronte a tale offesa.
“Voi valete meno di zero, siete nati per servirci e morirete assecondando i nostri capricci.” Credo sia ben chiaro a ciascuno di noi questo messaggio recondito mentre pieghiamo la testa e seguiamo diligentemente la visita.

Nell’ora e mezzo che segue, apprendiamo il generico funzionamento della Wall Rose Co.
La struttura è divisa per settori, ognuno dei quali corrisponde a un piano del grattacielo nel quale coesistono differenti funzioni, tutte subordinate allo scopo di produzione di quello specifico settore. L’edificio si eleva per un centinaio di metri, all’incirca si possono contare trenta piani, compresa la terrazza, dei quali possiamo accedere solo ai primi venti: gli altri sono stati resi inaccessibili per manutenzione.
Uffici su uffici traboccanti d’impiegati che ci guardano di sbieco quando passiamo loro accanto, pronti a zittirci al minimo rumore nonostante sia prodotto dal loro chiacchiericcio; questo è il riassunto della visita. Sinceramente non so cosa gli insegnanti si aspettino di leggere nelle nostre relazioni se l’esperienza più entusiasmante sia stata seguire la discussione tra moglie e marito in treno: lei continuava a chiedere dove fossero finiti, preoccupata di poter perdere la fermata in cui avrebbero dovuto prendere la coincidenza, lui invece tentava invano di calmarla intanto che leggeva il suo giornale. Quel pover’uomo sarà riuscito a leggere qualche breve riga durante il tragitto.
A visita finita, ci riuniamo tutti nella hall, attendendo che passi qualche altra ora per iniziare quella del pomeriggio alle industrie della compagnia. Le nostre guide ci hanno abbandonato immediatamente non appena poggiato piede sulla superficie in finto marmo del piano terra. Dobbiamo tornare alla stazione e scendere a Shiganshina, dove ad attenderci ci sarà il vice direttore che ci accompagnerà alla struttura, poi saremo finalmente liberi di tornarcene a casa. Si sarebbe potuto evitare il nostro ritorno anticipato se solo gli altri piani dell’edificio fossero stati preparati per tempo, ma a causa di questi lavori improvvisi non si sono potuti organizzare meglio.
Nessuno tra di noi può dirsi felice.
Lo si scorge perfettamente negli sguardi incendiati dalla rabbia, da qualche mano stretta a pugno e con le unghie infossate nei palmi e dai visi cupi, tuttavia le parole da rivolgere contro di loro sono sopperite dai denti che mordono le labbra. Provocarsi dolore annebbia la mente così da riuscire a mantenere ancora una volta il silenzio.
All’improvviso suona l’allarme: un suono acuto che si propaga per l’intero grattacielo in pochi istanti.
Le guardie (in numero maggiore rispetto al normale) accorrono da ogni dove sul pianerottolo, superandoci e spingendoci. Noi ci guardiamo attorno smarriti, i professori provano a chiedere spiegazioni agli impiegati, ma anche questi ci riservano lo stesso trattamento. Ci sputano contro parole offensive, si districano in malo modo dalla presa dei tutori. Molti ci passano accanto quasi come se noi non esistessimo.
Hanno occhi spauriti con il fiatone, fendono l’aria come se alle calcagna avessero il più terrificante dei mostri. L’agitazione inizia velocemente ad impossessarsi della mente di ciascuno, chiedendoci se non dobbiamo seguire l’esempio della gente e precipitarci sulla strada, fuori dalla folla. Gli ordini dei professori però sono tassativi: ci urlano di non muoverci finché non sarà ben chiara la situazione e di non farci prendere dal panico, cercando di restare in un gruppo compatto. Se la situazione fosse una regolare procedura di evacuazione, noi non saremmo preparati ad eseguirla correttamente, facendo cattiva pubblicità all’istituto; come se non bastasse non tutte le classi sono presenti all’appello.
Un rumore di spari ci sveglia da questo stato di torpore, così, presi dal panico, ci precipitiamo verso l’uscita in un accalcarci generale. Alcuni finiscono a terra, incapaci di rialzarsi per i calci e le pestate che ricevono. Siamo troppo spaventati per prestare qualsiasi tipo di soccorso. Potrei fare l’eroe e salvare qualcuno di loro, ma Mikasa continua a spingermi verso l’uscita ed è inutile continuare a remarle contro.
All’ingresso le persone gridano, piangono, chiedono aiuto, prendono a pugni le vetrate e solo quando ci avviciniamo, comprendiamo che le porte sono state sigillate (forse pochi minuti dopo lo squillare dell’allarme).
Siamo topi intrappolati in una gabbia d’acciaio e vetro troppo spesso da riuscire a romperlo. Gli spari si fanno via a via più vicini, tanto che ci accovacciamo a terra con le mani premute sulle orecchie per tentate di attutire i suoni. Ci sono feriti ed alcuni sono ancora rimasti a terra, immobili; guardandoli mi chiedo se riusciranno mai a risvegliarsi. Non è difficile entrare in stato comatoso dopo aver subito simili colpi.
Proprio quando le nostre speranze sembrano essere svanite e le schiene delle guardie in ritirata s’intravedono distintamente sullo sfondo, alle nostre spalle udiamo la serratura che si disinnesca.
Il fugace sentimento di gioia finisce l’attimo successivo lo schiudersi delle porte, quando ricomincia la corsa verso l’esterno del palazzo. Si riprende a spingersi per evadere, a subire colpi in viso, allo stomaco… ovunque le braccia riescano ad arrivare.
Mi volto un istante per osservare le guardie che imbracciano pistole, spazzate via nel raggio di qualche istante; li vedo tentare di afferrare la prima arma che trovano, ma è comunque troppo tardi: uno dopo l’altro cadono al suolo privi di vita, alcuni riportano gravi ferite da cui fuoriesce un fiotto inarrestabile di liquido e che li porta alla morte in poco tempo. È una scena da gelare il sangue, eppure non riesco a contenere un guizzo di soddisfazione nel vedere l’intera struttura cadere sotto la mano dei ribelli.
Mi faccio immobile.
Immediatamente comprendo la situazione e il sangue ricomincia a pulsarmi nelle vene: veloce, impazzito; il mio unico pensiero diviene la certezza di avere gli Jiyu no Tsubasa a pochi metri di distanza.
Sto per fare uno scatta in avanti, ma Mikasa mi artiglia il braccio prima che io possa anche solo fare un passo.
< Eren. > La sua voce è preoccupata, ha gli occhi sgranati e le sue unghie mi s’infossano nella pelle, tuttavia l’adrenalina è così forte da non sentire il bruciore delle striate che vi s’imprimono sopra quando sfuggo alla sua presa.
Corro in direzione degli spari.
Devo vederli. Chiedere loro di farmi divenire uno della squadra, perché lo desidero più di qualsiasi altra cosa al mondo.
Non penso alla mia incolumità, né a quella di Mikasa e di Armin che - sono certo - mi stanno inseguendo per portarmi indietro, là sul marciapiede dove ci attendono gli altri. Non sto ragionando, la mia mente è annebbiata dal battito forsennato del mio cuore. Sono il “bastardo suicida” che ama gettarsi nel pericolo per i suoi ideali, un soprannome affibbiatomi da Jean che mi ha seguito nel corso degli anni e che mi calza a pennello in una simile situazione.
Mi accovaccio vicino al tavolo della reception: le guardie sono troppo indaffarate nel rispondere al fuoco per prestarmi attenzione. Bene, almeno avrò dalla mia parte l’attacco a sorpresa.
Scatto in avanti e ne atterro una eseguendo una mossa imparata da Levi qualche giorno fa. Non ho il tempo di starmene a congratularmi con me stesso, devo pensare al prossimo passo prima di venire annientato dagli spari. Basterebbe anche solo vedere i visi della Ribellione, per poi cercarli ovunque nelle strade e convincerli a prendermi con loro; non sarà per nulla facile, ma è comunque una possibilità.
Balzo dall’altra parte della parete; una piccola rientranza - resa ancora più stretta dalla pianta ferma all’angolo - mi fornisce un ottimo riparo. Non ci penso due volte a gettare a terra il vaso: farà da ostacolo per chi arretra.
< Eren! > Mikasa è dall’altra parte, dallo stesso tavolo dietro di cui mi sono riparato in precedenza. Con lei, aggrappato al suo braccio, c’è anche Armin; i suoi occhi azzurri ispezionano la stanza. Conosco quello sguardo, sta pensando ad una via di fuga dopo che mi avranno raggiunto.
< State indietro! > grido loro proprio nello stesso istante in cui una guardia inciampa sul fusto della pianta.
L’uomo serra gli occhi come la testa impatta al suolo, ma è questione di pochi secondi perché li riapre immediatamente nella mia direzione. Le iridi sono azzurre e fredde, le pupille ristrette dal terrore e dall’agitazione, mi guardano attraverso e vedono un nemico. Temo mi voglia sparare contro, così, colto alla sprovvista, gli serro un calcio in pieno viso. L’uomo sviene ed io rabbrividisco di disgusto verso me stesso e per il suono che ha emesso le sue ossa. Gli ho di certo rotto il naso, ma non voglio accertarmi delle condizioni delle vertebre del collo.
Mikasa mi chiama, la voce terrorizzata e solo quando alzo lo sguardo in sua direzione comprendo il motivo. Troppo tardi mi accorgo di avere la canna di una pistola puntata contro; l’uomo che la impugna mi fissa con odio, probabilmente ha assistito in parte alla scena in cui ho steso il suo compagno. I peli mi rizzano dallo spavento, faccio fatica a deglutire e la bocca mi si riarsa quasi subito. Tento di arretrare, ma il muro alle mie spalle blocca qualsiasi movimento. Non posso fuggire, solo attendere il suono dello sparo, poi il peso del proiettile cui mi trapasserà il cranio.
Tremo. Trattengo le lacrime e le suppliche in un ultimo gesto d’orgoglio. Non voglio che i miei due migliori amici mi vedano piangere, non voglio lasciare loro una simile immagine di me.
Aspetto e l’attesa mi attanaglia il cuore e lo stomaco in una morsa ferrea; il mondo che mi circonda si restringe a ciò che mi trovo davanti e avverto i secondi come a rallentatore: una goccia di sudore scivola sul volto dell’uomo, faticando a cadere quando incontra lo strato di peluria all’altezza della mascella, gli occhi scuri mi fissano senza remore, un guizzo di follia li pervade. Non credo proverebbe pietà nemmeno se io fossi un bambino.
Non voglio morire e cerco di forzare me stesso nel tenere gli occhi aperti, pensare di imprimere nella mente di quest’uomo il mio sguardo mi dà abbastanza forza. Forse il mio fantasma continuerà a vivere in lui tanto da indurlo alla pazzia. Sorrido in un ultimo gesto di sfida.
Lui preme il grilletto e nemmeno ora mi permetto di serrare le palpebre.
Ed è grazie a questo che riesco a vederlo. Una ginocchiata al braccio della guardia fa deviare il colpo e il proiettile mi sfiora la tempia destra.
Il ragazzo indossa una felpa verde, il cappuccio tirato sul viso si sposta come il suo corpo fende l’aria. Capelli corti corvini si liberano dalla ristrettezza del tessuto, ma posso godere per pochi attimi dei successivi colpi mortali che assesta alla guardia perché tutta la tensione si libera in un unico istante, facendomi svenire.
Eppure mi sembra di riconoscere quella figura agile. Così mi scappa un sussurro prima di impattare al suolo.

 


 
Sento qualcuno chiamarmi, anche se il suono arriva ovattato. La testa è tutto un dolore. Muovermi mi sembra quasi impossibile, eppure con un po’ di sforzo riesco ad aprire gli occhi.
< Eren! > chiama di nuovo questa e finalmente riesco a mettere a fuoco il viso preoccupato di Mikasa a pochi centimetri dal mio e quello di Armin poco dietro di lei.
Non le rispondo, mi guardo intorno smarrito non riuscendo a riconoscere le pareti che mi circondano ed il soffitto di legno vecchio sulla testa. Rivolgo gli occhi sui miei amici ed Armin intende subito il dubbio che mi ronza per la mente.
< Non crederai mai a quello che sto per dirti, Eren. Ora ci troviamo- >
< Si è svegliato? > lo interrompe una voce alle loro spalle.
Mi alzo a sedere per poter vedere in viso il nuovo arrivato e tutto diviene chiaro. Riconosco il ragazzo che ho incrociato per strada alcune ore prima dell’incidente, lo stesso che mi ha salvato dalla guardia.
< Levi? >
Lui mi guarda senza rispondere. I fatti parlano da sé.
< Benvenuto Eren alla base della Ribellione. > annuncia Armin, sorridendomi affabile.
Mai nella mia vita ho desiderato prendermi a pugni tanto quanto lo voglio in questo momento.


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Piccole note d'autore:
Innanzitutto ci terrei a scusarmi con chi mi segue per l'enorme ritardo che ho nel pubblicare.
Nom ho scusanti e non mi sento di cercarne inutilmente.
In secondo luogo vorrei ringraziare di cuore chi ancora legge quello che scrivo e ancora di più chi spende alcuni minuti del proprio tempo per recensire.
Siete davvero meravigliosi e spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento. Se avete anche solo qualche rimprovero, non fatevi scrupoli nel dirmelo.
Grazie nuovamente.

   
 
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