Film > The Amazing Spider-Man
Segui la storia  |       
Autore: Pachiderma Anarchico    16/09/2015    3 recensioni
Il suo sguardo è una promessa di guerra.
Sembra sibilare nell'oscurità come il gelido vento del Nord, sussurrare come sussurrano gli amanti.
Le sue parole cadono come petali di rose sul campo di battaglia.
"Piangerò ma la maschera lo nasconderà,
laverò le mie mani dal tuo senso di colpa,
spezzerò il mio cuore e lo ricomporrò come un puzzle,
fuggirò dal nostro passato: farò in modo che non ritorni.
e il sangue ribollirà come se avessi febbre nelle vene.
Sveglierò l'inferno e avrà luci verdi."
Genere: Azione, Dark, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Felicia, Harry Osborn, Peter Parker, Sorpresa, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A




 
Double Mirror
 
 
 di

Pachiderma Anarchico

 
 

Capitolo 3

 Close enough to fall 




 
You got that medicine I need
Fame, Liquor, Love give it to me slowly
Put your hands on my waist, do it softly

You got that medicine I need
Dope, shoot it up, straight to the heart please
I don't really wanna know what's good for me




 
Una lucente automobile nera sfila per lo sfavillio di New York: i vetri sono oscurati, l’autista è in giacca e cravatta, l’avvenenza dello sguardo del passeggero è celato da specchiate lenti firmate , camicia verde acido e gilè nero. Una gamba poggiata sull'altra, una guancia poggiata sulla mano, la disinvoltura di un attore sul Red Carpet la notte degli Oscar, il silenzio di chi non ha nulla da dire e tutto da criticare: dalla guida del suo autista che non riesce a deviare il pressante, soffocante traffico di New York perché alle macchine non sono ancora spuntate le ali a finire alla terribile musica che la stazione radio su cui è sintonizzato si ostina a scegliere.
Pum pum pum pum.
Ha il pum pum pum pum nelle orecchie Harry Osborn.
Quando si deciderà a spegnere quell'affare sarà troppo tardi, pensa.
Non lo dice.
Ma lo pensa così intensamente che potrebbero fumargli le orecchie da un momento all'altro. O per questo o per quel dannatissimo pum pum pum pum.
"Quando ci vuole."
"Le strade sono bloccate Signor Osborn."
"Donald mi dice a cosa serve essere me se poi devo rimanere bloccato nel traffico come chiunque altro?"
Donald non risponde. Quello che dice Harry è senza senso. Ed Harry lo sa.
Lo sa così bene che continua imperterrito ad arricciare le labbra in una meravigliosa quanto obsoleta espressione di disgusto e a lamentarsi di cose delle quali potrebbe lamentarsi solo qualcuno nella sua posizione, sul tetto del mondo: il cielo è troppo blu, il sole è troppo giallo, New York è troppo affollata, prendete la metropolitana dannazione!, questa camicia è troppo verde.
"Io trovo che la sua camicia sia adatta, Signore."
Ed Harry distoglie lo sguardo dal finestrino oscurato per posarlo interdetto sull'uomo al volante.
"Cosa vuoi dire?"
"Che non delude le aspettative di chi è abituato alla sua solita eleganza."
"Le persone si abituano troppo in fretta.” Riprende con una nota di disgusto. “Non sei d’accordo?”
Donald non è uno sciocco.
Sa che quello che sta scarrozzando in giro per le strade della Grande Mela all'ora di punta è l'uomo più importante che vedrà mai nel corso della sua vita, l'uomo che assorbe le parole come una spugna in abiti di Armani e che te le riversa tutte addosso come una doccia bollente quando si sarà stancato dei tuoi servigi.
"Certamente, Signore."
"Dannazione, si deve uscire alle cinque di mattina in questa città per non impiegare un'ora solo per uscire dal parcheggio!?"
Si lascia andare contro il sedile con un colpo stufo di anche, le corde vocali aride di delicatezza e sferzanti come carta vetrata su un muro molto ruvido.
"Cos'è questa roba."
Harry si sporge, afferra una cartelletta da un angolo che sporgeva da sotto un sedile, la apre, sbuffa, riversa le carte che contiene come un'improbabile scrigno del tesoro sulle sue gambe, sbuffa, scorre fra le dita i fogli stampati, uno per uno, sbuffa, velocemente, sbuffa, distrattamente, sbuffa.
"Problemi Signore?"
Chiede Donald, osservando il suo datore di lavoro dallo specchietto retrovisore.
Chiedere "cosa sono tutte quelle scartoffie nell’auto che poi io dovrò mettere in ordine" era fin
troppo ineducato.
Ma Harry risponde subito.
Una voce impostata, ferrea, asettica, quasi robotica.
"Nessun problema, Donald."
E, con la meraviglia del suo autista stampata addosso, raccoglie i fogli, uno ad uno, li ripone ordinatamente nella cartelletta e non la guarda più.
Sono ancora bloccati nella moltitudine di macchine, ma non sbuffa più.
Piega qualcosa in mano. Una, due, tre volte. La nasconde in tasca.
Harry si sente proprio così mentre lo fa, come se stesse nascondendo qualcosa di fondamentale importanza, inestimabilmente prezioso.
Ma lo fa lo stesso, perché è sempre devastante quando gli scheletri non ci stanno più negli armadi e iniziano a camminare per casa. Potresti trovarli dovunque, sul divano, nella vasca da bagno, nel letto, perfino in macchina.
"È Spider-man!"
Donald e la sua sorpresa esclamazione gli fanno alzare la testa. E di seguito anche gli occhi, in una chiara espressione di finto giubilo.
"aaaah! Ecco spiegato il motivo di questo maledettissimo ingorgo. Quel simpatico ragno si sarà messo in mezzo alla strada per salvare il mondo. Ma il mio tempo non è infinito."
Spalanca la portiera.
Robert cerca di fermarlo. Non ci riesce.
"Signor Osborn aspetti, c'è qualche emergen-"
"Così come la mia misericordiosa pazienza."
E sbatte la portiera.
L'autista poggia la fronte allo sterzo cercando di attuare quelle rilassanti manovre di yoga che con Harry Osborn devi imparare ad utilizzare anche in bagno se non vuoi che la sua voce esigente ti segua nei tuoi incubi più sfrenati.
"Spidey!"
inspira, enspira, inspira..
La macchina giallo canarino di un taxi vola dall'altra parte della strada.
"Oh, mi scusi! Signor Osborn, qual buon vento la porta qui?"
"Ti prego dimmi che ieri non hai visto Pirati dei Caraibi."
"...No."
Harry si spalma il palmo di una mano sulla fronte mentre l'Uomo Ragno si fa avanti cercando di non scontrarsi con le pistole dei poliziotti che sono indecisi se puntarle verso i criminali che si stanno dando da fare per dare fuoco all’intero grattacielo di fronte o verso l'uomo in tuta tutto intento a fare il loro lavoro e a farlo maledettamente bene.
"Signora non può portare il suo gatto a fare le sue cose qui, questa è una missione di salvataggio! Aspetti, ma quel gatto è al guinzaglio?"
"Spidey..." Sbuffa Harry a malincuore. Vorrebbe strangolarsi con le sue stesse parole. "Ti serve una mano?" e poi aggiunge, contrariato e stizzito "Io sono in ritardo!"
"E io non avrei bisogno di una mano se oggi tutti non avessero deciso di voler conquistare il mondo. Tieni questo Osborn." e gli molla in braccio il gatto della signora, che sbraita urlando che quella macchia di pelo grigio è come un figlio e che se gli torcono un solo pelo lei torcerà loro il collo.
"Signora le ho già detto che questa è.."
Spider-man si allontana verso gli urli incontenibili della signora e viene seguito da quelli un tantino meno vistosi ma molto più straziati di Harry.
"Spider-man! Io sono allergico ai gatti."
"Signor Osborn per cortesia non adesso. Signora io non posso salvare il mondo se lei continua a urlarmi contro."
"Il mio gatto… il mio piccolo tesoro! Vero Kitty??" La donna rivolge all’animale il più nauseabondo dei sorrisi come se stesse parlando al più bello dei bambini. O a Brad Pitt.
"Diglielo Kitty!"
"Spider-man..."
"Non ora Signor Osborn. Signora io così sto salvando anche il suo gatto!"
"Non posso affidare il mio Kitty a un mezzo scarafaggio."
"Spider-man..."
"Sca-scarafaggio?! Io sono un ragn-"
"Spider-man!"
"Harry, per diana, cosa c'é!?"
Il giovane miliardario si limita ad indicare il palazzo. Ha le fiamme riflesse negli occhi. Le fiamme del grattacielo che va a fuoco.
"O porca... Perché non me l'hai detto prima?"
"Ah io??"
"Stai lì a guardare la città che brucia come un baccalà in giacca e cravatta."
"Come… come mi hai chiamato?" a Spider-man quasi non viene rotta la mascella quando Harry alza il mento offeso. "Per tua informazione io tenevo d'occhio il fuoco mentre tu passavi il tuo tempo a litigare con l'amante dei gatti."
"Eh? Com’è la situazione?"
"Eh... dal tragico esito."
"Aaa! Dovrei avere uno stipendio fisso per questo." borbotta issandosi su una ragnatela.
"Stai iniziando a parlare come Felicia.” fa un passo indietro. “E la cosa mi inquieta parecchio.” Harry Lascia all'eroe lo spazio per lanciarsi verso il grattacielo dardeggiante, prima di gridare un chiaro e parentorio "Non tornare ferito perché ti ammazzo!"
La situazione degenera facilmente.
Un vetro al cinquantesimo piano scoppia, i suoi cocci lucenti si riversano al suolo come una pioggia di coltelli di cristallo. Un uomo minaccia di buttarsi dal cornicione più alto: ha in mano una provetta contente un denso liquido rosato, le calde lingue rosse gli lambiscono le punte delle scarpe, serpenti mortali di giallo e arancio e qualche poliziotto gli intima di scendere, di non fare stupidaggini, la voce ferma amplificata dai megafoni e per niente umana.
L'uomo li osserva tutti dall'alto della sua discesa nell'aria ma sembra non vederli.
Harry lo guarda. E vede.
Vede la determinata luce di chi non ha niente da perdere fra quelle palpebre lontane, la mano sbiancata nell'afferrarsi a quella provetta, il coraggio dell'azzardo.
La provetta diventa verde.
Lui fa qualcosa.
Qualcosa di grosso.
Qualcosa di non pensato.
Qualcosa che la parte razionale che ha sinistramente la voce di Felicia gli rinfaccerà per il resto dei suoi giorni.
Ma lui lo fa lo stesso.
Perché lui non è Felicia, è Harry Osborn, e se si fosse fermato a pensare probabilmente sarebbe morto.
Dov'è quel diciottenne in tutina di latex?
È questo ciò che pensa mentre le sue gambe volano nel palazzo, superando barriere di ufficiali e auto lampeggianti. L'incendio è al cinquantesimo piano. L'uomo al cinquantaduesimo.
Inizia a correre.
Uno, due, tre...
Corre come un forsennato, il fumo che occupa le scale, il nero della fuliggine che imbratta i muri bianchi come ermetici schizzi d’arte.
Dieci, venti, trenta...
"Allontanatevi o mi butto giù! E butto giù anche questa sostanza al-altamente tossica... Allontanavi!"
"Quella è zetalina, non è così?"
L'uomo si volta al suono di quella voce.
È disperato e sconvolto, ma non è pazzo. Questo Harry puó capirlo dalla paura che gli scorge dipinta sulle tempie in minuscole gocce di sudore traslucido.
"Azoto + Zirconio + Vanadio. Può avvelenare Central Park in due minuti. Molto furbo."
"È... un'invenzione della... della Oscorp... come fai a conoscerla? Solo Norman Osborn sapeva della sua esistenza..."
"Ah lo so..." fa un passo avanti. Lo guardai fisso negli occhi. Chiaro nello scuro.
Gli occhi di Harry sono così sinceri che per lo sconosciuto che minaccia di distruggere tutti è difficile non credergli. "Sono Harry Osborn."
Ma certo. Com'era stato possibile non riconoscere quegli occhi? Quel colorito estremamente pallido, quel modo di vestirsi, la scelta dei colori... la piega dei capelli baciati dal debole sole di settembre.
"L'erede dallo sguardo di ghiaccio", così erano soliti chiamarlo i giornali di gossip, gli articoli che lo raffiguravano in compagnia di personaggi importanti o modelle statuarie di un qualche paese straniero.
"Stia indietro Harry Osborn, o-"
"-butti tutto giù... ho capito."
Harry adesso è costretto a pensare, ad evitare che il marciapiede qui sotto diventi la tomba di un perfetto estraneo e la provetta non rilasci tossine nell'aria circostante, pronte ad ingurgitare ogni particella di ossigeno.
"Quello che non ho capito è perché." dice allora, nel tono più tranquillo possibile.
"Perchè... Ah! Perchè.Ho lavorato per suo padre per vent' anni... e lui alla fine mi ha liquidato voltandomi quelle fottutissime spalle quando non gli servivo più... dopo essersi appropriato di ogni mia idea... di ogni mia... Io ho una famiglia! e dei figli e... questa è l'unica quantitá esistente... della grande invenzione che ha spacciato per sua! La pagherá... Mi senti Norman!? La pagherai!"
Il cielo si sgretola lentamente. Il fumo è un'astratta stanza claustrofobica dai muri grigi, le fiamme sono rampicanti cocenti sulle mura, l'allarme di una macchina scandisce i secondi.
Non c'è tempo.
“Come si chiama?”
“Emerson… Gregory.”
“Gregory… ascoltami. Nessuno ti fermerà se sei convinto di volerci ammazzare tutti... ma ascolta. Io sono Harry Osborn, io posso darti quello che mio padre ti tolse venti anni fa... Vieni a lavorare alla Oscorp, vieni a lavorare per me."
"Perché dovrei fidarmi di suo figlio?!"
"Perché se la Zetalina è davvero una tua invenzione io ho bisogno di scienziati come te. Scendi da quel cornicione."
Harry si muove cautamente, ha già un piede avanti, l'altro pronto a seguirlo, vuole guardare l'uomo negli occhi ma quello gli nega lo sguardo, il contatto visivo perso fra passato e presente.
Harry non è da meno: equilibrista su un ponte pericolante fra ciò che è stato è ciò che non sarà mai più; equilibrista sulla corda del destino che gocciola sangue nero su meravigliose, demoniache rose rosse.
Ma il demonio non è rosso.
È del color delle foglie d'estate, dell'erba viva, dello smeraldo sugli anelli d'oro bianco.
E l'uomo lo osserva per poco, decide di credergli, annuisce, ma non c'è la fa, e scivola.
Scivola da un cornicione del cinquantaduesimo piano ed Harry si butta in avanti per afferrarlo, il braccio teso, la mano pronta.
Ci riesce.
I palmi collidono, le dita si stringono, qualcuno urla, una donna.
Una donna che Harry non fa difficoltà a immaginare bionda e disperata d'amore.
Non lascia la presa.
Sente passi, voci, altri lampeggianti, forse telecamere che, avide di riprendere il momento in diretta, si godono il Signor Osborn sporto fino allo spasimo per frenare la caduta libera di un innocente.
È un quadro perfetto per New York.
"Non mi lasci!"
Tiralo su Harry... è facile... fin troppo facile per te... hai la forza per farlo. Fallo
Harry ci prova a tirarlo su. Mentre l a polizia cerca di raggiungerli attraverso il fuoco che incenerisce i muri per le scale, ci prova, a salvarlo.
Ma per quanto facile possa essere, Harry non ci riesce.
Perché mentre lui fa forza sull'altro braccio immagina che un braccio altrettanto forte stia tirando lo scienziato verso il basso. Verso morte certa.
Non farlo.
Lo sente.
Lo sente forte e chiaro.
I pensieri di Harry sono spenti, ma c'è un altro adesso che pensa al suo posto.
Ed Harry non capisce perchè l'uomo è ancora fra la vita e la morte, appeso a un'ancora di salvezza che non vuole salvarlo.
Perchè tu non vuoi salvarlo, vero?
Vattene... Vattene.
E dove vuoi che vada? Siamo una cosa sola Signor Osborn, non dimenticarlo.
Non lo lascerò.
Allenta la presa.
No.
Allenta la presa Harry.
Dov'era questo grande scienziato quando la malattia ti consumava dentro? Dov'erano tutti loro quando stavi morendo? Non c'erano, c'ero io. Lascialo andare.
••Harry! Lasciala andare!••
Non sei tu l'eroe.
Ed Harry allenta la presa. Guardando l'uomo negli occhi che diventanoazzurri, imploranti e consapevoli, sferzati da ricci capelli biondo sole mossi teatralmente dallo spietato vento della gravità.
La ucciderà una seconda volta.
Un dito lascia, poi l'altro.
Sta per ucciderla una seconda volta.
"Forza... resista..."
Una terza mano si interpone fra loro. È rossa. È convinta di voler fare del bene. È così pura e sensibile che per un attimo Harry è sopraffatto dalla nausea.
Spider-man tira da un braccio, lui dall'altro, l'uomo si salva. Ansimante, paonazzo in volto, ma si salva, buttandosi sul tetto come un animale sfinito, ma vivo.
È Harry che sta morendo dentro.
"Harry."
Spider-man lo chiama: è preoccupato.
Ma per Harry è inevitabile sentire la voce di Peter Parker.
"Sei ferito." constata Harry, atono come un fantasma incolore.
"Harry sei pallido..."
Spider-man gli poggia una mano sulla spalla e tutto ciò che Harry vede è il suo odio più grande.
Non c'è traccia di Peter Parker sotto quella tuta.
Non c'è traccia di Harry Osborn sul quel grattacielo.
"Non. Osare. Toccarmi." E un ringhio basso e feroce si fa strada fra i suoi denti, fra le labbra tirate fino allo spasimo e gli occhi di puro oro bollente.
Spider-man d'istinto si fa indietro. Ma non si allontana. Non riesce a dire altro, non può dire altro, perché sa, eccome se lo sa, che qualunque cosa dirà potrà essere usata contro di lui.
"Harry..."
Harry corre via.
Si potrebbe dire che scappi, ma non può fuggire.
E non serve a niente il fermarsi della gente, gli sguardi ammirati di chi loda il suo coraggio.
Niente ferma la sua corsa, tranne una cosa.
Qualcuno lo chiama eroe.
Un giornalista forse, o è solo il vento che si prede gioco di lui.
In ogni caso lui si volta. Gli occhi azzurri, bellissimi, si scontrano con il grigio del cemento, disumani, disperati.
Ed Harry sa, mentre parole che sanno di incenso e funerale prendono vita sulle sue labbra, che non si può sfuggire alla parte peggiore di te.
"Non sono io, l'eroe."
 

 
 
 
 
 
 
 
 
|- - -|

 
 
“Male… molto male…”
“Che c’è di male?”
“Per iniziare la tua capigliatura.”
“Cos’ha che non va?”
“Pensi davvero di poter andare a Milano conciato così?”
“Così come??”
“Felicia, luce dei miei occhi, pensiamo dopo ai capelli. Ora preoccupiamoci del vestito.”
“Sì ma… guarda i suoi capelli.”
“Guardare perché?!”
Il menage-a-trois fra Harry Osborn e la sua brillante assistente su tacco 12 Peter non l’aveva considerato quando quel piccolo milionario bastardo l’aveva trascinato di prima mattina via dalla redazione del giornale a cui vende le foto di Spider-man borbottando cose come “è il momento di indossare un nuovo costume.”
Peter non aveva in mente questo tipo di costume quando si era ritrovato incastrato fra Harry, Felicia e nomi di stilisti che a malapena riesce a pronunciare.
“Io ho degli abiti eleganti… ho sempre indossato quelli.”
Gli occhi di Felicia volano per aria con un’alzata al cielo così violenta che è come se volesse vedere attraverso il soffitto.
Harry gli da almeno il beneficio del dubbio. Scettico, pignolo, ma glielo da, e al momento, date le circostante drastiche e l’ignoranza totale di Peter per l’alta moda, quest’ultimo non può chiedere di meglio.
“Bene, quali sono?”
“Posso farteli vede-“
“Mi bastano i nomi. Dimmi i nomi.”
“Sono… ehm… e c’è… oh! Uhm..-“
“No.”
Si sente offeso.
“Come sarebbe a dire no? I miei vestiti non hanno mai fallito un colpo!”
“Certo, quando non c’era mezzo mondo a guardarti, osservarti, registrare ogni tua più insignificante mossa, metterti di nascosto sassi grandi quanto pallide da golf in tasca per farti affondare più velocemente del Titanic.”
E ora si sente male.
“Perché hanno invitato lui?” chiede la bella Felicia in tutta la sua cortese nonchalance nel fargli comprendere che non trova alcun motivo valido per il quale Peter dovrebbe prendere parte a questo evento.
"Sai benissimo come funzionano queste cose Felicia: ognuno di quei galletti dalla cresta d'oro e il blocco assegni pieno vuole assaggiare un pezzetto di me, e adesso che siamo su tutti i giornali come “La sospetta e inaspettata amicizia del decennio” anche di lui. La gente non è totalmente stupida, almeno non per quanto riguarda le relazioni sociali, e non serve un occhio attento per capire che è successo qualcosa e che noi siamo coinvolti fino al collo. Saranno sciacalli assetati di sangue e carcasse di notizie pronti a banchettare sulle ossa dei veri Harry Osborn e Peter Parker."
Il giovane Osborn è l'apoteosi del tranquillo, placido fuoco che rischia di bruciarti le dita con cui tieni la carta fiammante; il guanto che non solo raccoglie la succosa sfida della società di riuscire a impressionare gli standard con la capacità di stare sotto ai riflettori, ma te la lancia addosso con il doppio della forza e del sarcasmo pungente che ti farà pentire di averci anche provato. 
Il giovane Parker è invece più che sull'orlo della nausea, sull'orlo di una crisi di terzo grado, pronto a urlare ai cinque continenti che lui salva il mondo con tanta appariscente disinvoltura solo perché coperto da una maschera e che i palchi al centro del circolo di attenzioni e parole non sono il suo forte e non lo saranno mai, anche a costo di strangolarsi con una delle sue ragnatele.
Felicia li osserva nel più assoluto silenzio, aiutando Harry nella scelta di una pettinatura che faccia sembrare Peter Parker meno... Peter il porcospino Parker.
Li osserva e non saprebbe dire dove inizi la lingua pungente di uno e finisca la battuta ironica dell'altro.
Ed è strano, Felicia si trova a pensare, è stranissimo, che due creature così diverse, così modellate da due pezzi di argilla di diverso colore e consistenza, persino da diverse mani, possano trovarsi a metà strada così bene, incastrandosi alla perfezione come tasselli mancanti di un errore, nel mezzo dell'impacciato cercare di Peter di sconvolgergli il ciuffo e nel glaciale ma mal celato divertito tentativo di Harry di allontanargli le mani dalla sua testa.
"Non toccarmi i capelli, Peter."
E Felicia si chiede quale sia il loro segreto, quello più grande, quello del quale chiunque sarebbe irrimediabilmente, tragicamente geloso.
Anche lei.
"Max."
Harry scorge nel suo riflesso una quarta presenza nella stanza che, non appena varcata la soglia tormentandosi le mani, sorride imbarazzato all'avvenente assistente in nero e si avvicina ad Harry come a volerlo proteggere dall'energia negativa che sente provenire, per qualche ambigua ragione, da Peter.
Gli rivolge un cipiglio serio come se potesse vedere davvero spirali tossiche emanate dal suo corpo e macchiare il gigantesco lampadario dell'armadio di Harry.
Sì, perché l'armadio di Harry è una stanza dove entrano comodamente quattro persone.
"Pensavo che non ti piacesse guardarti allo specchio." dice Max, e sotto gli occhi straniti di Harry si scusa con un "Me l'hai detto tu."
"Max, ricordi quando ti ho detto che la cosa che apprezzo di più in una persona è l'onestà?"
L'altro annuisce immediatamente.
"Ho mentito." 
Max si affloscia su se stesso. "...Oh."
"E dovresti farlo anche tu."
"Come mi sta questa giacca?"
Tutti i presenti reagiscono alla domanda di Peter con sopracciglia tese e smorfie, sguardi eloquenti e sbuffi silenziosi, ma è Max che si fa avanti, lo affianca sorridendo di un'allegria contagiosa sul volto e declama, con un assoluto, spettacolare sorriso: "Benissimo!"
E Peter si passa una mano tra i capelli scombinati, sorridente a sua volta e sorpreso. "Grazie... Max."
Passa un minuto. 
Forse due.
Poi Peter sente una vocina dentro di sé, spocchiosa e irritata, che gli chiede qualcosa simile a ‘non ci sei ancora arrivato, vero?’
"Aspetta... Ma stavi mentendo?!"
La risata scombinata di Harry glielo conferma.
 
 

 
 |- - -|


 
“Signore, la cena è pronta.”
Peter non si è mai abituato alla gente che attende la tua presenza ed entra in una stanza solo per prendere i tuoi ordini. I maggiordomi in casa Osborn sono stati una presenza strana e asettica nell’infanzia di Peter. Quando si sporcavano nelle pozzanghere, quelle rare volte in cui Norman Osborn non aveva modo di scoprirli, immediatamente qualcuno in frack chiedeva lui “come preferisce che vengano lavati i suoi vestiti?”
Peter a quell’età doveva ancora capire il funzionamento di uno sgrassatore.
E lo stesso per quanto riguardava la colazione che Peter spesso persuadeva Harry di fare a casa sua, con zia May che metteva sul tavolo tutto ciò che aveva e riscaldava loro il latte e li osservava con quello sguardo amorevole, combattuta fra il dare il buongiorno a Peter o salutare prima Harry. Ma quando si incontravano sul lungo tavolo silenzioso al mattino, uomini e donne chiedevano cosa volessero per colazione, ed erano tutti nomi particolari di cereali di malto e succhi di ribes e se esisteva il latte esisteva con la cannella e non certo con il grasso e zuccherato cacao in polvere.
Peter doveva ammettere che era sensazionale venir serviti in ogni più infima parte della colazione e avere a portata di mano zucchero di canna, stevia, miele e fruttosio al posto del comune zucchero bianco. Ma mancava qualcosa intorno a quel tavolo. Harry in casa sua era più taciturno e zia May non toccava loro i capelli ogni due minuti e zio Ben non varcava la soglia della cucina coperto da olio di macchina e fango.
Solo uomini e donne al servizio di due ragazzini.
Quando Robert annuncia la cena due giorni dopo, Peter è piegato sul tavolino di Harry del soggiorno di Harry, e quello che gli parla è il maggiordomo di Harry. Sta analizzando le foto fatte recentemente a Spider-man da rendere al suo giornalista.
Di Harry neanche l’ombra, per tutto il giorno.
Ma gli aveva permesso di rintanarsi nella quiete di quelle mura, nella speranza che zia May la smettesse di fare domande sul bucato che diventava rosso e blu a giorni alterni e che i college a cui aveva fatto domande si decidessero a rispondere alle sue e-mail e domande di iscrizione. Il ragazzo aggiorna la pagina ogni cinque minuti. Controlla la cassetta della posta ogni mattina. Zia May dice che è ancora presto, e Peter ci crede, ma è in ansia lo stesso.
“Robert… secondo te quale fra queste due foto è la migliore?”
“Perché non ti infili la maschera e ti fai delle selfie? Faresti più velocemente.” Prorompe una voce pungente.
“Sei qui, pensavo non arrivassi.”
“Vuoi cenare da solo?”
Peter sospira gettando una foto su un mucchio sparpagliato accanto a lui. “No.”
Harry si ferma accanto a lui. La maglia che indossa gli lascia scoperte le braccia. Sono martoriate.
“Dai, vieni.”
“Devo selezionare queste stramaledettissime foto per domattina o…”
“Dopo ti aiuto io, ora alza il culo Parker.”
Peter fa una smorfia alzandosi, il suo viso si arriccia, ma lo segue in sala da pranzo, in una camerata di quadri e lampadari dove entrerebbero comodamente venticinque.
Se queste pareti avessero gli occhi Peter si sarebbe sentito in soggezione.
Harry si siede ad un capo del tavolo, Peter subito alla sua destra.
E non se ne rende conto fino a quando qualcuno non gli mette davanti il piatto con spezzatino in crosta di basilico con spolverata di timo e succo di prugne, fino a quando Robert non rimane in silenzio in un angolo, attendendo nuovi ordini o che finissero la prima portata.
Sono passati otto anni e sembra ieri.
E’ tutto come allora, così identico, Harry capo tavola perché doveva mantenere la sua posizione di preminenza nel caso il padre tornasse prima dal lavoro, ma non troppo distante da Peter perché non avrebbe retto di essere lontano da lui in quella casa perfetta e screziata di solitudine.
Peter lo guarda per la prima volta da quando si è seduto. Non v’è tracia di aggressività incasellata nei suoi lineamenti, non c’è traccia dell’Harry che ha minacciato un intero locale per il gusto di stringere in mano le redini della conversazione.
Perché quello non era Harry.
Questo è Harry, il ragazzo dagli occhi di cielo senza nuvole in un giorno d’estate, dalle ciglia che si incastrano fra loro e il ciuffo liscio spossato da qualche passata di mano.
E’ un armistizio? Stanno davvero deponendo le armi?
Dopotutto Peter non può dare per scontato che Electro… Max… quell’ex impiegato della Oscorp aveva il desiderio sfrenato di ucciderlo l’altra sera. L’avrebbe fatto.
O almeno ci avrebbe provato. E senza Gwen… non è sicuro che c’è l’avrebbe fatta. Non questa volta. Non con il peso del dolore sulle spalle.
E’ un armistizio.
Hanno un patto che li unisce, un accordo, una collaborazione reciproca, stanno cenando allo stesso tavolo e Harry sembra solo stanco.
Può permetterselo per qualche ora di dimenticare di avere nelle vene la responsabilità di difendere l’innocenza.
“Ti ricordi quando a nove anni volevi incendiarmi il sedere?” domanda il più giovane sporgendosi per prendere una bottiglia e facendo un cenno a Robert di non scomodarsi per un  bicchiere d’acqua. “Credevo davvero che l’avessi fatto, invece tu avevi soltanto buttato della terra si miei pantaloni per farli sembrare bruciati.”
“Tu avevi otto anni e hai creduto per delle ore che ti mancasse mezza chiappa.” Risponde prontamente l’altro, sbuffando nel vino la sua risata.
“Camminavo di lato cercando di non consumare… la parte di sedere rimasta…”
Le risate dei due sbattono sui quadri elaborati e sul freddo marmo del camino.
E’ così facile.
Sembrano molto giovani adesso, molto più giovani dei loro demoni, e delle loro ferite.
“Alla fine sono contento di non averti bruciato il fondoschiena.”
Le risate si spengono, i sorrisi rimangono. Ma sono strani.
Non sono più giovani, ma gravi e contaminati dal passato che si atteggia ad essere un presente convincente, che li rende pericolosi.
Peter abbassa il viso, gli occhi seguono le venature legnose del tavolo senza riuscire a nascondere l’accenno di un po’ di quel pericolo in un piccolo sorriso.
“Mio padre diceva che non si abbassa mai lo sguardo.” Butta lì Harry in teoria con noncuranza, in pratica desiderando che l’altro lo guardasse ancora.
E quando Peter torna a farlo, il gesto si accompagna di poche parole: “Allora tuo padre non ti ha mai guardato negli occhi.”
Spider-man non vuole che le cose si complichino, ma Peter stasera ha gettato le armi. Vuole un po’ di quel passato a condire il cibo stasera, vuole che la luna torni ad essere di formaggio e la vicinanza di Harry gli riempia i polmoni.
“Non ci sono paparazzi adesso, puoi anche continuare ad odiarmi.”
Non è un’accusa, solo un dato di fatto.
Harry si sente più a suo agio nell’odio, a stretto contatto con persone di cui non gliene importa niente e alle quali non importa niente di lui perché è così che è stato cresciuto: nell’odio. Negli echi di pareti silenziose e fantasmi di affetti.
Fatti temere, fatti disprezzare, fatti odiare, ma non farti mai amare.
La voce di Norman Osborn è vivida nella mente di Peter, quando disse questo al figlio la prima volta. Aveva dieci anni. Un bambino di dieci anni non dovrebbe sentirsi dire certe cose.
Ma il piccolo Harry non battè ciglio, osservò il padre in devoto silenzio, la schiena dritta, le pupille ferme.
Un bambino di dieci anni non dovrebbe comportarsi così.
E questo il punto, io non sono sicuro di non come vorrei Sulla torre dellOrologio è stato facile fingere che non fossi tu. Ma ora…”
Non pronuncia queste parole.
Perché Peter Parker sa che Harry Osborn sa difendersi da tutto tranne che dall’amore.
E lui ha bisogno che Harry si difenda, che si tenga lontano.
Perché deve odiarlo, deve crollare di notte quando il corpo di Gwen penzola inerte da quel filo di ragnatela che come una mano disperata ha tentato di salvarla. Ha il bisogno fisico di odiarlo.
Ma come si fa quando il tuo migliore amico sembra così sé stesso?
 

Un bambino se ne sta  rinchiuso in un bagno. Ha sei anni, corti capelli color del legno scuro, un visino pieno e grandi, espressivi occhi mogano, da cerbiatto.
Ha paura di uscire.
Continua a rimirarsi allo specchio, ma non per vanità. Un bambino di sei anni se si guarda allo specchio ha una ragione ben precisa.
E troppo grande come faccio a nasconderlo tutti mi prenderanno in giro.
Chi ti prenderà in giro?
Un altro bambino entra nel bagno. Ha sette anni. E ciò che c’è di più diverso dal primo bambino: i suoi tratti sono morbidi, i suoi capelli più chiari, gli occhi troppo azzurri.
Non…” il primo bambino si fa coraggio, prende in mano un bel respiro e Non si bussa prima di entrare?
Adesso c’è lhai con me? ma il secondo bambino è divertito. Non è abituato a sentirsi rivolgere questo tono, di solito tutti pendono dalle sue labbra, o fingono di farlo.
E sicuramente non credeva che la preoccupazione negli immensi occhi di quel bambino potesse trasformarsi in determinazione.
La colpa è mia?
No…”
E allora di chi è?
Del mio apparecchio e dei tuoi occhi.
Coshanno i miei occhi?
Sono troppo azzurri.
Il bambino sbatte i suoi occhi azzurri un paio di volte, perplesso, prima di chiedere Non credo sia un male.
Lo è, perché distraggono. Io prima ero concentrato sul mio apparecchio, ora sui tuoi occhi azzurri.
Non è giusto. Perché a lui lapparecchio e a quel bambino degli occhi così?
Eppure non ha mai voluto gli occhi azzurri, fino ad ora: fino al non aver visto quelli di questo bambino.
Ma forse è proprio una mania dei bambini il voler possedere le cose degli altri.
Cosha che non va il tuo apparecchio?
Gli altri bambini mi prenderanno in giro…”
E cosa vuoi fare?
Non lo so indossare una maschera.
Pensi che questo aggiusterà tutto? Ci sei sempre tu di sotto.
Ma mi sentirei protetto.
Non si può indossare sempre una maschera. E impossibile.
E perché?
Perché… le maschere non possono provare emozioni. I volti sì. E i volti sono sotto le maschere.
Il bambino dagli occhi color del legno ci pensa su.
E sveglio, ma le parole del bambino sono strane. Deve rifletterci un po.
Il bambino che gli sta parlando usa parole difficili e il ciuffo che gli lambisce la fronte è perfettamente liscio e ordinato.
Lui non vuole essere da meno.
E allora come si fa a distinguere il volto dalla maschera?
E importante fare le giuste domande. Per il bambino fare le domande giuste è più importante di dare le risposte.
Mmm pensaci. Tu non distingueresti i miei occhi da quelli di una maschera?
Il più piccolo sembra preoccupato che la risposta non giunga abbastanza velocemente.
Certo che li distinguerei! spalanca gli occhi offeso. Nessuna maschera potrebbe nascondere il loro colore.
E se fosse una maschera con gli occhi molto simili ai miei?
Non importa. e per quel piccolo bambini insicuro dalla voce vivacemente pronta non ci sono dubbi. E sicuro di quello che dice. E quasi una promessa. Capirei comunque quali sono quelli veri.
I due bambini si guardano attraverso la schietta onestà della loro età prima che il più ponga la domanda più importante.
Promesso?
E per il bambino più piccolo è naturale rispondere che sì, di quegli occhi azzurri non se ne poteva fare una copia o copiare come i compiti in classe di grammatica. Come faceva una maschera a rendere la stessa luce viva, la stessa fulgida innocenza, lo stesso azzurro privo di nuvole di quegli occhi?
Promesso.
Laltro sorride.
Allora se puoi fare questo potrai anche camminare davanti agli altri con lapparecchio ai denti.
E e se inciampo? E se cado?
Se inciampi e cadi sarò dietro di te.
Gli sta bene al bambino preoccupato. E per un attimo lo sembra meno preoccupato, fino a quando non si volta allarmato. E se cado in avanti?!
Allora io starò accanto a te.
E così facile crederci a quegli occhi, allespressione candida del bambino dagli occhi azzurri. Ora che lo osserva bene, ha anche la pelle molto chiara. Come se fosse leggera. Al bambino preoccupato ricorda un po uno di quegli angeli che la mamma aveva attaccato alla sua culla da piccolo per proteggerlo. E il bambino non è preoccupato più.
Promesso?
Promesso.
Ed è prima di uscire, superare la porta del bagno, silenzioso e sicuro, e addentrarsi nello strambo e complesso corridoio della vita che uno dei due chiede quello che non era necessario sapere.
Era risultato così spontaneo per quei due parlare di maschere, volti e promesse che nessuno aveva trovato curioso non sapere come si chiamassero, quali fossero i loro nomi.
Capita, quando con qualcuno vai al di là delle frasi fatte e del disagio. Quanti ti senti come se potessi conoscerla da sempre.
Come ti chiami?
Peter, tu?
Harry Osb Harry. Mi chiamo Harry.
 

"Harry, dovremo ballare in questa Milano?" Chiede Peter. "Perché tu lo sai, io sono una minaccia sulla pista da ballo." 
Harry si volta. Una corrente di aria gelida si insinua nella stanza e la nostalgia si insinua in Harry. È una sensazione strana, quasi sconosciuta per chi, come lui, ha guardato sempre avanti, solo avanti. È da otto anni che Harry Osborn non osa voltarsi indietro. Ha paura di cosa potrebbe vedere sulla strada di familiari ciottoli che si è lasciato alle spalle. 
Esatto, Harry Osborn ha paura, per la prima volta, per la prima sera, nostalgia e orgoglio fanno a pugni col destino.
"Mi sembrava di averti insegnato."
"Sì... ma avevo otto anni. E io salivo sui tuoi piedi."
"..quando io ero ancora più alto di te." 
Peter sorride ed Harry non puó fare a meno di pensare a quel meraviglioso bambino di otto anni che aveva due piedi sinistri e un'attitudine al ridere a squarciagola ogni qual volta inciampava nei suoi stessi passi. 
L'Harry di allora impazziva per quel timido uragano dagli occhi color nocciola.
L'Harry di ora è più solo, più freddo, più cattivo, consumato dentro da strette allo stomaco e mezze verità, ma può ancora specchiarsici nei grandi occhi di Peter, e può ancora amare il suo riflesso. E allunga una mano, apre le dita, gli offre lo sguardo può sincero che riesce a donargli. Non è sicuro di riuscirci. 
Ma Peter non ci mette molto a farsi vicino e ad accettare quelle dita, richiudendole fra le sue.
È così perfetto il modo in cui il loro tocco è familiare sulla pelle che fa quasi male. Per Peter è come se il passato gli avesse tirando un pugno.
Ma non lascia quella mano. 
Può superare il trauma di essere stato morso da un ragno geneticamente modificato, lanciare ragnatele come fossero stelle filanti, buttarsi dai palazzi in caduta libera, sfidare la gravità, affrontare armi da fuoco e boss in cima alla piramide della criminalità organizzata, ma non può lasciare quella mano. 
E gli manca il coraggio, come gli è mancato quella notte, di credere a ciò che la realtà spacciava per vero.
Harry ha quel sapore sarcastico sulle labbra, Peter si accorge di starle guardando quando l'altro gli poggia la mano sulla spalla sinistra.
"Puoi fare il maschio." Sorride. "Altrimenti, quando Felicia vorrà a tutti i costi ballare con te… soddisferai la sua sete di figure imbarazzanti. Sa essere piuttosto stronza quando vuole."
Il vento è freddo attraverso la finestra, la luna è una spia d'argento nel manto mai troppo fosco nella città dove la notte non esiste, ma Peter non prova interesse per il cielo, é troppo nero, mentre lui ha davanti l'azzurro più chiaro che abbia mai visto in un paio di occhi. 
"Fai un passo avanti..." mormora Harry, "e poggia la mano sul mio fianco." 
La sua voce è così fredda da fargli fare un passo indietro, ma Harry lo tira in avanti impedendogli di allontanarsi da lui. 
Non so perché Peter volesse scappare, ma so di certo che nulla dura per sempre. 
Non appena appoggia la mano sul suo fianco, e le loro mani si fanno più strette e i loro occhi si incontrano, più vicini di quanto siano mai stati nell'ultimo decennio, Peter dimentica perché volesse fuggire.
Era sicuramente un motivo valido.
Era sicuramente quello che direbbe il buonsenso: scappa.
Ma non se lo ricorda.
Perchè il buonsenso non ha una voce affascinante quanto quella di Harry e non mi impedisce di pensare che "Dio, questo bastardo, instabile viziato mi farà andare fuori di testa.
"Cos'è successo stamattina?"
Lo colglie di sorpresa.
Si irrigidisce, si fa diffidente, si chiude dietro un velo di educata freddezza.
"Niente."
È falso.
"Non mentirmi." E prima che Harry possa rispondere Peter continua con un definitivo "e non osare uscirtene fuori con la storia del 'non darmi ordini' perché ti mollo un pugno dritto dritto in fronte."
Harry serra le labbra, sibilando un secco "bene."
"Allora?" Peter calca la mano, non vuole dargli la possibilità di occultare la verità. "Potevi farti male."
"HAHAHAHAHAHAHAHAHA!"
Sono questi i momenti in cui Peter ne ha più paura.
Quando i muri crollano, le porte si sfasciano, le inibizioni si squagliano come ambigue statue di cera e ciò che vi trovi dietro ti fa desiderare ardentemente di non aver mai spinto tanto a fondo per conoscere la verità.
Perché la verità fa più paura della menzogna.
È mostruosa.
Come la sua risata, che risuona nella stanza, che si assorbe nei muri e rimbalza negli occhi, che non lascia traccia di alcuna gioia.
"Farmi male... Ah Peter... A volte mi chiedo se tu lo faccia apposta ad essere così esilerante.” Si asciuga una lacrima che non c’è. “...hahaha.." 
"Non sto scherzando. Harry."
Il tono del più piccolo non gli piace. 
Gli si avvicina con imponenza, si ritrovano a pochi centimetri di distanza.
"Pensi che non abbia bramato con ogni osso del mio corpo che qualcosa in quel macello potesse farmi male?” sibila con il veleno in bocca. “Ma non sarebbe successo... non sarebbe successo niente anche se mi fossi buttato nelle fiamme."
"Ma avresti potuto tenertene fuori e invece hai salvato Gregory."
"Salvato? Hahaha, se non ci fosse stato l"eroe" io non avrei mai..."
"..ti abbiamo visto tutti, hai cercato di dissuaderlo dal buttarsi e quando è scivolato gli hai impedito di cadere..."
"..voi non avete visto... io so cosa c'era su quel tetto.."
"..io so chi sei, impulsivo e sconsiderato, ma hai salvato una persona da morte certa.."
".. tu non sai un bel niente, tu NON mi conosci io so chi c'era su quel fottuto tetto!"
"Io... non ti conosco?"
Non risponde. 
Harry Osborn non risponde.
La lingua più affilata che Peter abbia mai conosciuto non taglia. Non brucia. Non morde. 
Se ne sta meramente in silenzio, come una lingua qualunque. E il suo sguardo vorrebbe dirigersi altrove e ogni tendine del suo corpo è in delirante tensione. Non sa cosa dire. Non era mai successo. 
E ne approfitto, usando la stessa lingua, rendendo affilate le stesse lettere, avvolgendo con le labbra le parole che voglio emergano chiare e incisive.
Dopotutto… ho imparato dal migliore.
"Allora, puoi dire a chiunque fosse con te su quel tetto che non mi interessa se lui è dentro la tua testa o il tuo cuore... o fosse anche la tua anima, nessuno ti conosce quanto me, nessuno, e non cedo questo primato a nessuno. Mi sentite? A nessuno."
E il migliore non si aspettava questo sbalzo di ruoli, quella voce che detta legge, declama priorità, scopre le carte del fato... Fa un passo indietro. 
Ma Peter prevedo anche questo.
Il suo braccio si stringe attorno alla sua vita.
Peter lo tiene così vicino che ha il suo odore sui suoi vestiti. Ed Harry se ne accorge un secondo più tardi, che non può allontanarsi.
E se la verità fa paura, Peter hoa smesso di aver paura nell'istante in cui il corpo di Gwen gli si è sgretolato fra le braccia.
E adesso la vuole, la verità. La pretende. 
Si dimena piano ma con indolenza, sa che è inutile, che c'è più della forza di un essere umano. 
E allora Harry si chiede: perché comportarsi da esseri umani?
È così faticoso fingere di essere il ventenne di sei mesi fa. Non lo è: i suoi occhi sono più freddi, simili all'acqua gelida sulle cosce; il rosso delle sue labbra è più simile al sangue che alle ciliegie; la diffidenza gli aleggia intorno come aria sporca; le emozioni che tenta disperatamente di rinchiudere negli armadi dei suoi scheletri scalpitano e ringhiano, minacciando vendetta; la sua mente è in guerra, spaccata a metà dalla luce e dalle ombre, dal tempo che scorre e non si ferma, dalla sensazione di star perdendo il controllo proprio con il viso di Peter così vicino e i suoi grandi occhi ma, dannazione!, il corpo subisce i colpi di questa guerra invisibile gli altri ma che lui sente ogni giorno, ogni ora... e fa male, fa maledettamente male avere rimorso e tripudio dentro.
Provarli entrambi. 
Ti logora dentro. 
Il rimorso, quel bellissimo sentimento serpeggiante fra ansia e cuore, quella lingua biforcuta che si attorciglia fra le costole appuntite, stritolando la cassa toracica con la forza devastante dell’umanità, vorrebbe nascondersi, abbassare le tende e osservare ogni ferita, ogni segno, ogni ricordo e urlare: che cosa hai fatto?
Ma l'altro... il tripudio, la soddisfazione, il compiacimento dell’estasi eh, è una nota amara nel budino alla cannella deliziosamente speziato, irresistibile, agghindato da un'esotica sfoglia di zenzero e decorato da un'aromatica, vellutata, cremosa glassa di vaniglia. E tu lo mangi, affamato e insaziabile, bisognoso del suo gusto perfetto sulle tue papille gustative nonostante l'amaro, insignificante in confronto a tutta la dolcezza, ma puoi sentirlo, puoi percepirlo e non ti ferma, non ti ferma fino a quando, con orrore, non scopri che è veleno.
Ti scorre nelle vene al posto del sangue.
Ti colora gli occhi al posto della vita.
Ti adombra le ombre del volto come un pittore ossessionato dal chiaro-scuro.
Ti fa desiderare che il tuo migliore amico la smetta di tenerti le mani addosso perché potrebbe finire squisitamente male.
E quando Peter serra la presa Harry salta.
Serra la mano, la stringe in un pugno, la alza, è pronto a colpire. Ma qualcosa va storto.
Spider-man lo blocca.
E Peter si sente fregato.
Ed Harry si sente in trappola, quando ha l'odore di Peter nelle narici e i suoi occhi a leggergli l'anima e un polso stretto fra le sue dita, sospeso a mezz’aria fra i loro volti.
'Avevi promesso che non sarebbe accaduto. Avevi giurato che niente sarebbe stato abbastanza da farci vacillare.'
Harry sta parlando con se stesso e se stesso non risponde, più silenzioso che mai. Le sue domande sono un'eco infinito nel bel mezzo del nulla.
Davvero la più grande mutazione genetica mai realizzata viene sconfitta così, da un paio di occhi marroni?
"Come fai?" chiede Harry.
Spider-man non può permettersi di andare fuori di testa; di perdersi per sentieri lastricati di buone intenzioni che portano dritti nella bocca dell'inferno: ha delle labbra meravigliose.
Ma Peter Parker?
Peter Parker non ha mai smesso di andare fuori di testa con lui.
"A fare cosa?" sussurra di rimando, le labbra vicine a respirare la stessa aria.
"Ad andare avanti."
Peter sbatte le palpebre un paio di volte, le sottili ramificazioni di oro liquido nel bronzo scuro dei suoi occhi brillano perplessi, come se la domanda fosse scontata e la risposta ovvia.
"Perché andare avanti è l'unica cosa che posso fare. Lo faccio per la gente... lo faccio per lei." si interrompe. Sente che ha qualcosa da aggiungere.
"Lo faccio perché non accetto di perderti così." 
Le parole vengono fuori veloci, fluide come acqua, roventi come fuoco. 
Le loro dita incastrate, la vita di Harry fra le braccia di Peter, il braccio di Peter intorno alla vita di Harry, il mondo che infuria lì fuori, i respiri che si uniscono qui dentro.
Harry sa che potrebbe annegare nella purezza degli occhi di Peter e nel loro colore così scuro e così limpido; Peter non vede altro che la carne piena delle labbra di Harry, così finemente disegnate da non lasciare spazio a nient altro. Gli si avvicina piano, lentamente, come a sperare che qualcuno lo fermi dal mordere quelle labbra. Vuole fargli male, trattenere quella carne rosea tra i denti, tirare il labbro inferiore fino a farlo...
“Harry, cos’è questo?”
Harry non ha bisogno di seguire lo sguardo dell’altro per capire che il colletto della camicia non gli sta coprendo il collo come dovrebbe.
Può vederlo riflesso negli occhi di Peter il sottile segno viola e rosso impresso all’altezza della carotide.
“Niente.”
Ma Peter non ci crede. Ha smesso di credere agli incidenti, al caso, alle coincidenze.
Ha smesso di credere al destino, quel sottile filo cremisi come la piccola ferita di Harry che ci lega tutti ad un unico finale.
Oggi, Peter Parker, crede solo nelle scelte.
“Promesso?”
E teme quelle che potrebbe compiere Harry Osborn. Teme per le persone che ama e per gli innocenti. Teme che gli orologi impazziscano e tutti il passato rinchiuso in cassetti fintamente dimenticati inizi a riversare fuori i suoi ricordi.
Ed infatti il “promesso” che il ragazzo riceve in risposta seguito da un conato un ventenne dagli incredibili occhi di zaffiro che si alza ed esce dalla stanza veloce e con una gravità sulle labbra come se stesse per rimettere l’anima non più quel promesso di quattordici anni fa in quel bagno di una scuola elementare di New York dove un bambino di sei anni cercava di nascondersi dal mondo e uno di sette anni di sette lo spinse ad uscire fuori e combatterlo.
Allora sembrava tutto così facile.
Persino quando le cose iniziarono a mostrarsi per ciò che erano realmente e Peter conobbe Harry per davvero, le due debolezze… i suoi segreti… e capì che quel ragazzino non era così intoccabile come si aspettava, era facile.
Fra di loro.
Cosa era successo? Quando, esattamente, avevano deciso che loro due insieme non erano più abbastanza?
Peter troverà l’anima di Harry nel cesso, stanotte?











- Angolo Autore -
Non ho scuse per questo ritardo e non ho scuse per non aver risposto alle recensioni lasciate al precedente capitolo.
Ma provvederò! (santi buoni propositi)
Ho fatto una rilettura veloce del capitolo perchè devo scappare, ma ci tenevo ugualmente a lasciarvi questo capitolo. 
Spero non mi siano sfuggiti molti errori.
Le recensioni sono sempre graditissime e, anche se non rispondo subito, mi fanno davvero tanto, tanto piacere, voi non avete idea quanto.
Ho aumentato la dimensione della scrittura, a dimostrazione che vi leggo sempre e cerco di venrvi incontro come posso.
Grazie ovviamente anche ai lettori che non lasciano tracce ma che mi donano le miridiadi di visualizzazioni, siete fondamentali anche voi!
Scappo,
alla prossima,

Pachiderma Anarchico

PS: Le strofe all'inizio sono tratte dal lyrics della canzone di Lana Del Rey "God and Monsters".


 
 
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Amazing Spider-Man / Vai alla pagina dell'autore: Pachiderma Anarchico