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Autore: whitemushroom    17/09/2015    5 recensioni
Il tempo non torna indietro. Qualcuno ha provato a cambiarlo, ma ha fallito.
Il tempo non può essere arrestato.
Il tempo può solo andare avanti.
Per qualcuno questa è una condanna. Per qualcun altro, invece, è l'unica opportunità rimasta per agguantare ciò che sembrava perso per sempre.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Elliot Nightray, Leo Baskerville, Vincent Nightray
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Broken Clock'
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Another side, another story

Elliot lancia un insulto all’automobile che per poco non lo lascia steso sull’asfalto. Il veicolo gli risponde suonando il clacson probabilmente fino a svegliare tutto il quartiere, poi accelera di nuovo ed imbocca un’altra strada. L’ennesimo imbecille ubriaco, pensa tra sé, augurandogli di andare a sbattere contro il primo lampione a tiro.
Forse anche lui avrebbe dovuto fare più attenzione, a dirla tutta: il fatto che sia notte fonda e che le strade siano praticamente deserte non è un valido motivo per correre in mezzo al lungomare senza curarsi di eventuali veicoli in arrivo, men che mai attraversare la strada senza ascoltare, guardare o almeno rendersi conto che dalla curva potrebbe uscire di tutto, proprio come quel deficiente sulla Nissan nera che non ha posto fine alla sua vita per una manciata di secondi.
“Vediamoci ai Cento Scalini dopo mezzanotte. Non tardare. Ti prego”.
Controlla il telefono ormai per la ventesima volta in quella serata, incurante di non essere affatto sul marciapiede e che qualche altro ubriaco appena uscito dal pub di venerdì sera potrebbe avere la malsana idea di passare su quella stessa strada. Ma non riesce a fare a meno di fissare lo schermo: la persona che glielo ha scritto non è il tipo da aggiungere un “ti prego” alla fine di qualunque frase, men che mai in un sms.
Riguarda l’orologio, è mezzanotte precisa.
Inizia a correre lungo il belvedere. I lampioni sono pochi ed illuminano la strada solo a chiazze, ma conosce benissimo il posto e si sposta ascoltando il suono della risacca ed il piacevole silenzio della spiaggia priva di gente, con tutti gli ombrelloni chiusi e con solo la macchia nera del mare. È dall’estate che non viene in questo posto, gli sembra quasi strano cercare l’ingresso della spiaggia libera con le scarpe chiuse, i calzini ed una sciarpa annodata al collo: supera a passo svelto gli stabilimenti del Miramare e del Tritone, evita i sacchi dell’immondizia abbandonati sul marciapiede da almeno un paio di settimane e raggiunge il cancello arrugginito che conduce ai Cento Scalini. In realtà gli scalini che portano alla spiaggia libera sono soltanto trentasette, ma al ritorno la rampa è così ripida e la pietra così rovente per il sole che sembrano davvero essere cento, se non anche mille.
Non è nemmeno arrivato a metà della scala che li vede.
Le due figure sono in piedi, in riva al mare. La luna offre pochissima luce ed i lampioni in quel punto sono inesistenti, ma Elliot potrebbe riconoscerli in mezzo ad una folla di turisti ammassati sulla spiaggia. Preferisce fermarsi un attimo e rimanere in attesa: non c’è un motivo preciso, potrebbe lasciar perdere e correre verso di loro come il cuore gli martella di fare, ma una parte di lui gli bisbiglia che forse l’unica cosa giusta da fare è attendere. Verbo che non gli è mai stato troppo simpatico.
La figura più alta si inginocchia ai piedi dell’altra. Gli prende la mano, l’unica che compare dalle pieghe della camicia, e vi poggia sopra la propria fronte. Elliot rimane in disparte, ricacciando qualsiasi parola in gola, preoccupato persino che il suono del suo cuore sia forte come invece se lo sente nelle orecchie, così agitato da superare persino la risacca. Dopo una manciata di secondi intollerabili l’uomo si alza e se ne va, diretto verso la scala senza più voltarsi verso il compagno: i suoi passi affondano un po’ nella sabbia, ma quando raggiunge l’accesso alle scale ed i loro sguardi si incrociano Elliot capisce che qualcosa non va.
Gli occhi di Vincent sono tristi, e si incontrano con i suoi per un istante. Non sono gli occhi di circostanza, quelli coperti da delle lenti a contatto azzurre che usa ogni volta che esce di casa: sono i suoi occhi veri, quello rosso e quello d’oro che permette a pochissime persone di vedere.
Potrebbe giurare di aver visto delle lacrime, ma senza dubbio è un effetto della poca luce e della sua immaginazione. Conosce Vincent da oltre quattro anni, e non è il tipo da piangere come una ragazzina.
Si ferma a pochi gradini di distanza da lui. Non sembra sorpreso di vederlo, eppure il suo sguardo non si scosta dall’angolo tra il suo gradino ed il successivo, un punto dove una bottiglia di birra è stata frantumata ed i cocci sono stati ammassati alla svelta da qualcuno che abita lì. Elliot cerca di colmare la distanza, un orribile presentimento che dentro di lui si alza come fumo nero.
“Prendo congedo”.
Poche, semplici parole. Troppo poche per Vincent, l’uomo che riesce a riempire da solo una stanza con le sue chiacchiere sulla nuova prelibatezza cucinata da Gilbert. Le sue mani gli si poggiano sulle spalle, e stavolta non vi sono dubbi sui tremori strozzati che le attraversano. “Grazie, Elliot” sono le uniche parole che mormora, ma anche in quel momento quei due occhi che sembrano usciti dal regno delle fiabe non incrociano i suoi. “Grazie di tutto”.
Vorrebbe chiedergli una spiegazione, ma l’istante dopo l’uomo è già in alto ed è sparito oltre l’ultima rampa dei Cento Scalini. Rimane in silenzio, ascoltando il proprio respiro mentre lungo la strada una macchina viene messa in moto e si allontana.
La persona in riva al mare lo aspetta, il viso rivolto verso le onde proprio come la notte in cui gli ha raccontato tutto.

Elliot non sa molto dell’altro, il ragazzo con i suoi stessi occhi, gli stessi capelli, lo stesso identico neo sullo zigomo sinistro. Sa che era molto bravo al pianoforte: ironico, considerato che tra lui e gli strumenti musicali è stata dichiarata guerra senza quartiere sin dalla prima lezione di musica delle elementari, con quell’odioso flauto che nelle sue mani sembrava al massimo un fischietto dei poliziotti. Sa che aveva un pessimo carattere, e voleva avere l’ultima parola in ogni discussione.
Sa che è morto quando aveva solo sedici anni, e che è l’unica ferita che Leo non riesce a rimarginare.
Leo gli ha sempre detto che l’altro non c’entra niente con la loro amicizia. O, come preferisce ripetergli, “c’entra in modo diverso da quello che pensi tu”. E Elliot ha deciso di credergli, di sentire che nelle nottate attaccati alla sua playstation, nei pomeriggi trascorsi senza fare nulla al porto o a provarci con le ragazze, nelle tremila telefonate di puro panico il giorno prima dei compiti in classe di matematica ci sono lui e Leo, non lui ed una persona che cerca solo il riflesso di qualcun altro.
Certo, ogni tanto il fantasma dell’altro si sente. All’inizio Elliot ammette di esserne stato un po’ infastidito, e di contro Leo aveva immediatamente smesso di parlarne. Ma Elliot ha imparato a conoscere quegli sguardi, quelli che il suo amico gli lancia quando lui gli dà distrattamente le spalle per poi osservarlo di nascosto nel riflesso sullo schermo del computer: non riesce mai a trovare un aggettivo per descriverli. “Tristi” è la prima parola che gli viene sempre in mente, ma c’è qualcosa di ancora più straziante che non riesce a definire, un peso che forse soltanto una persona che ha vissuto un centinaio di anni può sopportare. Ha sentito tutto quel peso il giorno che era andato a Roma con sua sorella, dimenticando per errore il telefonino a casa: prima ancora di scoprire delle quarantasette chiamate senza risposta se lo era ritrovato davanti al cancello, le pupille dilatate come se avesse davvero visto un fantasma. Non era riuscito a scendere dalla macchina che se lo era trovato al collo, col fiato corto e tutto tremante.
“Temevo che ti fosse successo qualcosa di brutto …” si era giustificato Leo quella sera, fissandolo così intensamente che per un istante, l’unico istante della loro amicizia, ne aveva avuto paura.
“… di nuovo” era ciò che soltanto gli occhi avevano silenziosamente pronunciato.
Non può impedirgli di guardarlo in quel modo. Ci sono dei momenti in cui lo infastidisce, ma sa che non ha il diritto di negargli quello che le parole, per suo rispetto, non osano dire. E ogni tanto riesce persino a compiacersi, perché il lampo di gioia che attraversa quegli occhi neri come il dolore compare solo in sua presenza, anche solo quando gli chiede “Stasera resti a cena da me? Mia madre ha fatto le lasagne!”
Alcuni giorni si chiede cosa farebbe se i loro ruoli fossero invertiti. Se fosse Leo il ragazzo tutto sommato normale, con una famiglia normale, una casa normale, degli interessi normali ed una media scolastica più che buona, e lui quello ricco da far schifo, con una villa traboccante di libri e gente come Vincent o Maya tutt’intorno. Se fosse lui a festeggiare tra qualche mese il suo centrotrentaquattresimo compleanno.
In realtà Elliot crede che farebbe proprio come Vincent, che si vanta di aver vissuto duecentoventisei anni senza aver mai lavorato un giorno. Uscirebbe ogni sera con una ragazza diversa senza più finalmente dover andare nel bagno dei locali per aprire il portafogli e contare al centesimo i soldi rimasti: Leo ha stimato che per dimezzare il patrimonio secolare della famiglia Baskerville dovrebbe spendere trentasettemila euro al giorno per quarantotto anni e tre mesi, cifra inarrivabile persino per le ben note doti scialacquatrici di Vincent. Si comprerebbe una bella macchina, anche due, ed un appartamento enorme nella capitale per fare feste tutti i giorni. Un computer di quelli che funzionano sul serio e poi abbastanza videogiochi da riempirne casa.
Senza dubbio smetterebbe di studiare e riempirsi la testa di idiozie come il calcolo dell’integrale indefinito o, peggio ancora, la critica delle varie forme di ottimismo di Schopenhauer. E sicuramente non andrebbe a perdere tempo all’università, dove non capisce perché i suoi genitori insistano tanto che lui vada mentre tanto sua sorella, che una laurea ce l’ha, non trova alcun lavoro e va in giro a fare ripetizioni.
Non capisce perché Leo, che senza dubbio non è un campione di socievolezza, abbia deciso dopo un secolo di mettere piede in un posto odioso come il suo liceo. Di ascoltare la Tersciotti che blatera per ore sulla drammaticità dell’esilio per Dante, o la Menica che invece di spiegare filosofia parla di quanto siano fantastici i suoi figli. O di passare la versione di latino a Saskia e Jonathan abbozzando perfino un sorriso, mentre Elliot deve reprimere il prurito nelle mani ogni volta che vede quei due parassiti nullafacenti che prendono la sufficienza a fine anno senza mai aprire il libro.
Si chiede perché Leo, che ha tutto, si sia abbassato a quella vita del cavolo.
Glielo ha chiesto, eccome se glielo ha chiesto. Più di una volta.
E l’altro gli ha risposto a modo suo, con qualche sorrisetto sghembo e niente più che una manciata di parole di fumo ed il suo “Stai sempre a far domande, Elliot!”
Sa che Leo non è sempre sincero. Lo vede mentire, recitare la parte del ragazzo orfano e silenzioso che vive con il suo strambo “fratello” Vincent davanti ai compagni, ai professori, al resto del mondo: uno strano gioco che non capisce, che non lo diverte, perché non ama quel tipo di sotterfugi e quel lento scambio di sorrisi mesti che lentamente ha circondato il suo amico di quello strano muro di silenzio che solo a lui è concesso di varcare.
Potrebbe svegliarsi una mattina e raccontare ai suoi genitori che negli ultimi quattro anni e mezzo ha frequentato un ragazzo che vaga per il mondo da cento anni, che non può morire nemmeno conficcandogli un coltello nel petto, che possiede un drago dalle piume nere e che è il mondo è sorretto da delle catene di cui lui è l’estremo custode. Potrebbe dirlo a Vanessa oppure spiattellarlo a tutta la scuola.
Ma non lo ha mai fatto. Non ne è mai stato nemmeno tentato, a dirla tutta. E non certo per questioni di essere preso per un pazzo o uno che ha letto di nascosto i libri sui vampiri di sua sorella.
Ci ha messo un po’ a capire che non lo ha mai fatto perché quel mondo gli piace: quel piccolo angolo in cui loro due sono gli unici protagonisti, quelle risate interminabili su qualsiasi problema, quei momenti in cui Leo viene a tifare per lui al saggio di scherma e quelle sue storie lunghe, avvincenti, piene di Cappellai Matti che sguainano la spada , di Alici che si trasformano in conigli sanguinari e di duelli in groppa ai draghi per scongiurare la fine del mondo.
Gli piace quella storia.
Gli piace anche quando gli occhi di Leo si velano di lacrime.
Perché ha capito che il suo compagno è fragile. Perché nonostante il denaro, il drago, l’enorme villa piena di libri, una vita immortale e quei due strani occhi che sembrano una finestra sulla Galassia, ci sono dei momenti in cui Leo gli sembra in procinto di svanire da un momento all’altro, come se dietro le sue dita ossute ed il suo viso costantemente pallido vi sia una sottile crepa che lo attraversa da parte a parte. Una persona più poetica lo definirebbe uno squarcio nell’anima, ma Elliot non è una persona poetica.
Sa solo che cinque giorni fa il suo migliore amico si è accasciato a terra durante la simulazione di seconda prova e Vincent se lo è portato via prima ancora che arrivasse l’autombulanza –e questo solo perché era svenuto, perché Leo si è sempre rifiutato di salire in macchina con Vincent alla guida. Sembra che il giorno dell’esame della patente si sia addormentato, e Leo sostiene di non essere così desideroso di mettere alla prova i limiti dell’immortalità dei Baskerville.
Da quel giorno Elliot ha trovato il telefono di Leo sempre staccato, e quando è andato a trovarlo alla sua villa ha passato mezz’ora attaccato al citofono senza ottenere risposta, le persiane della casa sprangate ed un innaturale silenzio da oltre il cancello, da quel giardino pieno di fiori statice che in un paio di giorni si sono trasformati in esili ramoscelli secchi. È anche andato a La Gradisca, il bar di Maya e di sua sorella, ed ha trovato soltanto l’impietoso cartello Vendesi.
E quando quell’sms gli è arrivato per un istante il suo cuore ha mancato un battito.

“Come stai?”
Elliot si morde subito le labbra per aver fatto la domanda più stupida e di circostanza del mondo.
L’unica luce che sfiora i lineamenti del suo amico viene da una stanza illuminata in uno dei tanti palazzi abusivi costruiti sulla sabbia: Elliot ne vede subito i contorni, la massa di capelli arruffati ed il corpo ancora più piccolo come se volesse sparire nei suoi stessi abiti.
“Non mi posso lamentare …”
“Cazzate”.
“Dipende dai punti di vista. Mi aiuti a sedermi?”
Senza nemmeno riflettere sul motivo di quella richiesta Elliot gli si avvicina, passando il proprio il braccio sotto quello del suo amico e stringendogli la sua unica mano mentre lo accompagna nel sedersi sulla sabbia. Ma la cosa che gli si stringe fino allo spasmo è il proprio cuore, perché Leo non pesa più di una bambola di stracci e le sue gambe non riescono ad accompagnarlo nella discesa, tremano ed inciampano affidandosi solo al suo supporto. Elliot gli si siede accanto, ignorando i legnetti, la bottiglia di birra rotta ed i sacchetti di plastica che campeggiano in quella spiaggia sin dall’estate e che nessuno si è curato di pulire. Riesce a fissare solo il suo amico e la sua mano ossuta, diafana, su cui adesso vede decine di piaghe aperte tra le giunture.
Non ci vuole un genio per capire cosa stia succedendo. Ma non può essere.
Sì, non può essere.
Altrimenti Leo non gli sorriderebbe in quel modo. “Vincent mi ha sempre detto che il modo migliore per abituarsi ad una vita così lunga è quello di porsi un obiettivo. Meglio se irraggiungibile. Perfetto se impossibile, o quasi. E sai una cosa, Elliot? … Aveva ragione”.
“E tu che obiettivo ti sei posto?”
Leo tamburella le dita sui pantaloni, come a suonare una melodia silenziosa. È da quando si conoscono che lo vede perdersi in quel piccolo gesto. E, anche se lui di musica non ci capisce assolutamente niente, sarebbe pronto a scommettere la propria playstation che in tutti questi anni il suo amico ha disegnato con le dita sempre la stessa melodia. “Dovevo cercare una persona … e dirgli una cosa, una cosa assolutamente importante …”
Beh, a dirla tutta non gli sembra un gran che come obiettivo. Non da una persona che potrebbe far saltare in aria tutto il loro paese con uno starnuto del suo drago e che ha occhi ed orecchie in ogni singolo sasso del mondo. “E ci sei riuscito?”
“No”.
Leo affonda le dita nella sabbia. Elliot sta per fermarlo –ha sempre sospettato che la spiaggia dei Cento Gradini nascondesse più spazzatura di una discarica abusiva, e non ha idea di cosa possa succedere se qualcuno di quei granelli entrasse nel palmo bianco solcato da piaghe- ma gli occhi dell’altro gli dicono altro, gli chiedono di aspettare mentre la mano riemerge, carica di granelli chiari che uno ad uno iniziano a sfuggire dalle sue dita come la sabbia dentro una clessidra. È una serie di movimenti delicati, quasi ipnotici, accompagnati dal vento che ha improvvisamente iniziato a soffiare.
Ora che se ne accorge Leo ha indosso soltanto una camicia, mentre lui adesso inizia a sentir freddo con tutto il cappotto e la sciarpa. “Sono stato egoista, Elliot …”
Le dita si aprono un poco di più, trasformando il sottile rivolo di sabbia in quattro cascate di scintille. “Quando ho ritrovato quella persona avrei dovuto dire quello che dovevo e basta. Andarmene per il mio asse temporale e non entrare mai più nella sua vita. E invece quando l’ho rivista ho deciso che non me ne importava nulla, che volevo vederla ogni giorno, che avrei voluto riempirmi la testa solo di momenti felici ben sapendo che avrei rischiato di attirarle contro qualsiasi forma di eventi infausti. Sai, all’inizio pensavo che mi sarei impegnato al massimo per renderla felice …” sospira, la voce che si fa stranamente più soffocata. “Ma era una bugia. La volevo, la voglio rendere felice, ma … ma la verità è che forse volevo il mio bene, la mia felicità … anche più della sua. E mi faccio schifo, Elliot”.
“Mio padre dice sempre che non c’è nulla di male ad essere un po’ egoisti una volta ogni tanto”.
“Ma …”
“Leo”.
Sa di chi sta parlando, può quasi vedere l’altro riflesso nei suoi occhi traslucidi. E gli sembra che la sciarpa gli soffochi tutto quello che vorrebbe dirgli o gridargli contro mentre le parole si affastellano sulla superficie del mare e delle sue onde nere proprio come la notte in cui Leo gli mostrò il suo drago come prova che non mentiva. Ed anche allora, proprio come in quel momento, Elliot avrebbe voluto gridargli che non aveva bisogno di prove, di scuse, di dimostrazioni, di parole vuote. Si era fidato di lui sin dal primo giorno di scuola, quando l’altro gli si era insistentemente seduto accanto: si era fidato di lui in tutto, fino all’ultima sillaba dei suoi racconti sull’Abisso, e non ha mai avuto troppo bisogno di chiedersi il perché. E vorrebbe spiegargli che non vuole scuse e che non fa nulla se è stato un egoista, ma il discorso che sta prendendo forma nella sua mente se ne va insieme alla sabbia; il palmo dell’altro è ancora in aria, ma adesso soltanto un paio di granelli sostano su quell’isola pallida. “Io credo che tu meriti di essere felice”.
Sopra di loro, forse sul belvedere, un’automobile sfreccia a tutta velocità. Riempie con la busca frenata tutto il silenzio successivo, cancellando per un istante tutte le parole cristallizzate nell’aria. Ed anche dopo che il veicolo riparte Elliot può sentire l’aria intorno a loro farsi più densa, cupa fredda, come se tutto il gelo dell’inverno originasse dalla forma di Leo: si preme la mano contro il petto come attraversato da una fitta e Elliot estrae il telefonino dalla tasca, con il pensiero fisso ai tre numeri del 118 e al fatto che, qualunque cosa stia succedendo, non può lasciare Leo in quello stato.
“Lascia stare, Elliot. Ho vissuto più a lungo di qualunque altro Glen”.
E lui vorrebbe ribattere qualcosa, comporre il numero e chiamare tutti i medici del paese. È il calore della sua voce a impedirgli di premere il primo, fatidico pulsante.
“Avrei dovuto passare Jabberwock a Maya almeno settant’anni fa e farla finita. Questo corpo si è nutrito del potere dell’Abisso per troppo tempo … ma non volevo andarmene senza … senza …” sorride mentre muove di nuovo le dita. “Adesso i Baskerville hanno una nuova Glen. E io … io sono libero …”
Dalla tasca estrae qualcosa. Elliot non riesce a vedere bene di cosa si tratti a causa della pochissima luce, ma quando la mano dell’altro si tende insistentemente verso la sua, quasi a passargli qualcosa, il suo palmo registra due piccoli oggetti che sembrano stemperarsi non appena le dita di Leo passano il testimone. Elliot osserva la forma dell’oggetto più grande, quello che lo chiama con il suo tepore e la superficie morbida ed invogliante: apre l’astuccio di tessuto con delicatezza, sollevando la semplice apertura a scatto che manda un secco clack quando le sue dita la invitano a schiudere tutti i suoi segreti. Con i polpastrelli ne saggia il contenuto e la forma, quasi impietrito dal contrasto tra il freddo dell’oggetto ed il tepore di ciò che lo conteneva; guarda di nuovo e si porta al viso un paio di occhiali rotondi, vecchi, con delle lenti così graffiate che riesce a vederne i segni anche nella penombra ed una montatura in metallo che gli lascia sulle dita una sottile patina di ruggine. Se li porta davanti agli occhi, senza capire, aspettandosi dal suo compagno una spiegazione diversa dal suo sorriso triste mentre lo osserva con un’espressione per cui Elliot non possiede aggettivi.
Poi i suoi occhi si poggiano sulla foto.
È piccola, vecchia, protetta da una sottile cornicetta in vetro che punge un pochino nella sua mano. Il lato sinistro è un po’ ingiallito, ma in generale tutta la fotografia gli ricorda le vecchissime stampe a casa di sua nonna.
È strano che la prima figura che gli salti agli occhi sia quella di Gilbert, il vero fratello di Vincent. Forse perché la villa del suo migliore amico è cosparsa di foto di Gilbert che legge, Gilbert che mangia un panino, Gilbert e Vincent alle terme, Gilbert e Vincent sotto la Torre di Pisa, Gilbert che apre il suo ristorante al centro di Parigi: ogni singolo centimetro quadrato di parete libera viene combattuto palmo a palmo perché Leo vuole appendere una nuova mensola per i suoi libri –che, a onor del vero, hanno superato qualunque limite della decenza, sono anche nella vasca da bagno- ed impedire a Vincent di tappezzare la casa con poster a grandezza naturale di suo fratello. Poster e foto che Elliot è stato costretto a vedere uno ad uno il primo giorno che ha avuto la malaugurata idea di accettare un invito a pranzo del suo migliore amico e che gli scorrono davanti agli occhi anche in quell’istante, quando realizza con un certo senso d’angoscia che tra le tante foto di quella maestosa casa non ve ne è nemmeno una che ritragga Leo. Né si sono mai scattati una foto insieme.
Forse è per questo che sente qualcosa di strano, un fastidioso peso sul cuore quando tra le tante facce sconosciute che sorridono nella sua direzione avvolte in abiti dello scorso secolo ne riconosce una. Una il cui viso è nascosto da una cascata di capelli neri che nemmeno gli anni sono riusciti a sbiadire. Una con un paio di occhiali così spessi che è impossibile leggervi gli occhi.
Una che ha il sorriso più bello di tutti, perché il suo sguardo non è diretto all’obiettivo.
Leo gli sorride da un altro tempo.
Cioè, in realtà sorride all’altro, a quel tipo che davvero gli somiglia come una goccia d’acqua a parte il fatto che indossa un abito così formale che Elliot non lo avrebbe messo nemmeno il giorno della cresima. Ha una faccia stizzita mentre Leo gli tira il braccio –con due mani, non riesce a credere che in un tempo lontanissimo il suo amico avesse avuto una mano sinistra- come per tirarlo dentro, per chiamarlo in quell’universo festoso che sembra vivere per sempre.
Alza la testa per chiedere spiegazioni, ma dalla sua bocca esce un semplice “Leo …?”
La figura del suo migliore amico sembra disegnata nella luce e nel vento: una luce che non viene dalla luna, non viene dai lampioni o dalla casa. Viene quasi dal corpo stesso che si illumina come una stella, ed anche se il buonsenso gli grida di allontanarsi immediatamente da lì Elliot rimane immobile, incapace di accettare, di capire, di gridare quello che sta accadendo: la voce di Leo pronuncia due parole, due parole sole dette con una voce flebile e distante mentre il vento si alza, ed il corpo pallido insieme a lui. In quella luce gli sembra di vedere qualcosa, un gioco di ombre negli occhi e nel cuore. C’è una minuscola libreria polverosa, una casa bellissima, degli uomini che gli sorridono. C’è il profumo di una festa in mezzo al prato, l’aroma di un the consumato sotto un albero, un ballo come quello delle fiabe dei bambini. Ci sono volti che vanno e vengono senza sosta tra risate, urla, litigi, un gesto di amicizia verso un ragazzino che non conosce. Immagini che appartengono ad un’altra storia ma che il suo cuore sembra riconoscere perché accelera, si scalda, batte al ritmo della melodia che, ne è sicuro, Leo ha tamburellato fino all’ultimo istante. Tende la propria mano verso quella di Leo perché non se ne può andare, non vuole che se ne vada ma quella gli svanisce tra le dita, si trasforma in un’onda color oro che per un rapido momento trasforma l’intera spiaggia in un nuovo giorno e poi scompare, saettando verso l’alto come una minuscola candela. L’ultima cosa a svanire è la voce, due parole che hanno aspettato cento e più anni in un cuore che adesso è lontano, troppo lontano per Elliot.
Anche lui vuole dire qualcosa.
Vuole dirgli che il professor Letti ha anticipato il compito di fisica a domani. Che la gita scolastica la faranno a Barcellona e sarà la loro unica opportunità di rimorchiare due belle ragazze spagnole.
Che gli deve dare una mano ad imparare a memoria quei cavolo di quiz della patente.
Vuole dirgli che se proprio deve andare a perdere tempo all’università gli piacerebbe andarci insieme a lui, almeno si faranno due risate.
Vuole dirgli che stavolta le cose andranno nel verso giusto e che può lasciare gli spettri del passato in un cassetto, perché il loro futuro è un po’ confuso ed incasinato ma è là davanti, possono stringerlo, toccarlo, annegarci dentro come in un lago di luce dorata e lasciare che tutti gli incubi di Leo vi sprofondino una volta per tutte.
Ma, quando apre la bocca, può solo parlare alla risacca.
La notte è tornata di nuovo, e l’unico segno di vita sono le luci di una nave all’orizzonte. L’unico suono è quello del cancello arrugginito dei Cento Scalini che cigola e sbatte, cancellando con il suo rumore metallico quelle ultime parole che forse sono frutto soltanto di un sogno ad occhi aperti.

“Scusami, Elliot”.





N.d.W.: ho fatto qualche becero calcolo. Pandora Hearts sembra ambientato in un periodo storico simile al tardo Ottocento ... dunque Elliot nasce cento anni dopo, quindi alla fine del Novecento. Dunque questa storia, in cui lui è in quinto liceo, è verosimilmente ambientata un brevissimo tempo prima del MIO quinto liceo, quindi mi sono azzardata a fare dei paralleli. Qualcuno riconosce l'ambientazione?
  
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