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Autore: _eco    17/09/2015    2 recensioni
Per più di un anno Arizona ha avuto paura delle stelle. Ogni volta che alzava lo sguardo verso il cielo, un senso di disorientamento la pervadeva. Aveva trascorso quattro notti, nei boschi, a fissare quella distesa di punti luminosi, sempre uguali, sempre fissi.
Per più di un anno, Arizona ha avuto paura di guardare il cielo di notte, e si è accorta troppo tardi che anche Callie, più si allontanava, più si confondeva con le stelle che tanto la spaventavano.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Arizona Robbins, Callie Torres
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
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Questa storia è stata scritta circa un mese fa e ho deciso di pubblicarla solo ora, per motivi che non sto qua a spiegare, motivi abbastanza noiosi in realtà.
E niente, è il solito pippone/mattone che viene fuori se scrivo immedesimandomi in un personaggio che non so se odiare o amare. In generale, scrivere su questo tipo di personaggi mi aiuta a capirli meglio e a biasimarli di meno - come se fossero persone normali lol 
Va bien, toccata e fuga in sto fandom nuovo. 
Mi sa che questo è il momento della fuga.
Ah, scema me. Il tutto gira attorno al Memorial Day, che si tiene nel mese di Maggio e, per chi non lo sapesse, ma dubito che ci sia chi non lo sappia, è un evento durante il quale si rende omaggio ai caduti in guerra. 
Ora fuggo davvero lol
S.
Lanterne nel cielo.
[Post season 11]
Arizona firma il documento di dimissione del suo ultimo paziente. A qualche metro di distanza,  avverte una risata che sarebbe in grado di riconoscere tra mille, ma che col tempo, con la pratica, nel giro di un anno ha imparato a ignorare. Non che non la senta, non che non se ne bei per qualche istante - perché resta la risata più musicale che abbia mai sentito, insieme a quella di Sofia -. La ascolta eccome. Le fa eco con un sorriso appena accennato, ma poi la relega in un angolo del suo campo uditivo, concentrandosi su qualcos'altro. Qualsiasi cosa. 
Callie frequenta una nuova donna da un paio di mesi, forse di più. Arizona ha perso il conto della velocità con cui le cose che ama le scivolano via dalle mani come sabbia. Dicono che accade lentamente, come se tutto andasse in slow motion, ma per lei non è stato così,  non lo è mai stato. Quando Timothy è morto, è bastata una telefonata per sconvolgere il suo mondo. È bastata una telefonata, un discorso di cordoglio così trito e ritrito da essere ormai svuotato del suo significato. Una telefonata, e suo fratello era morto. 
Nulla è andato in slow motion. I suoni non sono diventati velati d'ovatta, le immagini davanti a lei non hanno perso i loro contorni definiti. Tutto era uguale, tutto era normale. Le persone intorno a lei continuavano a camminare alla loro velocità standard. E anche lei lo faceva. Anche lei camminava, respirava, pensava. A volte piangeva. Le dicevano "è normale, è normale piangere." E se si sforzava un po', riusciva anche a crederci. È normale. 
Nick è morto durante la sua convalescenza post -amputazione. Era in Belize. Sua sorella gliel'ha comunicato via email. Arizona l'ha aperta ancor prima che la suoneria smettesse di trillare.  Succede questo quando sei confinata in un letto d'ospedale, a casa tua, con un portatile sulle gambe. O gamba. Gamba e moncone, ecco. Sei immediatamente reperibile. 
Arizona voleva vomitare, ma raggiungere il bagno avrebbe richiesto uno sforzo estremo. Voleva accendere una sigaretta e fumarla affacciata alla finestra, circondata dal grigiore di una Seattle perennemente piovosa. Ma non l'ha fatto. Le sigarette le aveva vicine, poteva accenderne una e fumarla distesa a letto, ma per quanto intrattabile fosse in quei giorni, non si sentiva stronza al livello di far trovare a Callie cenere sparsa per le lenzuola. Così ha pianto. Perché è normale.
Quando Callie si è alzata dal divanetto della sala di counseling ed è andata via, Arizona è rimasta immobile per qualche secondo, quasi un minuto forse. Il cuore ha continuato a battere, forse un po' più lentamente. Per quanto avesse tentato di trattenere il fiato, il diaframma aveva iniziato a salire e scendere come di norma, dopo un po'. Era viva, in qualche modo. Tutto normale. Tutto normale, tranne per il fatto che la sua camicetta sembrava meno rossa e lucente di quando l'aveva indossata quel pomeriggio prima di uscire. E i muri erano più opachi. E il cielo più grigio. 
- Puoi tenerla. - 
La voce di Callie la distrae dai suoi pensieri. Assorta com'era, non si è nemmeno accorta che le si è avvicinata.
Un'espressione interrogativa di dipinge sul viso di Arizona. 
- Sofia. Puoi tenerla domani, se hai bisogno di... compagnia. -
Callie indossa un vestito nero. Arizona lo ricorda bene. Per quanto provi ad evitarlo, non riesce a non guardare oltre le spalle di Callie: una donna dai capelli biondo cenere se ne sta in piedi a qualche metro di distanza, in attesa.
- Devo interpretarlo come un gesto di generosità o come una strategia per uscire con Crystal? - risponde Arizona, in tono scherzoso.
Callie si morde il labbro inferiore, gli occhi che si assottigliano lievemente. 
- Entrambe le cose, suppongo. -
Arizona annuisce, prendendo distrattamente la borsa dal bancone. I colori attorno a lei sono tornati normali. È bastato - o servito, dipende da come la si vuole vedere - un mese dopo che Calliope è uscita dallo studio della dottoressa Kirk. Il cielo è sempre grigio,  ma questo è da imputare al clima di Seattle. La sua camicetta rossa ha ripreso la sua tonalità originale. Solo gli occhi di Callie sembrano più scuri di quanto lei ricordasse. Scuri e distanti. 
- Grazie, Callie. - si congeda Arizona, con un sorriso sincero. 
Incerta se dire qualcos'altro o meno,tutto ciò che riesce ad aggiungere è: - Divertitevi. Sembra una apposto. - 
Callie annuisce. Dovrebbe rispondere? Probabilmente sì, ma Arizona non gliene da il tempo. Si allontana a passi rapidi verso l'ascensore. 
 
 
È fine maggio. La brezza estiva inizia a farsi sentire sulla pelle, scompiglia i capelli, impedisce di tenere gli occhi bene aperti, pervade le narici e rigenera l'animo. Ad Arizona piace questo periodo, e anche a Sofia. Se non fosse che non è biologicamente sua figlia, Arizona direbbe che è qualcosa che ha preso da lei, così come l'abitudine di camminare a piedi scalzi per casa e l'odio viscerale per le arance. Sono solo piacevoli coincidenze, e Arizona è contenta che esistano. 
- Ecco qui. - 
Arizona porge una candela artificiale a Sofia, che la maneggia con sospetto e meraviglia. 
- Non è fuoco vero. - le spiega, probabilmente per la terza volta negli ultimi anni. - Ma è comunque un po' caldo, quindi fai attenzione a non avvicinarti troppo alla fiamma. - 
Sofia annuisce, rapita dal rosso intenso che si riflette nelle sue iridi color cioccolata. Fa scattare in avanti un pulsante nero alla base della candela di plastica, e nel giro di pochi istanti la fiamma diventa di un intenso blu elettrico.
Arizona tiene in una mano un cero con una onda di fuoco arancione. Inspira profondamente, lasciandosi invadere dall'aria primaverile, quasi estiva, e dal profumo della cera sciolta. Assicurandosi di stringere per bene Sofia con la mano libera, chiude un attimo gli occhi. Qualcuno vicino a lei piange. Si potrebbe dire, dal ritmo continuo dei singhiozzi, che la sua perdita sia stata piuttosto recente,  ma Arizona non può esserne sicura. Diagnosticare il dolore emotivo non è semplice e immediato come lo è individuare le cause della sofferenza fisica, che è per sé un lavoro tutt'altro che facile. Non smetti mai di sentire la perdita di una persona cara, non smetti mai di rimproverarti per non averle detto quanto la amassi prima che partisse per la guerra. Non smetti mai di chiederti quale sarebbe la sua reazione a un evento particolarmente importante della tua vita. Non smetti mai di interrogarti sui forse e sugli e se
Arizona sa che Timothy avrebbe ballato come un matto al suo matrimonio, e che avrebbe comprato un cappellino da militare a Sofia, scattandole una decina di foto, divertito. Sa che le avrebbe insegnato ad arrampicarsi sugli alberi, sotto lo sguardo terrorizzato di Callie e Arizona. Sa che le avrebbe fatto uno dei suoi discorsi da incorniciare pur di farla alzare dal letto e accettare la sua gamba monca. "Al massimo torno senza una gamba." Lo aveva detto una volta per far sorridere sua madre, facendola soltanto scoppiare in un pianto dirotto. Arizona aveva riso e gli aveva dato uno scappellotto giocoso. Timothy si sarebbe alzato da quel letto il giorno dopo l'operazione, se nessun medico glielo avesse impedito. O almeno, così le piaceva immaginare.
Il silenzio intorno a lei è quasi irreale. Non è un silenzio puro. I singhiozzi, i mormorii, qualche risata solitaria, ci sono ancora. Ma c'è un’ atmosfera di profondo rispetto, come se una invisibile  cupola di vetro fosse scesa a coprire la folla che si estende per tutta la lunghezza del parco.
Sofia inizia a diventare irrequieta, come spesso accade quando sta ferma per troppo tempo. Arizona se ne accorge dai suoi tentativi di divincolarsi dalla stretta della madre. Non lo avrebbe mai immaginato fino a una decina di anni fa, ma Arizona è la classica madre iperprotettiva, che, in un luogo troppo affollato, ha la costante fobia di perdere d'occhio sua figlia. 
- Sofia, faresti una cosa per me? - le chiede, tentando di distrarla. 
La bambina replica con un borbottio d'assenso, non del tutto convinta.
- Vorrei che lanciassi tu la lanterna quest'anno. Ti va? -
Sofia, lo sguardo fino a poco fa perso fra la folla alla ricerca, forse,  di uno spiraglio attraverso cui sgattaiolare, solleva il viso, gli occhi illuminati da un nuovo entusiasmo, le labbra modellate in un gioioso sorriso.
- Lo prenderò per un sì. - 
Sofia si stringe alla madre, abbracciando con cautela la sua gamba sinistra. Pur nella sua ingenuità di bambina di appena sei anni, Sofia sa esattamente quanta pressione esercitare contro la protesi di sua madre. Appoggiarvisi un tantino troppo potrebbe farle perdere l'equilibrio, ma Sofia sta ben attenta a non oltrepassare il limite. 
Arizona sta per chiudere nuovamente gli occhi, beandosi del venticello fresco e della vicinanza di sua figlia a sé, quando, tra il profumo di cera e del praticello del parco, è pervasa da un odore familiare. All’inizio pensa di averlo soltanto immaginato. La razionalità le suggerisce che molte altre persone a Seattle utilizzano lo stesso profumo.
Solo quando sente diminuire la pressione di Sofia sulla protesi, capisce che qualcosa ha attirato anche la sua attenzione. O qualcuno. D’istinto, Arizona apre gli occhi e segue lo sguardo luminoso di sua figlia. La bambina allarga le labbra in un sorriso a trentadue denti, di quelli che riserva soltanto a pochi eletti.
- Mamma! – esclama, prima di lanciarsi tra le braccia di Callie, che la solleva, di certo non con la stessa facilità di uno o due anni fa.
Sofia, come più o meno tutti i bambini della sua età, ha quel tipo di voce che molto spesso si trasforma in uno strillo continuo, acuti che potrebbero perforarti il timpano. Arizona la chiama scherzosamente “citofono umano.”
Sofia ha anche un’abitudine particolare, che ha assunto da quando i suoi genitori hanno divorziato: nel momento in cui una delle sue madri la prende in braccio, inizia a toccarnie, definendone i contorni con le manine paffute, come se avesse paura di non poterne più ricordare i tratti somatici.
Arizona, assorta a guardare la scena che le si presenta davanti, per un attimo dimentica quanto sia inusuale e totalmente imprevisto che Callie sia lì.
Dovrebbe essere con Crystal, in qualche costoso ristorante del centro città, o in casa con un buon bicchiere di vino a chiacchierare e… altre cose. Arizona scuote la testa. Non è ancora arrivata al livello di poter pensare a Callie coinvolta in altre cose con altre persone.
- Che ci fai qui? – chiede allora.
Callie non risponde, decidendo di essere molto più attratta dalla candela artificiale che Sofia ha lasciato cadere per terra nell’euforia di correre ad abbracciarla. Con cautela, tenendo Sofia per la schiena con una mano, si inginocchia per recuperare la candela.
- Fai attenzione. – ammonisce la bambina, prima di affidarle l’oggetto.
Sofia annuisce, sbuffando e roteando gli occhi. Altra abitudine che ha assunto da poco meno di un anno. Callie abbozza un sorriso divertito, consapevole che ben presto simili reazioni porteranno a un bel discorsetto con la signorina altezzosa che tiene fra le braccia.
Arizona sta per ripetere la sua domanda, quando Sofia esordisce, raccontando a Callie che sarà lei a lanciare la lanterna cinese stasera. Callie le risponde con un sorriso entusiasta.
- Ah sì? E mamma ne è al corrente? – le chiede, memore di quelle volte in cui Sofia, di sua iniziativa, senza consultare né lei né Arizona, ha dato per scontato di poter fare parecchie cose: mangiare più merendine del dovuto, divertirsi provando a camminare sui tacchi di Callie per tutto il corridoio di casa, rischiando di slogarsi una caviglia.
Sofia mette su un broncio, fingendo di essere offesa.
- Mamma me l’ha chiesto. –
Arizona, che fino ad allora si è ostinata a tenersi lontana dalla conversazione tra Callie e Sofia, conferma l’affermazione della bambina con un cenno della testa.
Quando Callie si avvicina ad Arizona, in piedi alla sua sinistra, Sofia tra le sue braccia, indecisa se impegnarsi a tenere per bene la candela o se giocare con i capelli di sua madre, sembra quasi che siano tornate indietro nel tempo.
- Siamo venute qui per la prima volta sette anni fa, qualche settimana dopo la sparatoria… - dice Callie, chinandosi per adagiare Sofia sul praticello: ottima strategia per non guardare Arizona negli occhi mentre parla.
- Callie, perché…? – la interrompe l’altra.
- Sto rispondendo alla tua domanda. – afferma Callie con decisione, intenta a sistemare i capelli di Sofia in una coda di cavallo che si spera duri più di dieci minuti.
Arizona si schiarisce la gola, annuendo più a se stessa che a Callie.
Callie sistema le pieghe del suo vestito. Quando sono insieme e non parlano di Sofia o dei turni di lavoro o del tempo, ogni distrazione sembra di gran lunga più interessante del guardarsi negli occhi durante una conversazione.
Callie sa che sarà un lungo discorso, per questo preferisce guardare davanti a sé e occasionalmente controllare Sofia.
- Tu hai voluto accendere un cero per Reed Adamson. Hai detto che non importava se non apparteneva al corpo militare e non era caduta in guerra. Ne accesi uno per Charles Percy. Poi ringraziai Dio, per averti protetto in quei dieci minuti in cui Gary Clark è entrato armato nella stanza in cui ci trovavamo. Tu dicesti che ero stata io a proteggerti, frapponendomi tra te e quell’uomo. Io ti risposi che Dio aveva protetto me, perché quell’uomo avrebbe potuto uccidermi e non è successo. –
Arizona si morde il labbro e deglutisce rumorosamente. Ricorda benissimo quella sera. Ricorda di essersi spaventata quando i fuochi artificiali erano scoppiati in cielo, così simili al rumore di un proiettile che esplode nell’aria. Ricorda di essersi stretta a Callie senza dire niente, perché non devi per forza parlare di cosa hai paura, giusto? E suo padre le ha sempre detto che, se non ammetti le cose ad alta voce, allora non sono vere. Per questo il primo passo dell’accettare il suo divorzio con Callie è stato quello di dirlo ad Alex Karev, ad alta voce e chiaramente, perché era vero e doveva accettarlo, che le piacesse o meno.
- L’anno dopo non siamo venute. Sofia era ancora in incubatrice, io in convalescenza, tu troppo testarda per andare da sola e lasciarci per due ore scarse. Hai acceso una candela e l’hai messa sul comodino della mia stanza d’ospedale, accanto a una foto di tuo fratello. Era la prima volta che vedevo il suo viso. La prima cosa che ho pensato è che aveva il tuo stesso sorriso. O tu hai il suo, perché tecnicamente sei più piccola, ma non importa. –
Arizona si ritrova a sorridere, minuscole fossette agli angoli della bocca. Anche lei guarda davanti a sé: l’unico momento in cui i loro occhi s’incontrano, quasi per una strano effetto di transizione, è in quei secondi in cui, inconsapevolmente, decidono di guardare entrambe Sofia.
- L’anno successivo non hai voluto che Sofia venisse con noi. Dicevi che c’era troppa tristezza e che lei non era grande abbastanza. L’abbiamo lasciata con Mark. Quando siamo tornate a prenderla, li abbiamo trovati seduti sul divano, davanti a una consolle. Non abbiamo mai capito se Mark tentasse di girare il joystick o Sofia per uccidere zombie alla tv. Ti ho fatto notare che era troppo piccola anche per quelle ammazzatine fasulle. Tu hai riso. –
Arizona annuisce, sbirciando con la coda dell’occhio la figura in piedi accanto a lei. I capelli scuri di Callie ricadono in morbide onde sulle sue spalle. Arizona crede di aver dimenticato l’ultima volta in cui li ha visti raccolti in una semplice coda di cavallo, e non ne è affatto dispiaciuta.
Vorrebbe che il racconto di Callie si fermasse lì, a quando le cose erano normali e, se non semplici da gestire, almeno non catastrofiche.
- L’anno dopo ancora non hai voluto sentire ragioni. Dicevi che la gente avrebbe fatto troppe domande, che ti avrebbe guardata con pietà e non potevi sopportarlo anche in quella occasione. Sei rimasta tutto il giorno chiusa in camera. Io ho recitato una preghiera per tuo fratello, o forse a tuo fratello, non saprei dirlo. Mi sarebbe servita una mano, giusto un po’ d’aiuto per tirarti fuori da quella stanza e convincerti a prendere un appuntamento per provare una protesi. –
Arizona sbatte ripetutamente le palpebre. È un trucco piuttosto efficace per cacciare indietro le lacrime.
Sofia sembra aver trovato un nuovo gioco: riflettere la luce aranciata della candela contro ogni superficie attorno a lei; ma presto le verrà a noia, e sia Arizona sia Callie lo sanno bene.
- L’anno dopo ancora abbiamo portato Sofia con noi. Non ha pianto, ha fatto solo un po’ i capricci, ma è bastato lo zucchero filato per distrarla. Non volevamo darle in mano un cero con il rischio che si bruciasse, perciò le abbiamo comprato una candela artificiale, ripentendole comunque di stare attenta…-
-… perché anche se è plastica, scotta lo stesso. – completa Arizona.
- Giusto. – le fa eco Callie, con un mezzo sorriso.
È la prima volta in cui si guardano negli occhi da quando Callie ha iniziato a parlare. Con non poca sorpresa, Arizona nota che Callie non ha un filo di trucco sul viso, se non un po’ di mascara che rende ancora più grandi i suoi occhi. Con la luce del cero proiettata sulle sue iridi scure, per un attimo Arizona è sicura che i colori siano tornati anche negli occhi di Callie. Non sono più scuri e distanti, ma luminosi e caldi. Probabilmente è solo un effetto ottico.
- Nei due anni successivi ho lasciato che andassi da sola. Tu non hai mai chiesto compagnia. –
- Mi pareva poco opportuno chiedere alla mia ex di accompagnarmi. – borbotta Arizona.
- Giusto. –
Entrambe respirano rumorosamente. Arizona ricorda i brividi di freddo lungo la schiena, il vuoto accanto a lei, l’assenza dei gridolini entusiasti di Sofia e del tono allarmato con cui Callie le ricordava di non allontanarsi da loro, il fantasma del braccio di Callie intorno alle sue spalle. Ricorda il deserto che si era ritrovata al posto della gola, quando la signora Williams le aveva chiesto dove avesse lasciato la sua adorabile bambina.
- Vorrei non averti lasciata sola. Vorrei almeno averti permesso di portare Sofia con te. Vorrei… vorrei che le cose fossero andate diversamente. Vorrei un sacco di cose. –
La voce di Callie si spezza sul finire della frase, ma si ricompone subito. Arizona sa che in mezzo a quel sacco di cose si trovano moltissimi errori commessi da lei in prima persona. Per un attimo considera l’idea di scusarsi, ma negli ultimi anni l’ha fatto così tante volte che ripetere le medesime parole adesso la renderebbe ancora più patetica.
- Non importa. – decide di dire.
Niente va in slow-motion. Le immagini di quello che avrebbero potuto essere in questi due anni – lei, Sofia, Callie – scorrono rapidamente davanti ai suoi occhi, troppo veloci anche solo per essere afferrate e guardate con attenzione. Arizona vede la casa sull’albero che non hanno mai avuto il tempo di costruire nel giardinetto. Vede le serate al cinema davanti a stupidi cartoni animati, resi sopportabili solo dai gridolini e dalle risatine divertite di Sofia. Vede sfumare davanti a sé le serate di una normalissima famiglia più o meno felice: il ritorno da un turno di lavoro stancante, una cena calda pronta in tavola, una sciocca commedia alla tv.
La sfilata di tutte le cose che né Arizona né Callie hanno potuto avere è interrotta dall’impazienza di Sofia.
- Mamma! Mamma! La lanterna! –
Callie si schiarisce la gola, scuotendo la testa. Si china sulle ginocchia, le mani sui piccoli fianchi di Sofia.
- La lanterna, giusto. – le fa eco, dandole un bacio sulla fronte.
Sofia strofina il viso contro la guancia di Callie. È ormai diventata una professionista nel mettere in atto tecniche di persuasione eccellenti, ruffiana com’è.
Arizona osserva in silenzio la scena davanti a sé, sorpresa e al contempo consolata dal fatto che la pazienza di Callie non è mai svanita. Il fatto che Arizona sappia perfettamente il tono con cui Callie parlerà a Sofia la rende giusto un po’ meno estranea a questo insolito quanto nostalgico quadretto familiare.
Con cautela, Callie aiuta Sofia a sistemare la lanterna. Arizona vorrebbe chinarsi sulle ginocchia, mettersi all’altezza di sua figlia e distinguere ogni scintilla di energia e trepidazione nei suoi occhi, ma è troppo stanca per farlo e non è sicura che la sua protesi possa permetterle un simile movimento. Se Callie non fosse arrivata, probabilmente avrebbe chiesto aiuto alla signora Williams, in piedi una fila più in là. Avrebbe guardato sua figlia interagire con una donna sulla cinquantina che l’avrebbe aiutata ad accendere la lanterna e lanciarla in cielo.
Non si sarebbe mai aspettata di assistere a questo.
- Pronta? – chiede Callie.
Sofia annuisce, contenta che le sia stato permesso di fare qualcosa da adulta, programmando già di raccontarlo a Zola.
La lanterna si solleva lentamente, sbandando un po’ qua e un po’ là, sospinta dal vento. Callie prende fra le braccia Sofia, che con il dito indica imperterrita la lanterna, perché “non dobbiamo perderla, mamma.”
Arizona imita Sofia, lo sguardo perso in cielo, che corre da un batuffolo trasparente all’altro, finché non incrocia il punto esatto in cui gli occhi della bambina sono fissati.
La loro lanterna fluttua a poco meno di dieci metri d’altezza, quasi sfiorandone un’altra alla sua destra. È surreale la magia con cui centinaia di sagome bianche danzano l’una accanto all’altra, dirette chissà dove, come se migrassero all’inizio della nuova stagione. Più si allontanano, più assomigliano a tante, minuscole stelle che facilmente si confondono con quelle vere che si stagliano in cielo.
Per più di un anno Arizona ha avuto paura delle stelle. Ogni volta che alzava lo sguardo verso il cielo, un senso di disorientamento la pervadeva. Aveva trascorso quattro notti, nei boschi, a fissare quella distesa di punti luminosi, sempre uguali, sempre fissi. Le uniche volte in cui non le facevano paura era quando la loro luce si rifletteva negli occhi di Mark, perché voleva dire che era sveglio e cosciente, più o meno. E che sarebbero tornati a casa insieme.
Per più di un anno, Arizona ha avuto paura di guardare il cielo di notte, e si è accorta troppo tardi che anche Callie, più si allontanava, più si confondeva con le stelle che tanto la spaventavano.
Confortata dalla presenza di Callie accanto a lei e dal borbottio ininterrotto di Sofia, Arizona si accorge che anche lei vorrebbe un sacco di cose. Vorrebbe aver avuto la forza di guardare il cielo prima che le stelle diventassero troppe e tutte uguali. Le piacerebbe non impiegare mezz’ora per addormentarsi, ancora disabituata alle lenzuola fredde accanto a lei; ma si rende conto che è un capriccio sciocco e che non dovrebbe nemmeno concedersi il lusso di desiderarlo, lei che è stata la causa principale del divorzio.
Vorrebbe avere il potere di cristallizzare questo momento per sempre, perché la carriera va alla grande, Alex è un amico fantastico e c’è sempre un ottimo rifornimento di birra a casa sua, Sofia è una bambina in salute e Callie sembra di nuovo felice, ma per un attimo, per un attimo solo, vorrebbe essere felice anche lei ogni minuto di ogni giorno come lo è ora.
Arizona è sempre stata brava con le parole, è sempre stata lei quella dai discorsi lunghi e profondi, ma questa volta pensa che una parola basti e avanzi.
Si alza sulle punte per raggiungere la guancia di Sofia con un bacio e decide che è il momento giusto per dirlo, senza che sembri imbarazzante, senza che sembri tirato fuori dal nulla.
- Grazie. –
All’inizio non è sicura che Callie l’abbia sentita, poi inizia a dubitare di aver parlato davvero. Forse l’ha solo pensato. Forse gliel’ha detta così tante volte in questi – quasi – due anni, che anche questa ha perso il suo significato.
Quando Callie piega le labbra in un sorriso e inclina lievemente il collo, Arizona capisce che l’ha sentita. E questa è la sua risposta.
È tutto qui.
Arizona non sa che Callie vorrebbe cingerle le spalle con un braccio, come facevano spesso quando Sofia era con loro, come per racchiuderla in una bolla perfetta e infrangibile. Nessuna delle due aveva mai apertamente dichiarato che quel semplice gesto, nato per proteggere Sofia, facesse sentire al sicuro entrambe. C’è qualcosa che la blocca, forse il peso di tutti gli errori che hanno commesso negli anni, forse quel briciolo di orgoglio che la convince di essere migliore, di meritare di più e probabilmente è vero.
Callie non sa che Arizona vorrebbe stringerle un braccio e appoggiare la testa sulla sua spalla. Qualcosa la frena: la sensazione di non essere abbastanza, di non essere degna, dopo tutto quello che le ha fatto passare, e in effetti è così.
Magari un giorno esisterà un universo più o meno perfetto in cui potranno starsi vicine senza percepire la presenza di sensi di colpa, rancore, inadeguatezza e rimpianto. Magari, un giorno, Callie capirà perché ha preferito venire qui invece di uscire con la sua nuova ragazza. Magari, un giorno, Arizona capirà perché negli ultimi mesi ha temporeggiato pur di non iniziare a cercare un monolocale in cui vivere senza dover sentire rumori poco gradevoli dalla stanza di Jo e Alex, la notte. Magari, un giorno, tutti quei vorrei si trasformeranno in siamo. 
  
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