Una piccola nota prima di cominciare: questa storia avrebbe una colonna sonora, è nata ascoltando le musiche del film “Il favoloso mondo di Amélie”. Se poteste ascoltarle, sarebbe perfetto.
Altrimenti fa lo stesso.
Eppure, eppure
Immaginate la storia ambientata qui.
1° capitolo
L’auto,
una Cadillac verde d’epoca, si fermò nella spiazzo
adiacente alla strada. Forse anni prima c’era stato qualcosa lì attorno- un paese
poco lontano, un distributore di benzina- ma l’emigrazione
verso la città aveva reso tutto ben più desolato
di quanto avrebbero potuto fare una calamità naturale o una
guerra.
E
la legittima proprietaria aveva ripreso possesso di quella terra,
rimpadronendosi di ogni singolo centimetro e fessura. Una vegetazione
brulicante di vita, ma ostile e quasi rabbiosa aveva ricoperto
nuovamente ciò che gli umani le avevano sottratto decenni
prima.
E
un esemplare di questa specie se ne stava per l’appunto fermo
sul ciglio, al limite di confine tra il civile (se così si
può definire una strada perlopiù deserta) e il
selvatico.
Dato
che nel raggio di chilometri non abitava più nessuno, la
levataccia cui era stato costretto quella mattina per trovarsi in quel
punto all’ora prestabilita l’aveva messo di pessimo
umore. E a farne le spese, poche ore prima, erano stati sia la moglie
che il cane.
Ma
avrebbe preferito affrontare cento mogli inviperite e mille cani
rabbiosi piuttosto che mostrarsi anche solo lievemente contrariato di
fronte a quei tre cittadini i quali, più che zotici
arricchiti, sembravano discendere da chissà quale alto
lignaggio.
Anche
se non avesse saputo che erano parenti, l’avrebbe capito al
volo. Si somigliavano in modo stupefacente, pur mantenendo una certa
diversità tra l’uno e l’altro,
sicuramente anche caratteriale. Come variazioni sul tema di un
componimento musicale. Andante, Adagio,
Moderato. Se avesse potuto disporre di un minimo di
conoscenza musicale, li avrebbe senz’altro definiti in quella
maniera.
Invece
si limitò ad osservarli mentre scendevano lentamente
dall’auto.
Fu
quasi tentato di distogliere gli occhi quando il giovane che aveva
guidato fin lì- unico uomo del gruppo- gli rivolse uno
sguardo. Al poveretto parve quasi di venirne trafitto, mentre
l’altro gli indirizzò un educato
“Buongiorno”, seguito nel saluto dalle due ragazze
che erano con lui.
Chissà
perché, il primo impulso che ebbe fu quello di inchinarsi,
ma fortunatamente il proprio autocontrollo intervenne in tempo a
bloccare quest’istinto.
-
Buongiorno
– rispose, chiedendosi perché mai stesse sudando
come un pollo in forno mentre i tre giovani sembravano perfettamente
freschi, come se non sentissero il caldo soffocante di quel tre luglio,
oltretutto aggravato dall’umidità emanata dalla
vegetazione lì attorno.
-
Ho portato le chiavi
– continuò, porgendo un mazzo un po’
arrugginito, ed evitando con cura di fissare gli occhi in quelli di
ghiaccio dell’uomo di fronte a lui. Stranamente,
all’improvviso sentiva quasi freddo.
-
Grazie – si
sentì rispondere.
-
Non che servano a
molto – commentò poi, tentando di intavolare un
minimo di conversazione per non sentirsi più così
a disagio – Oramai porte e finestre sono lì solo
per arredamento, ve ne accorgerete…
-
Immagino quindi che
la trattazione possa considerarsi conclusa – lo interruppe la
voce fredda e calma del suo interlocutore, fissandolo senza battere
ciglio.
-
Oh…
sì, sì certo! – si affrettò
a rispondere il poveretto – Eccome! Questo rudere
è tutto vostro!
-
Bene…
arrivederci – e con tali parole di affettata cortesia
l’uomo capì di essere stato appena congedato.
Rimase
immobile ancora due secondi, tanto per essere sicuro che
l’altro non avesse più nulla da dirgli, ma vedendo
che veniva volutamente ignorato non sembrò trovare altra
soluzione che andarsene sul serio.
-
Beh,
allora… arrivederci! – tentò
un’ultima volta, ostentando una simpatia che non provava
affatto.
L’unica
che dei tre che si voltò a salutarlo fu quella ragazza dai
lineamenti così dolci e i capelli corvini, che gli sorrise
lievemente e accennò un piccolo inchino.
L’uomo
le fece un cenno, riconoscente, e si incamminò verso la sua
piccola “stufa a vapore”, come la chiamava lui.
“Certo,
che stronzi” pensò mentre metteva faticosamente in
moto “A parte la ragazza più grande, gli altri due
mi hanno trattato come scarto di letame. Quello sbarbatello coi suoi
modi da gran signore sembrava voler vedermi strisciare, mentre
l’altra vipera- sarà poco più di una
ragazzina appena uscita dal liceo- non mi ha quasi degnato di uno
sguardo. Hanno sangue giapponese, si vede a colpo d’occhio.
Non sono altro che una stirpe di stronzi, ecco cosa. Se la sono
meritata quella bomba, dopo il tiro che ci hanno giocato nel
’41, altrochè”.
Con questi pensieri infami, si avviò per la propria strada, imprecando e bestemmiando perché una volta a casa avrebbe dovuto fare i conti con la moglie e il cane, e forse non avrebbe avuto tempo nemmeno per un bicchierino al bar.
-
Potevi anche fare a
meno di essere educata con quell’avanzo di fogna, secondo me
– esordì la “vipera”, i cui
lineamenti marcati rendevano il viso leggermente più aspro
rispetto a quello della sorella. Appesa ad una spalla, una borsa dalla
lunga cinghia.
-
Non dovresti definire
così una persona che nemmeno conosci, Hanabi. Che cosa ti ha
fatto? È stato gentilissimo con noi, e l’hai a
malapena salutato – rispose l’altra.
-
È stato
fin troppo per uno come quello. Si salutano gli esseri umani, non le
larve viscide di grasso.
-
Da dove ti vengono
fuori certi appellativi? – chiese la ragazza dai lunghi
capelli neri con un sospiro.
-
Non hai visto come
strisciava? Un altro po’ e pensavo si sarebbe messo a leccare
i piedi a Neji! – ribatté Hanabi, sogghignando
perfida.
La
sorella maggiore rinunciò a dirle ancora qualcosa e decise
di dedicare le proprie energie a seguire il ragazzo, che aveva
cominciato ad inoltrarsi nella vegetazione intricata, l’aria
piena del frinire di migliaia di cicale.
Malgrado le ortiche e i rami spinosi che si nascondevano praticamente dietro ogni foglia e filo d’erba, riuscirono ad arrivare incolumi. Alla casa.
-
Avete fatto
colazione? – una voce acuta riuscì a raggiungerli mentre si trovavano ancora
sul patio davanti casa, giusto prima che finissero con un salto
sull’erba profumata di fine maggio.
-
Sì,
zia! – rispose uno dei due, voltandosi perché il
grido si udisse meglio.
-
E le tazze sono
nel lavandino? – questa volta la voce si fece più
minacciosa, perdendo ogni nota di premura.
Due teste nere e scapigliate si voltarono
l’una verso l’altra, due paia d’occhi
uguali fissi per un istante gli uni negli altri.
Prima di cominciare a correre a perdifiato verso un campo di ortiche che in quel momento sembrava molto più sicuro dell’interno della casa.
Neji
era uno di poche parole, ma in quel momento non sarebbero nemmeno
servite: si vedeva benissimo quel che pensava del rudere che si
trovavano davanti.
-
Tsk – fece
la voce di Hanabi – Peggio di quel che pensassimo, mi sembra.
Stavolta
nemmeno Hinata intervenne a smorzare il suo cinismo. Forse in modo un
po’ lapidario, ma Hanabi aveva centrato il problema.
Un
tempo doveva essere stata senza dubbio una bella casa, una di quelle
che piacevano a lei: intima, luminosa, con quel patio che sembrava
essere fatto apposta per sedersi fuori a chiacchierare nelle sere
d’estate… sembrava l’ideale, ma avevano
sbagliato qualcosa sulla lunghezza d’onda. La casa avrebbe
dovuto essere costruita dopo o lei essere nata prima, per riuscire ad
incontrarsi nel momento giusto. Peccato.
-
Sentite, io mi sono
già rotta – riprese la solita voce –
Vado a fare un giro qui intorno.
-
Guarda che non
c’è niente, qui intorno – le rispose
meccanicamente Neji senza distogliere gli occhi dall’edificio.
-
Perché,
qui c’è qualcosa?
– commentò lei, sarcastica – E comunque,
voi che vorreste fare? Entrarci?
La
sorella maggiore e il cugino si voltarono a guardarla, con uno sguardo
evidentemente eloquente, perché Hanabi fece una smorfia e
alzò le mani in segno di resa.
-
Fate come volete
– disse – Ma se crolla finché siete
dentro, io non voglio saperne niente. E al vecchio non so chi ci
penserà. Saluti.
Detto
questo girò sui tacchi e si diresse verso la parte
più intricata di quella sottospecie di selva dantesca. Il
che provava come, malgrado tutto, avesse ancora parecchio della
ragazzina scapigliata che era stata.
Neji e Hinata tacquero. Poi si scambiarono un’occhiata e si diressero verso l’edificio. O quello che ne rimaneva.
L’infermiera
entrò verso le nove del mattino, aprendo le tende e
lasciando entrare il sole di quella splendida giornata. Un sole forte e
luminoso, ma non abbastanza da riscaldare le pareti bianche.
Aveva
avuto una nottata pessima, grazie a Dio il suo turno era quasi finito.
Ma se pensava alla torma di marmocchi urlanti che la aspettava a
casa…
Era
nervosa e stanca, avrebbe voluto terminare in fretta il suo giro e poi
ciao. Tuttavia, mentre si voltava verso il letto, non poté
fare a meno di bloccarsi per un istante.
Quell’uomo
era malato, anche se non poi così vecchio. Se ne rimaneva
bloccato a letto per buona parte del giorno, uscendo davvero di rado,
ma disturbava anche molto meno rispetto agli altri pazienti.
Era
innocuo, ma riusciva comunque a metterla in soggezione.
“Chissà che razza di timore infondeva quando era
in forze”, aveva pensato tante volte.
Quella
mattina, quando si era voltata, l’aveva trovato con gli occhi
già aperti, rivolti verso la finestra. La donna aveva
sentito dire che le luci dirette fanno più male a chi ha gli
occhi chiari, eppure lui sembrava non battere ciglio.
Le
iridi dello stesso colore dei raggi eburnei che filtravano, si mise a
spostare lentamente lo sguardo dal sole estivo, che brillava in tutto
il suo splendore, al calendario poggiato sul comodino. Cercando di
ricordare qualcosa. Come faceva sempre, anche se raramente con successo.
Quell’uomo
le ispirava rispetto per tanti motivi, ma se le avessero chiesto di
elencarli, non avrebbe saputo addurre altro che considerazioni
apparentemente sciocche e infantili.
Probabilmente
avrebbe iniziato dagli occhi. Le ricordavano moltissimo lo specchio
d’acqua dietro la casa in cui abitava da bambina:
d’inverno ghiacciava, e pattinarci sopra era sempre stato uno
spasso. Finché una volta il ghiaccio non si era spaccato con
un rumore sordo e lei ci era finita dentro, rischiando di…
Il
solo ricordo le mozzava ancora il respiro. Non l’acqua. Non
la profondità. Quel freddo.
Quel freddo che l’aveva colpita come una lama acuminata, come
se mille spade affilate l’avessero trafitta in un solo
istante.
Avrebbe
dovuto dire qualcosa al paziente, anche solo
“buongiorno”.
Ma una forza terribilmente simile all’istinto di sopravvivenza la fece precipitare fuori, correre lungo il corridoio fino alla prima porta aperta, disperatamente in cerca di…
Finalmente all’aperto, immersa in quel calore confortante, si sorprese ansimante, mentre quasi annaspava in cerca d’aria. Cercò di calmarsi, e a poco a poco vi riuscì. Anche se il cuore continuava a martellare impazzito, unico organo che freneticamente cercava di pompare più sangue possibile per riuscire a darle un po’ di calore.
Non
ci avevano messo molto a salire i pochi gradini in pietra dalle cui
fessure usciva ogni specie di erba selvatica. Un’occhiata ai
pali in legno che sostenevano la veranda- marci e storti, ma ancora in
grado di reggere- ed erano entrati.
Come
si poteva prevedere, era rimasto gran poco. Le finestre rotte avevano
lasciato entrare ogni sorta di animali e intemperie, e il risultato era
sotto i loro occhi.
Ma,
nascosto nel forte odore di muschio ed escrementi lasciati da bestie
varie, se ne annidava un altro, appena percettibile ma perfettamente
riconoscibile. Un odore che ricordava loro come quella casa fosse stata
comunque abitata per anni.
In
fondo pure gli esseri umani sono degli animali, e lasciano le loro
tracce.
La
prima stanza in cui entrarono fu la cucina, riconoscibile come tale da
un vecchio tavolo marcio e un forno sgangherato. Dal rubinetto
arrugginito non usciva più acqua da secoli, tuttavia
nell’acquaio stavano ancora alcuni piatti rotti e ammuffiti,
un tempo forse pronti per essere lavati.
Tutto
questo non era sfuggito allo sguardo indagatore di Neji, che scrutava
ogni cosa con perizia scientifica.
Hinata
se ne stava in silenzio, aspettando che fosse lui a parlare per primo.
-
Peggio di quel che
pensassi – esordì lui alla fine, come si fosse
trattato dell’esame di un agente immobiliare ad una casa
palesemente impossibile da vendere.
Ma
la cugina era abituata al suo linguaggio enigmatico, e seppe
interpretare quell’atteggiamento freddo da sfinge. Tuttavia
non disse nulla, dedicando tutta la sua attenzione al corridoio.
-
Continuiamo?
– propose, voltandosi verso di lui.
Neji
annuì, seguendola in quello che doveva essere stato il
soggiorno. Il tessuto del vecchio divano era strappato in
più punti, lasciando fuoriuscire fior di molle. Ai suoi
piedi, una schifezza piena di sozzura animale, un tempo forse un
tappeto di cui al momento non si riusciva ad intuire nemmeno il colore.
Il
volto di Neji oscillava tra il disgustato e l’arrabbiato,
mentre Hinata si avvicinò ad un angolo della stanza in cui
si trovava un mobiletto con un paio di scaffali, i quali ospitavano
ancora alcuni libri. Sorprendentemente, quasi intatti.
-
Guarda qui
– disse, attirando l’attenzione del cugino.
Tirò fuori uno dei volumi e lo sfogliò piano, sul
viso un’espressione vagamente divertita. Poi glielo
passò.
-
-
Già
– rispose lei. Poi passò l’indice sulla
copertina degli altri libri, togliendo sufficiente sudiciume da
riuscire a leggerne il titolo.
-
“Un Canto
di Natale”… - lesse adagio.
-
Dickens? Qui?
– fece lui di rimando.
Lei
seguitò a leggere, senza commentare.
-
“Cent’anni
di solitudine”, “Fiesta”,
“L’ultimo dei
Mohicani” (*)… - e seguitò con un
elenco di
capolavori letterari impensabili da trovare proprio lì, non
ancora intaccati da tarme o altro. Un piccolo tesoro nascosto, che agli
animali non era ovviamente interessato.
Arrivata
ad una copertina forse un tempo verde smeraldo- ora solamente di un
verde opaco indefinito- si fermò qualche istante, per poi
estrarre delicatamente il volume.
Lo
mise fra le mani di Neji, e poi si alzò.
Il
ragazzo, non appena scorse il titolo, non riuscì a dire
nulla. Sembrava non poter credere ai propri occhi, come se ci fosse
qualcosa che sorprendentemente non era al suo posto, allo stesso modo
di un pesce spada sull’Himalaya.
-
Forse potresti tenere
questo – disse piano la cugina – Sembra quasi
più nuovo della tua copia.
Effettivamente
Hinata aveva ragione. Il volume di “Foglie
d’erba” (**) che gli aveva regalato lei per il suo
quindicesimo compleanno aveva ormai la copertina sdrucita e le pagine
consumate dalla troppa lettura. Era stata la prima volta in cui lo
aveva visto infervorarsi per qualcosa, mettere il fuoco e
l’anima in un’attività che non fosse
distaccarsi completamente dal mondo.
Lei
che non riusciva mai a decidere quale fosse il regalo più
adatto per una persona, quella volta ci aveva azzeccato in pieno.
D’altronde,
suo cugino aveva dimostrato di essere forse l’unico
quindicenne a sfogarsi non sulle riviste porno ma leggendo versi quali Io canto il corpo elettrico/ le schiere di quelli
che amo mi abbracciano, ed io li abbraccio/ non mi lasceranno libero
finché non sarò andato con loro, non
avrò dato loro una risposta/ e non li avrò
caricati dell’anima, completamente.
-
Mmm… -
fece lui di rimando, apparentemente incerto. Ma Hinata sapeva di averlo
convinto.
Infatti
il ragazzo riappoggiò il libro sullo scaffale e disse:
-
Lo
prenderò su dopo.
Uscirono
dal soggiorno (o quello che ne rimaneva) e si riavventurarono in
corridoio, fermandosi di fronte ad una stanza un po’
più ampia.
Si arrestarono sulla soglia e guardarono.
-
Ma che avete
combinato? – chiese inorridita la zia alle maschere di sangue
che si era ritrovata sulla porta.
Fortunatamente l’apparenza era ben
più grave della situazione effettiva: una bruschinata forse
un po’ troppo energica, e fu subito chiaro che i danni erano
abbastanza limitati. Un labbro spaccato, sangue dal naso e un morso su
un orecchio uno; un occhio nero, un taglio sul sopracciglio e un
graffio profondo sul braccio l’altro. Oltre alle ginocchia
sbucciate di entrambi.
Tutto sommato, nel complesso costituivano
un’interessante gradazione di colori: dal bianco degli occhi
al rosso del sangue, dal viola degli ematomi al nero dei capelli.
-
Allora?
– li apostrofò l’anziana donna, che in
quelle occasioni sfoderava un’energia davvero singolare.
Nessuna risposta.
-
Chi vi ha conciato
così? – continuò.
Nulla.
-
Vi avverto che
rischiate il digiuno finché non sputerete il rospo!
– li minacciò.
Imperturbabili.
-
Avete cominciato
voi? Mi auguro non abbiate fatto bassezze come battervi in due contro
uno o cose simili! – esclamò.
Uno dei due sembrò sul punto di aprire
bocca per difendere il proprio onore leso, ma l’altro lo
bloccò con un’occhiata.
Quasi impercettibile, ma la donna la colse.
-
Hiashi, lascia
parlare tuo fratello – lo ammonì, guardandolo
storto in maniera ben più evidente, per poi rivolgersi
all’altro ragazzino – Forza, parla.
Ancora silenzio, ma il fatto che continuasse a
mordersi le labbra, benché doloranti, e a stringere gli
occhi significava che non avrebbe resistito ancora per molto.
-
Hanno cominciato
loro – sussurrò, in un soffio leggerissimo.
-
Loro chi?
– seguitò la donna, non mollando l’
interrogatorio.
-
Loro tutti. Tutti
gli altri – stavolta il soffio aveva una leggera sfumatura
ringhiosa.
-
E che cosa vi
hanno fatto?
-
Fatto niente. Ma
hanno detto.
-
Quindi avete
cominciato voi – concluse la vecchia - Chi
alza le mani per primo è automaticamente il colpevole, in
qualunque caso.
-
MA CHE CAZZO,
VECCHIA! – esplose l’altro ragazzino, rimasto zitto
e silenzioso come una bomba a orologeria mentre il fratello parlava
– LO SAI CHE COSA CI DICONO? CHE SIAMO DEI BASTARDI
GIAPPONESI, CHE COMUNQUE NOSTRA MADRE FACEVA PARTE DELLA FECCIA DI
QUESTA SOCIETA’, MA NOI SIAMO PIU’ LETAME DI LEI
PERCHÈ CI HA MOLLATO QUI, COME DUE ORFANI!
-
E tutto
perché LUI aveva questo cognome schifoso, che guarda caso
è l’unica cosa che ci ha dato! E perché
qui sono tutti degli stronzi deficienti! – rincarò
il fratello, incoraggiato dal fegato dell’altro.
Due sberle fioccarono dall’alto, andando
a colpire precise e sonore, ben più roventi di tutti i colpi
incassati quel giorno.
Un’occhiata furiosa dagli occhi bianchi
come saette, e ben presto in quella stanza non ci fu più
nessuno.
Gli unici rumori che si udirono nei minuti
successivi furono la corsa furiosa di due dodicenni sconvolti da un
peso più grande di loro e il pianto di una donna china sul
tavolo della cucina, impotente con quei gemelli che le erano capitati
tra capo e collo anni prima, mollati lì da una nipote
drogata e messa incinta da un giapponese ignoto, finito in quei luoghi
dimenticati da Dio dopo la guerra e il tradimento nei confronti della
madrepatria.
Di lui, solo un nome. Un nome che suonava come un marchio: Hyuuga .
(*) “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcìa Màrquez, “Fiesta” di Ernest Hemingway, “L’ultimo dei Mohicani” di James Fenimore Cooper
(**) “Foglie d’erba” di Walt Whitman, da cui sono tratti anche i versi riportati poche righe dopo
Concluso il primo capitolo.
Questa storia si è classificata quinta
al contest “Alternative Universe Special- 2° edizione” indetto
da DarkRose86, che ringrazio nuovamente per la straordinaria efficienza
e i commenti così precisi e sinceri. Sono felicissima di
aver vinto il Premio per
So che è una storia piuttosto strana, e
mi rendo conto che probabilmente potrà apprezzarla un numero
limitato di persone, però vi devo dire che la amo
moltissimo, per tutte le emozioni che mi ha regalato scrivendola. Sul
serio, non mi era mai accaduto prima.
Se qualcuno dovesse apprezzare (o anche no, non si
sa mai), un piccolo commento sarebbe ben accolto… grazie!
E complimenti a tutte le altre partecipanti!