Per
un autore c’è una sola cosa più
importante del racconto che ha scritto, ed è la storia dietro di esso.
Ho iniziato a scrivere il primo capitolo
nel luglio 2014, all’epoca Manigoldo e la sua leggerezza di vivere
erano un
modello ideale sognato e irraggiungibile.
Poi marzo 2015, la morte di mio padre.
Ed ho scoperto, paradossalmente, che la
vita va vissuta ed amata, non senza una certa leggerezza, perché le
tragedie
non possono che accadere, ma non c’è nulla a cui non si possa
sopravvivere.
Manigoldo è diventato uno specchio e un
amico.
Questo racconto racchiude lo snodo di
una vita, ed è sempre, sempre stata scritto con grande felicità – prima
sognavo
e poi mi affermavo in un nuovo credo: è la storia di una metamorfosi.
Non c’è motivo per cui voi sappiate
tutto questo, ma non ce n’è nemmeno uno per cui non dobbiate saperlo.
Certe cose, semplicemente, a volte fa
piacere dirle.
Riguardo ai luoghi non volevo il realismo,
se non per alcuni cenni: perdonate dei possibili errori a tal
proposito, ma
questi devono diventare paesaggi dello spirito, sul filone dell’Arcadia felix in cui anche Virgilio si è
rifugiato durante la stesura delle Bucoliche (Che paragone eccessivo,
scusate
anche questo).
23
settembre 2015,
Jailer (F.C.)
Anatomia
della Leggerezza
Esordio
su due asini, uno dei quali chiamato Bucefalo
I banditi che mi hanno strappato infanzia,
memoria e notti di sonno non hanno trovato molta umanità in più da
portarsi via
- parola mia.
Ero un bambino crudele già prima.
Ora sono ancora crudele – ma in maniera più
divertita.
Un giorno ho battuto la testa e perso i ricordi.
Mi rimangono i dettagli più insignificanti: una farfalla, un asino,
qualche
notizia di medicina strappata ai manuali di mio padre.
Proprio mio padre, invece, l’ho perso nel
buio; ugualmente la voce di mia madre.
Avrei voluto scordare più cose.
Questa è solo una storia che racconto per
passare il tempo. Non ha nulla di più, né di meno delle altre: è
solamente la
mia.
Era una bella farfalla a cui ho strappato
le ali, ed è morta un istante dopo. Era un pomeriggio d’estate,
frastuono di
cicale, un campo di grano.
Vivevo in campagne baciate dal sole, e lontano,
in basso, si vedeva pure il mare.
Una farfalla fu la prima anima che vidi.
Esplose in un fuocherello blu davanti agli occhi, sul palmo della mia
mano.
Poi scomparve.
Ne uccisi un’altra per essere sicuro. Poi
una cicala.
Mio padre rispose che era solo pressione
bassa. Mia madre non disse nulla, e se lo fece non me ne ricordo. Per
quello
che ne so, aveva una personalità quanto mai insignificante.
Magari l’ho amata, invece, e non lo ricordo
più. Ma si può scordare l’amore?
Non dissi più nulla a nessuno: non ad
amici, perché di quelli non ricordo di averne avuti; né ad adulti,
perché loro
non ascoltano mai niente né tanto meno capiscono.
È colpa dei miei genitori se non so
esprimermi bene: se, quando ci provo, nel migliore dei casi risulto
offensivo.
Nel peggiore, un idiota.
Sono molto sincero con me stesso. A volte
mi rimproverano di essere immaturo, ma io ho solo il cuore aperto, a
modo mio.
***
Mi piaceva vedere le anime: erano deboli e
insignificanti, ma meno dei loro corpi vivi. Le anime erano un’unica ma
meravigliosa esplosione, un fuoco d’artificio, un istante di pura
dignità e
bellezza.
Avevo un modo tutto mio di essere un
esteta: la morte è estetica, edonismo allo stato puro perché
nell’ultimo
palpito di vita c’è una sorta di orgasmo. Lo vedo dal sussulto
meccanico dei
corpi da cui sta per fiorire un’anima. Un brivido, un istante di forza
sublime.
La vita era così debole, invece. La vita si
mimetizzava, taceva, durava tre giorni – farfalle! - e poi si spegneva
nel
silenzio.
Vi andavo perché lì dimoravano le anime
degli uomini. Si agitavano lì, intorno alle tombe. Inconfondibili.
Azzurrine. Nel buio mi prendeva una bella
malinconia, nostalgia di qualcosa, una tristezza esistenziale.
Un’amarezza
profonda.
Finisce
tutto così? Per davvero?
Una
biscetta, un lumino che si dibatte:
ecco un uomo.
Mi divertiva il fatto che lo pensassero.
Credo
che mi divertisse, o, almeno, adesso lo farebbe.
Ero sempre solo. Mi piaceva pensare di
creare un esercito d’anime per marciare sulla città. Un ridicolo
esercito per
una ridicola ambizione.
Le anime volteggiavano un po’ e poi
sparivano in fretta. Ed io restavo ancora più solo.
Mi spiego: uccidevo una farfalla e ne
usciva un’anima, come un pulcino dall’uovo – la morte mi pareva una
nuova vita.
Non era la morte a rattristarmi, ma la vita a sembrarmi troppo debole.
La vera
morte prese forma nella mia mente dopo. La morte esplose nella nube di
fumo che
arse tutto, anche la memoria.
All’epoca, il mio gesto, l’uccidere, si
esauriva in se stesso: uccidere era premere un interruttore per vedere
un
lumicino.
***
Mio padre è una memoria senza volto. Forse
era indifferente, forse egli si disperava con lei.
Manigoldo, mi chiamavano quelli del
villaggio, bestia e demonio, disgraziato.
Il primo era quello che mi piaceva di più –
l’ho adottato!
I manigoldi sono quelli che accompagnano il
boia: era un po’ grossolano, uccidevo solo insetti e piccoli animali,
ma aveva
un suo perché ai miei occhi.
Il mio nome però non lo ricordo.
Con questo potrei rispondere alla domanda
di prima – Si può scordare l’amore?
Se ho scordato persino il mio nome, sì.
E questo da una parte mi consola: ho amato
mia madre, forse. Dall’altra mi rattrista: è
così insignificante amare?
Nemmeno mia madre mi chiamava, mi attendeva
in silenzio però, e in silenzio mi dava da mangiare. Mio padre era
raramente a
casa: faceva il dottore, era l’unico della zona e spesso andava in
altri paesi,
cosa che lo impegnava tutto il giorno.
Imparai a leggere presto, solo con l’aiuto
di mia madre e poi cavandomela da me, perché volevo sapere qualcosa sui
bagliori che vedevo.
Effettivamente non chiamai le anime “anime” finché
Sage non me parlò.
Erano i volumi di mio padre: a lui non
volevo chiedere, ma loro rispondevano, più o meno.
Più meno che più.
Ma qualcosa imparai, e quello mi sarebbe
stato utile per il futuro, di medicina almeno.
E un po’ di letteratura.
Sage era scandalizzato poiché avrei potuto
essere un chirurgo con i fiocchi ma non sapevo contare oltre le
centinaia. E
solo perché i volumi erano più o meno di quello spessore.
***
Ho detto anche che di amici non ne avevo.
Sbaglio: non avevo amici umani.
Avevo un asino. Ed era una bestiaccia
nervosa e inservibile al lavoro per il carattere che si ritrovava.
Un giorno volevo andare a controllare
qualcosa che non ricordo, in un posto lontano da casa mia. Avrei dovuto
portarmi dietro tre tomi abbastanza pesanti.
Troppa strada e troppo peso.
Nel
fienile di casa mia c’era quell’asino.
Lo avevano rifilato a mio padre in qualche maniera e lui, sebbene non
potesse
usarlo per nulla e benché l’animale avesse l’unica funzione di
trangugiare
fieno a tradimento, non se la sentiva di spedirlo al macello.
La cosa da vedere doveva essere parecchio
importante se fu un motivo valido a farmi lottare con quella bestiaccia
per
farla uscire dal fienile. Dio solo sa quanti calci mi sono preso io, e
quante
bastonate lui.
Scoprii presto che, a fargli svolgere
un’attività più gradevole del tirare una macina, anche lui poteva
servire a
qualcosa.
Era il mio tempestoso destriero e io ne ero
fierissimo: lo chiamai Bucefalo, come il cavallo di Alessandro Magno.
Eravamo lo zimbello del paese, ma ci
divertivamo.
“A metterli insieme magari un somaro
decente lo si ottiene.”
Caro Bucefalo, fedele compagno di troppe
ingiustizie - inflitte e ricevute.
Non so chi, fra noi due, si sia preso più
legnate in quegli anni.
***
È stato uno dei pochi desideri che ho visto
venir esauditi. Ed era il desiderio sbagliato.
Pensai di diventare dottore per poter veder
morire qualcuno, ma ci sarebbe voluto troppo tempo.
Un giorno un gruppo di ragazzini mi
provocò, e finì in rissa. Non ero realmente arrabbiato quando tirai una
sassata
in testa ad uno, volevo solo vedere l’anima di una persona. A momenti
lo
ammazzavo, ma non accadde.
Mi sentii deluso: non era morto, e
soprattutto non era morto sul colpo. Se anche lo avesse fatto, dopo
sarebbero
stati solo gran casini.
Fatto sta che quando iniziò ad annaspare e
a fare i movimenti convulsi che fanno quelli che non riescono a
riprendere
aria, mi mancò il coraggio e lo lasciai andare.
Lui non tornò più.
Pensai che fosse meglio aspettare di
diventare medico per vedere morire qualcuno.
***
Ricordo che soffrii parecchio per la morte
di Bucefalo.
Trovai l’asino sventrato in mezzo a quella
che era stata la piazza del paese. I cani affamati della zona gli
avevano già
svuotato ventre e orbite, il sangue che gocciolava, da lui e dai musi
eccitati
delle bestie, si mescolava alla pioggia.
La sua anima era uno spettacolo insulso,
non diceva nulla di Bucefalo, di come era stato – testardo ed egoista.
Capii un’altra cosa: la morte era una
scintilla bellissima, ma uguale per tutti. Nella morte Bucefalo era
sullo
stesso piano di una farfalla o di un topo.
Nella morte, un genio era pari ad un
idiota, un eroe ad un codardo.
Di quella notte ricordo poco o niente:
passò in una nuvola di fumo nero che avvolse tutto, e che, quando si
levò,
lasciò tutto a pezzi. Non so se sopravvisse qualcun altro. Non ho
incontrato
nessuno del mio paese, né allora né per il resto della mia vita.
Gli occhi erano spalancati, e pensai che li
avesse uguali ai miei.
Mi aveva stretto e protetto dal fuoco e
dagli uomini. Mi aveva cantato una canzone che non ricordo per
tranquillizzarmi
quando già tutto ci era crollato addosso. Aveva detto anche il mio
nome, ma
l’ho dimenticato in mezzo alle macerie.
Un tripudio di luce come mai avrei visto in
vita mia, che si riversava in ombre spettrali tra i calcinacci, sugli
alberi
bruciati e anneriti.
Mi guardai intorno e scorsi solo terra bruciata
sotto un cielo grigio.
Anime sbocciavano dai sassi di tanto in
tanto, evidentemente qualcuno spirava, lì sotto. La morte di una
farfalla non
era diversa in nulla: gli uomini fanno solo più rumore.
Le farfalle soffrivano tre giorni e
sapevano volare. Gli uomini conducevano una vita più infelice per un
tempo più
lungo.
Eppure definire era diventato di vitale
importanza per me, mi sentivo un po’ medico e avevo bisogno di
consolarmi. I
medici danno nomi alle malattie perché non basta elencare i sintomi, le
cause e
i rimedi. Bisogna dire: è proprio quella
cosa lì.
Così sentii di dover fare lo stesso con la
malattia che era la vita umana.
Trovai un nome in cui riassumere tutto
quando vidi un nugolo di mosche accalcato su un cadavere.
Spazzatura.
Non
è proprio un nome scientifico, ma
funzionale lo è.
È
proprio quella cosa lì. Spazzatura.