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Autore: Jailer    23/09/2015    4 recensioni
Il passato di Manigoldo, dalla prima volta in cui vide un'anima al suo incontro con Sage, da Messina ad Atene, passando per la solitudine, i sogni, il fato, la morte, l'amore.
La giovinezza del discolo destinato a diventare l'uomo che incatenò Thanatos è un valzer tra piccoli e grandi drammi, vissuti sempre con la leggerezza e l'ironia che lo contraddistinguono.
E anche l'incredulità per ciò che il fato scelse di riservargli.
"Ancora non ho capito quale concatenazione di fatti mi abbia portato alle soglie della Quarta Casa, né che cosa ci faccia io qui.
Come per ogni cosa, però, ne prendo atto.
A volte prendo in giro la mia armatura: mi ci siedo davanti a gambe incrociate, e le chiedo: “Ma a te, chi ti ha voluta?”
Penso che lei mi sorrida in qualche modo, ma non so che espressione sia, se di benevolenza o di beffa.
Le sorrido anche io, di gratitudine o imbarazzo. Ma non posso fare a meno di pensare quanto cara mi sia costata."
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cancer Manigoldo, Cancer Sage, Nuovo Personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Per un autore c’è una sola cosa più importante del racconto che ha scritto, ed è la storia dietro di esso.
Ho iniziato a scrivere il primo capitolo nel luglio 2014, all’epoca Manigoldo e la sua leggerezza di vivere erano un modello ideale sognato e irraggiungibile.
Poi marzo 2015, la morte di mio padre.
Ed ho scoperto, paradossalmente, che la vita va vissuta ed amata, non senza una certa leggerezza, perché le tragedie non possono che accadere, ma non c’è nulla a cui non si possa sopravvivere.
Manigoldo è diventato uno specchio e un amico.
Questo racconto racchiude lo snodo di una vita, ed è sempre, sempre stata scritto con grande felicità – prima sognavo e poi mi affermavo in un nuovo credo: è la storia di una metamorfosi.
Non c’è motivo per cui voi sappiate tutto questo, ma non ce n’è nemmeno uno per cui non dobbiate saperlo.
Certe cose, semplicemente, a volte fa piacere dirle.

 Questa storia è ambientata in Sicilia e in Grecia, in cui io non sono mai stata.
Riguardo ai luoghi non volevo il realismo, se non per alcuni cenni: perdonate dei possibili errori a tal proposito, ma questi devono diventare paesaggi dello spirito, sul filone dell’Arcadia felix in cui anche Virgilio si è rifugiato durante la stesura delle Bucoliche (Che paragone eccessivo, scusate anche questo).

 Un grazie doveroso va a mughetto nella neve e GioTanner, perché i loro incoraggiamenti su “Anatomia dell’irrequietezza”, mi hanno dato la giusta carica per finire questa storia che mi trascinavo dietro da troppo tempo e alla quale dovevo mettere il punto finale.

 Vi lascio alla lettura, augurandovi che possa essere buona.

 

23 settembre 2015,
Jailer (F.C.)

 

 

 

Anatomia della Leggerezza

 
I
Esordio su due asini, uno dei quali chiamato Bucefalo


 Non abbiate timore: non sono una persona migliore di quello che mi piace apparire.
I banditi che mi hanno strappato infanzia, memoria e notti di sonno non hanno trovato molta umanità in più da portarsi via - parola mia.
Ero un bambino crudele già prima.
Ora sono ancora crudele – ma in maniera più divertita.
Un giorno ho battuto la testa e perso i ricordi. Mi rimangono i dettagli più insignificanti: una farfalla, un asino, qualche notizia di medicina strappata ai manuali di mio padre.
Proprio mio padre, invece, l’ho perso nel buio; ugualmente la voce di mia madre.
Avrei voluto scordare più cose.
Questa è solo una storia che racconto per passare il tempo. Non ha nulla di più, né di meno delle altre: è solamente la mia.

 La mia prima memoria è una piccola crudeltà.
Era una bella farfalla a cui ho strappato le ali, ed è morta un istante dopo. Era un pomeriggio d’estate, frastuono di cicale, un campo di grano.
Vivevo in campagne baciate dal sole, e lontano, in basso, si vedeva pure il mare.
Una farfalla fu la prima anima che vidi. Esplose in un fuocherello blu davanti agli occhi, sul palmo della mia mano.
Poi scomparve.
Ne uccisi un’altra per essere sicuro. Poi una cicala.

 Lo dissi ai miei genitori: “Ho ucciso una farfalla. Poi c’è stato un fuoco blu.”
Mio padre rispose che era solo pressione bassa. Mia madre non disse nulla, e se lo fece non me ne ricordo. Per quello che ne so, aveva una personalità quanto mai insignificante.
Magari l’ho amata, invece, e non lo ricordo più. Ma si può scordare l’amore?

 Sono sempre stato un egocentrico: il fatto di essere stato così poco oggetto di importanza mi ferì.
Non dissi più nulla a nessuno: non ad amici, perché di quelli non ricordo di averne avuti; né ad adulti, perché loro non ascoltano mai niente né tanto meno capiscono.
È colpa dei miei genitori se non so esprimermi bene: se, quando ci provo, nel migliore dei casi risulto offensivo.
Nel peggiore, un idiota.
Sono molto sincero con me stesso. A volte mi rimproverano di essere immaturo, ma io ho solo il cuore aperto, a modo mio.

 

***

 Uccisi diversi animali e scoprii che ognuno aveva una forma d’anima differente.
Mi piaceva vedere le anime: erano deboli e insignificanti, ma meno dei loro corpi vivi. Le anime erano un’unica ma meravigliosa esplosione, un fuoco d’artificio, un istante di pura dignità e bellezza.
Avevo un modo tutto mio di essere un esteta: la morte è estetica, edonismo allo stato puro perché nell’ultimo palpito di vita c’è una sorta di orgasmo. Lo vedo dal sussulto meccanico dei corpi da cui sta per fiorire un’anima. Un brivido, un istante di forza sublime.
La vita era così debole, invece. La vita si mimetizzava, taceva, durava tre giorni – farfalle! - e poi si spegneva nel silenzio.

 Di notte mi piaceva girare per i cimiteri. I fuochi fatui erano belli, ma mi seccava il fatto che potessero vederli tutti.
Vi andavo perché lì dimoravano le anime degli uomini. Si agitavano lì, intorno alle tombe. Inconfondibili.
Azzurrine. Nel buio mi prendeva una bella malinconia, nostalgia di qualcosa, una tristezza esistenziale. Un’amarezza profonda.

Finisce tutto così? Per davvero?
Una biscetta, un lumino che si dibatte: ecco un uomo.

 Ero eccentrico, crudele e facevo giri strani di notte: mi davano del demonio.
Mi divertiva il fatto che lo pensassero.

Credo che mi divertisse, o, almeno, adesso lo farebbe.
Ero sempre solo. Mi piaceva pensare di creare un esercito d’anime per marciare sulla città. Un ridicolo esercito per una ridicola ambizione.
Le anime volteggiavano un po’ e poi sparivano in fretta. Ed io restavo ancora più solo.

 Rimuginavo sulla morte, uccidevo ma non è che pensassi proprio alla morte morte.
Mi spiego: uccidevo una farfalla e ne usciva un’anima, come un pulcino dall’uovo – la morte mi pareva una nuova vita. Non era la morte a rattristarmi, ma la vita a sembrarmi troppo debole.
La vera morte prese forma nella mia mente dopo. La morte esplose nella nube di fumo che arse tutto, anche la memoria.
All’epoca, il mio gesto, l’uccidere, si esauriva in se stesso: uccidere era premere un interruttore per vedere un lumicino.

 

***

 Mia madre era disperata per un tale figlio – è principalmente questo che ricordo di lei.
Mio padre è una memoria senza volto. Forse era indifferente, forse egli si disperava con lei.
Manigoldo, mi chiamavano quelli del villaggio, bestia e demonio, disgraziato.
Il primo era quello che mi piaceva di più – l’ho adottato!
I manigoldi sono quelli che accompagnano il boia: era un po’ grossolano, uccidevo solo insetti e piccoli animali, ma aveva un suo perché ai miei occhi.
Il mio nome però non lo ricordo.
Con questo potrei rispondere alla domanda di prima – Si può scordare l’amore?
Se ho scordato persino il mio nome, sì.
E questo da una parte mi consola: ho amato mia madre, forse. Dall’altra mi rattrista: è così insignificante amare?

 A ben pensarci, non è così inconcepibile che abbia dimenticato il mio nome. Ero sempre solo, e quindi nessuno mi chiamava. Se lo facevano, erano insulti.
Nemmeno mia madre mi chiamava, mi attendeva in silenzio però, e in silenzio mi dava da mangiare. Mio padre era raramente a casa: faceva il dottore, era l’unico della zona e spesso andava in altri paesi, cosa che lo impegnava tutto il giorno.

 Ero iscritto a scuola ma non ci andavo mai.
Imparai a leggere presto, solo con l’aiuto di mia madre e poi cavandomela da me, perché volevo sapere qualcosa sui bagliori che vedevo.
Effettivamente non chiamai le anime “anime” finché Sage non me parlò.Nei libri capii qualcosa dei fuochi fatui.
Erano i volumi di mio padre: a lui non volevo chiedere, ma loro rispondevano, più o meno.
Più meno che più.
Ma qualcosa imparai, e quello mi sarebbe stato utile per il futuro, di medicina almeno.
E un po’ di letteratura.
Sage era scandalizzato poiché avrei potuto essere un chirurgo con i fiocchi ma non sapevo contare oltre le centinaia. E solo perché i volumi erano più o meno di quello spessore.

 
***

 L’ho detto: non andavo a scuola, avevo un sacco di tempo libero e giravo tutto il giorno per le campagne.
Ho detto anche che di amici non ne avevo. Sbaglio: non avevo amici umani.
Avevo un asino. Ed era una bestiaccia nervosa e inservibile al lavoro per il carattere che si ritrovava.
Un giorno volevo andare a controllare qualcosa che non ricordo, in un posto lontano da casa mia. Avrei dovuto portarmi dietro tre tomi abbastanza pesanti.
Troppa strada e troppo peso.

Nel fienile di casa mia c’era quell’asino. Lo avevano rifilato a mio padre in qualche maniera e lui, sebbene non potesse usarlo per nulla e benché l’animale avesse l’unica funzione di trangugiare fieno a tradimento, non se la sentiva di spedirlo al macello.
La cosa da vedere doveva essere parecchio importante se fu un motivo valido a farmi lottare con quella bestiaccia per farla uscire dal fienile. Dio solo sa quanti calci mi sono preso io, e quante bastonate lui.
Scoprii presto che, a fargli svolgere un’attività più gradevole del tirare una macina, anche lui poteva servire a qualcosa.
Era il mio tempestoso destriero e io ne ero fierissimo: lo chiamai Bucefalo, come il cavallo di Alessandro Magno.
Eravamo lo zimbello del paese, ma ci divertivamo.
“A metterli insieme magari un somaro decente lo si ottiene.”
Caro Bucefalo, fedele compagno di troppe ingiustizie - inflitte e ricevute.
Non so chi, fra noi due, si sia preso più legnate in quegli anni.

 

***

 Non avevo mai visto l’anima di un essere umano sfuggire dal proprio corpo, ma volevo poter assistere a quell’evento.
È stato uno dei pochi desideri che ho visto venir esauditi. Ed era il desiderio sbagliato.
Pensai di diventare dottore per poter veder morire qualcuno, ma ci sarebbe voluto troppo tempo.
Un giorno un gruppo di ragazzini mi provocò, e finì in rissa. Non ero realmente arrabbiato quando tirai una sassata in testa ad uno, volevo solo vedere l’anima di una persona. A momenti lo ammazzavo, ma non accadde.
Mi sentii deluso: non era morto, e soprattutto non era morto sul colpo. Se anche lo avesse fatto, dopo sarebbero stati solo gran casini.

 Una volta provai ad annegare un bambino più piccolo che veniva sempre a giocare nei dintorni di casa mia; penso fosse mio cugino.
Fatto sta che quando iniziò ad annaspare e a fare i movimenti convulsi che fanno quelli che non riescono a riprendere aria, mi mancò il coraggio e lo lasciai andare.
Lui non tornò più.
Pensai che fosse meglio aspettare di diventare medico per vedere morire qualcuno.

 

***

 La prima anima umana che mi vidi esplodere davanti fu durante quell’assalto.
Ricordo che soffrii parecchio per la morte di Bucefalo.
Trovai l’asino sventrato in mezzo a quella che era stata la piazza del paese. I cani affamati della zona gli avevano già svuotato ventre e orbite, il sangue che gocciolava, da lui e dai musi eccitati delle bestie, si mescolava alla pioggia.
La sua anima era uno spettacolo insulso, non diceva nulla di Bucefalo, di come era stato – testardo ed egoista.
Capii un’altra cosa: la morte era una scintilla bellissima, ma uguale per tutti. Nella morte Bucefalo era sullo stesso piano di una farfalla o di un topo.
Nella morte, un genio era pari ad un idiota, un eroe ad un codardo.
Di quella notte ricordo poco o niente: passò in una nuvola di fumo nero che avvolse tutto, e che, quando si levò, lasciò tutto a pezzi. Non so se sopravvisse qualcun altro. Non ho incontrato nessuno del mio paese, né allora né per il resto della mia vita.

 Mi sono svegliato sotto le macerie e protetto dal corpo di mia madre. Ricordo il suo viso solo perché lo vidi quel giorno, pallido dove non era mascherato dal sangue, sporco di fuliggine.
Gli occhi erano spalancati, e pensai che li avesse uguali ai miei.
Mi aveva stretto e protetto dal fuoco e dagli uomini. Mi aveva cantato una canzone che non ricordo per tranquillizzarmi quando già tutto ci era crollato addosso. Aveva detto anche il mio nome, ma l’ho dimenticato in mezzo alle macerie.

 Quando riuscii ad alzarmi – un’alba tanto grigia fredda e orrenda da sembrare una presa in giro - vidi intorno a me quello che avevo sempre desiderato: anime, anime ovunque. Un inferno di case scheletrite e pioggia, che si consumava in un silenzio spettrale.
Un tripudio di luce come mai avrei visto in vita mia, che si riversava in ombre spettrali tra i calcinacci, sugli alberi bruciati e anneriti.
Mi guardai intorno e scorsi solo terra bruciata sotto un cielo grigio.
Anime sbocciavano dai sassi di tanto in tanto, evidentemente qualcuno spirava, lì sotto. La morte di una farfalla non era diversa in nulla: gli uomini fanno solo più rumore.

È questa la vita umana? Questo dibattersi in cerchio di un lumino, al termine di una vita miserevole?
Le farfalle soffrivano tre giorni e sapevano volare. Gli uomini conducevano una vita più infelice per un tempo più lungo.

 All’inizio tutto mi sembrò così infelice, brutto e volgare da non poterlo nemmeno definire.
Eppure definire era diventato di vitale importanza per me, mi sentivo un po’ medico e avevo bisogno di consolarmi. I medici danno nomi alle malattie perché non basta elencare i sintomi, le cause e i rimedi. Bisogna dire: è proprio quella cosa lì.
Così sentii di dover fare lo stesso con la malattia che era la vita umana.
Trovai un nome in cui riassumere tutto quando vidi un nugolo di mosche accalcato su un cadavere.

Spazzatura.
Non è proprio un nome scientifico, ma funzionale lo è.
È proprio quella cosa lì. Spazzatura.

 

 

 

 

   
 
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