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Autore: athenawinchester    25/09/2015    1 recensioni
L'ultima lettera di Cesare Borgia all'amata sorella Lucrezia, ormai certo dell'inevitabilità della sua disfatta.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rinascimento
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Castello della Mota, Medina del Campo.
1506



Mia carissima Lucrezia, sovrana dello spirito mio, oramai ho perduto il conto delle innumerevoli lettere che ti ho indirizzato da quando la mia prigionia ha avuto luogo, nessuna delle quali ti è stata però recapitata: ne comprenderai bene le ragioni. Malgrado ciò non posso fare a meno d'immaginarti leggere queste mie confuse parole, aggrottando i sopraccigli mentre sfogli con delicatezza le irregolari carte che prima di giungere nelle tue mani sono state nelle mie. E' pertanto inutile continuare ad ingannare me stesso: la lontananza si riduce un poco finché compongo queste folli lettere, a te che sola ti sei avventurata tra i grovigli più intricati ed acuminati del mio animo, e che senza curarti del sangue che sgorgava dalle tue pallide mani gentili, hai continuato a tentare di scioglierne gli aspri nodi con le dita simili a leggiadre danzatrici del ventre. Quale sollievo illecito e raro prestigio è capace di elargire la tua pelle: persino il divino allora mi pare possibile, e dunque qual meraviglia se, allorché le tue carezze sono lontane, pure la fede m'abbandona?

Mia benevole dea, semmai durante la mia furiosa vita ho conosciuto la pace, è stato in quei giorni che tornavo a casa dopo le avventate imprese e tu mi attendevi in cima alle umide scale di pietra colma del tuo prezioso affetto e di quella tormentosa speranza che fa dilatare i tuoi celesti occhi e tremare le tue tenere labbra. Allorché distinguevi i miei passi e scorgevi il mio profilo, correvi giù per i gradini scoscesi sollevando l'orlo della pesante gonna per non inciampare, quindi portavi le gracili braccia al mio collo e m'abbassavi alla tua altezza, cosicché il mio mento poggiava sulle tue nude spalle e le mie narici potevano assaporare l'odore di violette nei tuoi capelli. Ora sono io la vittima di quell'aspettativa che fa tanto affannare gli uomini molto più che confortare: è interminabile il dì e infinita l'agonia mia mentre attendo il tramontare del sole, i cui colori si arrampicano su per la torre di questo castello che è mia prigione e penetrano nella mia ormai familiare cella riflettendosi dovunque: ed è a quel punto che mi pare di rivedere le tue ciocche ramate, che spesso e di malavoglia eri costretta a legare in una treccia dietro la nuca ma che tanto ami portare sulle spalle, ribelli e libere come la tua indole, che io solo conosco realmente. Ed io amavo catturare quei tuoi boccoli tra le dita, giocare con loro rincorrendoli sul tuo collo levigato e sulla fronte coperta da un leggerissimo strato di sudore, tirandoli ed avvolgendoli ostinatamente intorno all'indice. Come ridevi gaiamente in quei momenti seduta sulle mie ginocchia, e come mi dilettavo io ascoltando il suono mistico di quella risata sciolta da ogni vincolo e libera da ogni direttiva, ma per questo un poco ingenua e disattenta, esposta al rischio di renderti vulnerabile e che per questo nessuno, nemmeno Alfonso d'Aragona o Pietro Bembo, conobbe mai all'infuori di me.

Chi avrebbe mai creduto che nei momenti di maggior disgrazia quale la spagnola prigionia a me toccata in sorte, il pensiero d'un uomo corra ad episodi apparentemente insignificanti come i giuochi bambineschi che solo noi conoscevamo e a cui ci abbandonavamo nei giardini del Palazzo Apostolico, sebbene la puerizia ci avesse abbandonato ormai da tempo. Sono questi eventi che non ci si sforza di ricordare quando accadono, ma che riemergono inaspettatamente e si rivelano essere il fondamento d'ogni nostro anelito. Per questo desidero fervidamente che tu sappia ciò: se ancora in questo luogo di polvere e reclusione non ho perduto il decoro, e se pur adesso ho chiare le mie mire è solo perché tu, mia dolce redentrice, mi hai reso degno della tua fragile autentica essenza. Ma quale terribile angoscia e insopportabile malinconia avvolgono il mio cuore mentre i riverberi del sole si ritraggono a poco a poco e tu ti ritrai con loro, lasciandoti addietro la gelida solitudine. Quando ciò accade mi è di conforto soltanto l'oscurità, che divenne mia alleata ed amica molto tempo innanzi; ella per misericordia mi concede di cadere in un lieve sonno incantato, il cui solo scopo è quello d'incontrare in sogno nuovamente te, mia graziosa sirena.

Sono proprio le sembianze di un'antica creatura mitologica che assumi in queste mie beate visioni, tu che sola hai osato scalfire la superficie delle più oscure acque che in me dimorano, mia temeraria Boadicea. Ma non hai prodotto sole onde nuotando garbatamente in questi infestati laghi che mi appartengono: ti sei inoltrata nei loro temibili abissi traboccanti di ingenti pericoli e spietati inganni, alla ricerca della bestia che quivi si celava e tuttora dimora. Non hai avuto paura quando tale bestia ha lasciato l'ombra della sua antica caverna per mostrartisi, e né quando hai scorto i lunghi artigli e le corna aguzze, la putrida pelle e gli innumerevoli occhi di fuoco. Non un solo passo indietro hai compiuto, padrona mia, perché la sua mostruosità non ha potuto contagiare il tuo incorruttibile animo, anzi hai camminato verso l'orrenda bestia ed hai accarezzato il suo capo, che mai prima di allora s'era abbassato, e hai baciato la sua fronte depravata, le cui cicatrici d'improvviso hanno trovato rimedio.

Sono cosa d'altro mondo i tuoi baci, e la beltà tua supera persino la splendida Laura petrarchesca come la gentilezza del tuo cuore primeggia sulla virtuosa Beatrice; è pertanto inevitabile domandarsi cosa mai feci per meritare le tue dolci premure. Non avresti mai dovuto avventurarti in quei tetri luoghi: saresti dovuta scappar via dalla terribile bestia della caverna, anzi, ucciderla, trafiggerla ripetutamente con quel pugnale che ti regalai il giorno del tuo sedicesimo compleanno. Avresti dovuto colpirmi in volto quando posai per la prima volta le mie labbra sulla tua piccola bocca, e invece mi ricambiasti, Lucrezia mia, ti alzasti sulle punte, posasti il palmo della mano sulla mia spalla, e ricambiasti quel proibito bacio, anima mia. Addomesticasti la bestia che vive in me e mai scorsi nei tuoi occhi dubbio alcuno. Ma avresti dovuto spingermi via, biasimarmi, maltrattarmi, invece tu avanzasti ancora verso di me e sussurrasti al mio orecchio: “sei una persona buona, Cesare”. Persino l'orrenda creatura che vive in me ti ha creduta in quel momento; ti ho creduta Lucrezia mia! Mi sono lasciato persuadere dalle tue lunghe ciglia bionde che come vivaci farfalle sbattevano ombreggiando sulle tue gote, e mi sono lasciato cullare dalle tue dolci parole come un bambino al seno della madre.

Solo adesso mi rendo conto di quanto vile, malvagio e bugiardo sia stato: sapevo bene di essere indegno della tua benevolenza, ma non ebbi la prodezza di rinunciarvi, giacché la tua benevolenza è tutto ciò possiedo; sono stato egoista e ho peccato d'orgoglio nei tuoi confronti, essendo tu l'unica vera padrona della mia anima. E dunque la mia disfatta non è forse la punizione che mi spetta per aver approfittato di uno spirito così puro? No, no, è ancora peggiore la sorte che merito, giacché non solo ho detto il falso, ho pure spezzato il tuo fragile cuore, ho osato far lacrimare i sereni cieli che dimorano nelle tue iridi. Persino l'Inferno, se realmente esistesse, non sarebbe una punizione adeguata.

Avresti dovuto maledirmi, cacciarmi per sempre dalla tua vita, e invece mi perdonasti, angelo mio, e perdonasti questa mia bestia che rovinata dalla gelosia lacerò ripetutamente la tua candida pelle coi suoi artigli. Allora prendevi le mie sporche mani e: “ti perdono, fratello mio” dicevi, e anche se quel perdono non mi apparteneva, io l'ho fatto mio e sono fuggito come un ladro. Ho tentato di punire me stesso lasciandoti andare a Ferrara con Alfonso d'Este, privandomi così per sempre degli occhi tuoi, ma ora, giacché sono ormai eternamente dannato, ho deciso di spezzare la promessa che allora feci. Fuggirò da questa fortezza, adorata. Fuggirò e riconquisterò tutto ciò che era mio, e anche ciò che invece non mi apparteneva, ma questa volta non avrò pietà alcuna. Ucciderò chiunque si frapporrà tra me e te, dolce Lucrezia, diventerò l'Imperatore del mondo e giuro che ti proteggerò da ogni male, persino da me medesimo. La mia vita finirà tra le tua braccia, se dovrà finire: neanche agli astri permetterò di interferire questa volta!

Ti vedrò di nuovo, sorella cara: busserò presto alla tua porta e tu correrai ancora una volta verso di me dimenticandoti persino dell'ingombro abito. A quel punto io ti prenderò tra le mie braccia e ti farò volare come una rodine, e ascolterò nuovamente la tua libera risata. Non perdere la speranza, Lucrezia, lascia che ti consumi e che t'impedisca di respirare, ma dormi sogni felici la notte, poiché seppur lontano, veglierò sempre io su di te, anima mia.

 

Il tuo devotissimo fratello ed umile servitore, Cesare. 

  
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