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Autore: thyandra    28/09/2015    2 recensioni
Era un bugiardo che amava mentire a a se stesso, non l'eroe che lei aveva creduto, pensò, perché solo in un mondo falso e atemporale Rin avrebbe potuto guardare al suo cuore a due dimensioni e non leggervi dentro la propria mancanza di profondità.
Seconda classificata e vincitrice dei premi "Miglior Obito" e "Miglior Trama" allo You Stole My Heart – ObiRin Contest
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Obito Uchiha, Rin, Tobi | Coppie: Obito/Rin
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio, Naruto Shippuuden
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Nickname autore: thyandra
Titolo storia: L'essenza del caos, l'assenza di te
Rating: Giallo
Pacchetto/citazione scelto: 1- E se Rin riuscisse, seppur miracolosamente, a sopravvivere alla ferita inflittale dal Raikiri di Kakashi, ad insaputa di Obito? E se lui, credendola morta, fosse comunque diventato Tobi? Cosa succederebbe se, anni dopo, durante una missione nella quale partecipa anche Rin, lo sguardo della donna s'incrociasse con quello dell'uomo mascherato e lei riuscisse a a capire di chi è il volto nascosto? Cosa farebbe Obito, dopo aver scoperto di essersi aggrappato ad una menzogna? Vi chiediamo, semplicemente, di scrivere una "What if?" con queste premesse, soffermandovi sui punti sopracitati.
Prompt: Fiore; Tetto;
[Citazione:"Quando ti viene nostalgia, non è mancanza, è presenza, è una visita, arrivano persone, paesi, da lontano e ti tengono un po' di compagnia"(Erri De Luca, Montedidio)]
Introduzione: Era un bugiardo che amava mentire a a se stesso, non l'eroe che lei aveva creduto, pensò, perché solo in un mondo falso e atemporale Rin avrebbe potuto guardare al suo cuore a due dimensioni e non leggervi dentro la propria mancanza di profondità.
Eventuali avvertimenti: Nessuno
Eventuali note: ---





L'essenza del caos, l'assenza di te

Si era ritrovato spesso a pensare a quanto la sua vita sarebbe stata più semplice se solo la sua esistenza fosse potuta ricadere all'interno di un'etichetta facile, un'idea puramente prospettica, uno sputo sul selciato e un dito sprezzante puntato contro.

Feccia. Traditore. Assassino.

Oh, di nomi come quello ne aveva a centinaia. Nessuno lo scalfiva più, perché nessuno lo definiva più per intero, lui che intero non lo era già da molto tempo.

Vile, cinico, amareggiato. Ombra di un uomo.

Quasi rideva, sprezzante, nel ricordare tutti gli epiteti che la propria coscienza morente gli aveva affibbiato allo spezzarsi della propria sanità. Al corrompersi della sua raison d'être.

Bugiardo, concludeva la voce sottile della propria ossessione, come un mantra. La voce di Rin. Se solo avesse avuto un cuore, avrebbe ancora sanguinato proprio come quella notte di luna piena. Ma non l'aveva, perché a Konoha nessuno lo conosceva con quegli epiteti, no. A Konoha era considerato un eroe.

Illuso, gli ricordava ancora la voce di Rin, la sola che sapesse perforargli la pelle, l'unica che non avrebbe mai volontariamente ferito quella sopra il suo organo cardiaco. La sentiva ancora adesso con la chiarezza e la forza con cui aveva udito quel suo ultimo agonizzante singulto, la voce di lei, forte della disapprovazione di cui sapeva tingersi la sua innocenza infantile.

Rimase seduto in cima al tetto di quella costruzione di metallo, i suoi occhi persi all'interno d'un ricordo che dubitava d'aver mai veramente vissuto, a così tanti anni di distanza, la maschera ancora sul viso reduce d'una battaglia di troppo. La pioggia continuava a cadere scrosciante nel villaggio cui dava il nome, senza riuscire a coprire il brusio dei propri rimpianti, e si ritrovò a pensare, contro ogni buon senso, che quel pianto funebre non avrebbe mai cessato il suo lutto, proprio come gli occhi di Rin che piangevano nell'istante della sua morte. Proprio come lui stesso.

Nessuna lacrima inumidì però le sue iridi eterocromatiche, sotto il camuffamento doppio che si ritrovava ad indossare, perché era da tempo incapace di provare qualsiasi emozione. La maschera di terracotta era solo una precauzione, quella di menzogne una necessità. Non aveva più un'identità che potesse davvero chiamare sua; il suo nome un significante, se mancava il significato che gli davano le labbra di lei. Uno valeva l'altro. Obito, Tobi. Mere sillabe, un gioco da bambini in mano a un uomo senza infanzia. Non sarebbe mai tornato se stesso.

Illuso, ripeté tra sé e sé, perché la voce di lei nella sua testa aveva ragione, in fondo.

Non sarebbe mai tornato se stesso neanche dentro lo Tsukuyomi Infinito, perché se era vero che quel mondo senza speranza aveva ucciso Rin, ciò non negava che lui continuasse a farne parte.

Erano anni che viveva d'illusioni soltanto, chiamandole "nostalgia", senza mai riuscire a scappare al biasimo che provava verso se stesso, perché questi aveva sempre portato un'arma in tasca e un sorriso alla mano, tranne l'unica volta che avrebbe dovuto fare il contrario. Gli era sembrata così vicina, quella maledetta notte, e il suo viso illuminato dal raikiri era ancora bellissimo, anche bagnato di sangue precoce. Era bellissimo perché non lo vedeva da tanto tempo.

Erano passati più di quindici anni da allora, e ogni anno in più che lo separava da lei la rendeva più bella nell'idealizzazione del ricordo, donna fatale, eterno bocciolo di rosa in fiore, le spine tutte intorno alla propria pelle sanguinante, acuminate. Non poteva perderne anche la memoria, no, mai. Era l'unica cosa che gli rimaneva di lei. Della vera lei, quella che non era morta sotto il tocco di una luna indifferente.

Lei che non l'avrebbe mai riconosciuto, se solo avesse potuto vedere come s'era ridotto.

Aveva ucciso quella possibilità sul nascere, però, constatò con un sorriso amaro nascosto da entrambe le sue maschere; era stato lui ad abbandonarla per primo, mentre lei ancora guardava al loro addio sotto quella frana come al sacrificio supremo d'un eroe.

Come motivo d'ispirazione.

Era un bugiardo che amava mentire a a se stesso, non l'eroe che lei aveva creduto, pensò, perché solo in un mondo falso e atemporale Rin avrebbe potuto guardare al suo cuore a due dimensioni e non leggervi dentro la propria mancanza di profondità.

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Non si era mai chiesto perché recitare la sua parte gli risultasse così semplice, quasi come respirare, né quando, esattamente, avesse cominciato a considerare la menzogna un cerotto per la metà mancante del proprio cuore.

La bugia nutriva il rosso sangue del suo occhio; l'inganno, l'oscurità dei tomoe che s'inseguivano in tondo, senza mai fine, un eterno circolo senza cambiamento. Il dolore per la perdita del proprio Io s'era sottomesso al diletto del rigirare la verità fino a farle perdere la sua assolutezza e il gioco si era presto trasformato in schiavitù. Si crogiolava nell'autocompiacimento di un pierrot che aveva perso la propria abilità di ridere ma non quella di parodiare se stesso, abile attore che sapeva tirar fuori ilarità da ogni paradosso di quella realtà a rovescio. L'illusione di essere Dio in un mondo di bambole e burattini, perché la realtà aveva smesso di essere tale ai suoi occhi al morire della sua unica ragione di vita, sangue innocente su labbra pure e infantili.

Non importava che il suo se stesso tredicenne fosse stato un terribile bugiardo, quando la realtà avrebbe sopperito alle sue mancanze, trasformando la sua vita stessa in una bugia. E così recitava, inebriandosi di ogni falsità di più di quel mondo meschino, contribuendo alla sua corruzione, perché avrebbe reso più puro, per contrasto, il progetto dell'Occhio Lunare.

Neanche si scompose, quindi, nel fare quell'occhiolino, allusivo, al suo compagno di squadra dall'unica iride visibile sotto la maschera, muovendo il capo con fare suggestivo in direzione della donna di fronte a loro; quasi rise la sua risata vera, quella sprezzante, a fronte di quell'immediato irrigidirsi di spalle di Deidara, di quel suo infastidito sospiro.

Oh, come lo divertiva fingere. Era l'unica cosa più vicina al sentire che gli fosse rimasta. Azione e reazione, il suo unico modo di interagire con gli altri. L'ombra tremava ai piedi e lui neanche se ne rendeva conto, identità troppo spesso sfuggente, troppo spesso ignorata. Un tempo riusciva anche lui a ridere delle proprie beghe infantili. Un tempo gli suscitavano ilarità perché non sapeva ancora che erano la misura del mondo.

La loro informatrice intascò la saccoccia piena di ryo e diresse loro un'ultima rapida occhiata diffidente, mentre indietreggiava con un balzo rapido sui colli circostanti la piana che avevano sfruttato come meeting point. Lo sharingan seguì ogni suo minimo movimento fin quando scomparve nel fitto del bosco. Si voltò verso il compagno.

"E adesso, senpai? Qual è la nostra prossima mossa, eh, senpai? Ci sarà il tempo per la merenda? Ho proprio fame, accidenti..." E supportò la sua farsa portandosi le mani sul grembo, massaggiandolo con fare sconsolato. Attese il prevedibile gesto di stizza di Deidara, che immancabilmente arrivò al suo irritato socchiudersi d'occhi. Non smise di disegnare cerchi su uno stomaco palesemente non brontolante, osservando che bastava un atteggiamento succube e innocuo per far abbassare la guardia all'altro. Madara aveva avuto ragione, non era necessario usare lo sharingan per sfruttare e manipolare le debolezze dell'animo umano.

Ottenere informazioni sulla maglia di intrighi politici e piani bellici di ogni Paese ninja, invece, aveva reso necessario il potere oculare del proprio clan di appartenenza; non era stato facile scoprire in quale Villaggio si nascondesse il Tricoda, dopo averne appurato l'irreperibilità allo stato brado.

Non l'avrebbe sorpreso scoprire che uno dei cinque Kage l'avesse catturato per i propri interessi senza prima convocare il consiglio delle Nazioni. La pace del mondo ninja si era sempre retta sul filo instabile dell'ambiguità politica e dell'interesse maggiore già ai tempi in cui aveva ancora una nazione alla quale giurare fedeltà, nel nome della cui versione di giustizia ancora credeva, prima che il suo idealismo si sacrificasse al sangue facile della delusione.

Ma trovava comunque ironico che a tramare nell'ombra fosse ancora una volta il villaggio della Nebbia, ancora una volta tramite sotterfugi e menzogne. La sensazione di déjà-vu lo lasciò con un senso di amarezza che non seppe spiegarsi; aveva il gusto acre che solo la ciclicità della storia riusciva a portarsi dietro: l'ennesima prova che quel mondo non avrebbe mai conosciuto salvezza se non tramite il proprio annientamento.

La voce ignorata del proprio Io puerile si era già spenta su quella prima sussurrata sillaba, incapace di ripetere ancora quel nome che lo possedeva; Tobi sapeva già che Obito gli avrebbe mostrato gli occhi di Rin in quelli del Jinchuuriki che si apprestavano a stanare.

Ma Obito era morto con lei, quella notte, e il canto funebre della sua vecchia identità non l'avrebbe distratto dal suo proposito. Sapeva che la vera Rin lo stava aspettando all'interno dell'Occhio Lunare.

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Naoko si stava portando una ciocca bionda dietro l'orecchio in un gesto abituale, quando il suo cuore sussultò e la sicurezza nel suo passo vacillò, minacciando di farle cadere di mano le fiale di distillato appena preparato. Deglutì.

Il capogiro appena passato l'aveva scossa nell'intimo, instillandole nel cuore una paura e un presentimento così irrazionali e inaspettati da impedirle di dubitare della loro assolutezza. La paura era il più primordiale degli istinti, e in sé racchiudeva l'essenza della verità. E, sebbene fosse un ninja medico di accertato talento, non poteva in cuor suo negare d'aver percepito il proprio organo cardiaco fermarsi per un istante che puzzava già di destino.

Si riscosse, raddrizzando la propria postura e indirizzando un sorriso di scusa verso la propria allieva, sperando di essere riuscita a mascherare la propria inquietudine. Le fiale nelle sue mani tremarono.

L'ultima volta che si era ritrovata a sentire quella stessa paura primordiale aveva finito per sacrificare la logica all'impulso del momento, per poi guardarsi morire in quelle tanto amate iridi eterocromatiche, in quell'unico occhio nero come l'abisso di quel suo amore non corrisposto.

Ricordò come il peso di quelle fiale di veleno di pesce palla avesse gravato nella saccoccia sul suo fianco destro; il liquido denso che avrebbe dovuto inscenare una morte apparente scenderle per la gola in un maldestro tentativo di depistaggio; il rumore di sandali nemici farsi sempre più vicino, troppo vicino, mentre i cani di Kakashi tardavano a chiamare rinforzi; ricordò di non aver creduto neanche per un istante nella riuscita di quel piano fin troppo ottimistico, quasi ingenuo, i nemici alle calcagna, pronti a riprenderla, il demone nel suo stomaco e il liquido denso che tardava a fare il suo effetto. Ricordò la propria disperazione, il momento in cui aveva deciso il proprio suicidio, diffidando di quel trucco che avrebbe scansato loro solo le ripercussioni immediate del proprio errore; ricordò di aver pensato al sorriso morente di Obito e che la propria vita non valesse un'altra guerra cui sacrificare altri futuri pieni di possibilità. Ricordò di non aver più esitato, e di aver provato solo sollievo, mentre la mano del proprio compagno di squadra aveva perforato la propria gabbia toracica con facilità, poi i polmoni, fin quasi fino al cuore.

Mancandolo.

Rammentò la sorpresa e il tradimento lampeggiare nei suoi occhi sgranati, insieme al bagliore intermittente del jutsu che avrebbe dovuto porre fine a un conflitto futile che poteva essere fermato sul nascere; come il suo sharingan avesse previsto la traiettoria del proprio mancato suicidio, aggiustando per istinto la mano prima che reclamasse il suo giusto pegno di sangue; e come quelle mani, sempre ferme e sicure, avessero tremato, perforando il suo polmone sinistro invece del cuore, invece di una qualsiasi, stupida arteria. Ricordò il fiotto di dolore improvviso e inaspettato che aveva sostituito la morte immediata in cui aveva sperato, in nome di un bene maggiore.

Rammentò l'essere caduta sul proprio stesso sangue, e le palpebre crollare insieme alla sicurezza di aver fatto la scelta giusta.

Rifletté che, ad oggi, continuava a pensare che fosse quella sbagliata.

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Guardando il panorama del Paese della Nebbia stendersi a vista d'occhio sotto l'ombra dei propri copricapo, Tobi osservò il sole tramontare e cedere lentamente il posto alla luna piena. Assottigliando lo sguardo, contemplò il suo alone rossastro, che sembrava auspicare la buona riuscita delle proprie macchinazioni; l'ultima luce di un sole morente sparì dietro una nuvola scura illuminandola a giorno, e si ritrovò a pensare che quella notte avrebbe spezzato la maledizione di quell'uroboro senza fine, alterando la storia e la sua ripetizione infinita, sempre peggiore.

"Muoviti." ordinò secco Deidara, voltandosi a richiamarlo dal suo torpore, e Tobi si rese conto di essersi lasciato distrarre quell'attimo di troppo che aveva consentito al senpai di superarlo di un paio di lunghe falcate. Si rimise al passo saltellando e agitando le braccia con fare entusiasta.

"Questa sera la luna è davvero bella, non trovi?" attaccò bottone senza difficoltà, ritrovandosi a suo agio all'interno dei confini della propria studiata maschera d'attore. "Ho sentito dire che sia fatta di formaggio, sai?" esitò un attimo, fingendosi pensieroso. "Però non ho mai visto un formaggio rosso. Sarà alle spezie? O forse è solo andata a male, senza nessuno che la mangiasse!" E rise, sciocco, del suo stesso exploit, trotterellando allegramente in coda a un insofferente Deidara.

"Sta' zitto o ti faccio esplodere le budella." Minacciò questi, dita che fremevano già pericolosamente nel desiderio di essere messe alla prova. "Le farò arrivare fino alla Luna, se ci tieni, così potrai verificare tu stesso."

Tobi tacque. Deidara sospirò di sollievo, i loro passi felpati unico suono nel silenzio della prima serata. La gran parte dei mercanti del paese sarebbe stata al mercato serale del pesce, dall'altra parte della città.

"Però, senpai, avevi detto che avremmo avuto tempo per la merenda! " si lamentò d'improvviso con voce fin troppo squillante per una missione di copertura, ricordandosi. Un sopracciglio di Deidara ebbe uno spasmo, mentre la sua mano destra sputava un ragnetto d'argilla proprio sulla faccia del compagno.

Questi tenne fede alla propria parte, urlando più forte del soddisfatto "katsu!" che seguì mentre agitava le braccia caracollando fuori portata, e il biondo non si accorse che il suono dell'esplosione non si fece sentire, teletrasportata appena in tempo da kamui.

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Naoko si era chiusa di tutta fretta nel bagno del proprio alloggio, subito dopo essere riuscita a scrollarsi di dosso la sua opprimente guardia del corpo. Gli shinobi della Radice non le avevano mai ispirato tanta fiducia, men che meno avrebbero mai ottenuto una sua confidenza.

Si guardò allo specchio con occhio critico, appurando l'effettivo pallore del suo viso. Quello, più il suo ambiguo comportamento di poco prima, doveva aver dato nell'occhio.

Sospirò, tentando di lasciar andare via la tensione dai propri muscoli. Per qualche minuto si concentrò sul proprio respiro, provando a stabilizzarlo, poi portò le mani al viso e si schiaffeggiò con vigore per farvi tornare un po' di colore. Solo quando si fu calmata ritornò al laboratorio.

I ricordi che aveva involontariamente rievocato poco prima le avevano fatto perdere la propria sicurezza, per un istante, e messo in dubbio il nindo cui si era votata; impegno, dedizione e altruismo erano le colonne portanti che le impedivano di dubitare della propria identità, ogni qualvolta guardava il proprio viso estraneo a fronte di una qualsiasi superficie riflettente.

A volte si soffermava a ripensare a quanto nella sua vita fosse cambiato dopo quella fatidica notte in cui aveva creduto di morire, e riconoscersi in quel "Rin" che era stato il suo nome le risultava sempre più difficile. Ma la dedizione alla propria vocazione aveva il sopravvento sulle sue emozioni, riportandola nella prospettiva che si era costruita negli anni. Doveva essere riconoscente sia a Kakashi che a Shimura-san, dopotutto, se il suo cuore batteva e il demone che ancora dimorava tra le sue carni non costituiva più un pericolo immediato verso il proprio villaggio e Paese.

Si diresse verso il laboratorio con una ritrovata calma. Era pur vero che le proprie fattezze, alterate dal jutsu di camuffamento che indossava giornalmente, erano cambiate profondamente negli anni, ma Naoko era Rin come Rin sarebbe diventata Naoko. Fino a quando le sue conoscenze mediche e la propria ricerca sui veleni distillati da colture di pianura potevano davvero aiutare lo sviluppo dell'arte medica ninja, era felice di poter prestare se stessa alla causa, così come era riconoscente nei confronti dei vertici politici di Konoha per averla aiutata a mettere insieme una identità fittizia che potesse permetterlo, oltre a garantire la sua sicurezza. Infiltrarsi nel Paese che per primo aveva posto la minaccia nei confronti della Foglia si era rivelata una strategia efficace per quanto rischiosa e folle. Ricordò con distante affetto come Minato-sensei si fosse opposto all'idea, divenuta però realtà quando lei stessa si era mostrata favorevole a correre il rischio. L'unico, vero rimpianto, che ancora ogni tanto la crucciava, era la distanza fisica dai propri affetti che aveva dovuto imporre al suo cuore.

La morte inaspettata di Minato-sensei durante l'attacco della Volpe al villaggio l'aveva lasciata profondamente scossa e con lacrime amare agli occhi aveva aggiunto un'altra candela sull'altarino senza ritratti né nomi che teneva nel proprio alloggio, ricordandosi di come il sorriso del suo mentore fosse stato animato dallo stesso entusiasmo di cambiare il mondo di quello di Obito.

Ogni sera accendeva quei due ceri alla loro memoria e, congiungendo le mani sul grembo che recava il Sigillo, ritrovava la forza di credere nel proprio nindo.

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Stando alle informazioni che avevano raccolto da quella kunoichi traditrice, il Jinchuuriki del Tricoda viveva in una casa di campagna nella parte ovest del Villaggio, la più distante dal mare, per coltivare le sue piante. Era un ninja medico, ma i suoi jutsu curativi non l'avrebbero protetta a lungo dalla cattura, pensò Tobi.

Arrivarono sul luogo che era già notte, la Luna ancora più rossa nel buio della volta celeste. Deidara montò sulla sua scultura d'argilla e reclamò la cattura del loro obiettivo, lasciandogli il compito di disfarsi della scorta che questi sembrava avere in sua protezione. Tobi lo lasciò fare. Qualunque strategia potesse velocizzare la realizzazione del suo progetto era un passo in meno da compiere per la purificazione di quel mondo.

Si teletrasportò a pochi centimetri dal viso di uno di quegli shinobi, ridendo in modo maniacale della sua sorpresa e saltellando via subito dopo, effettivamente richiamando la loro attenzione su di sé. Neanche si curò di evitare tutti i loro colpi, rendendosi incorporeo e continuando a ridere e a beffarsi della loro confusione, mentre la notte si tingeva già dei primi scoppi, poco più in là.

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Naoko si riscosse dai propri pensieri al suono della prima grossa detonazione, abbandonando il pestello da mortaio che stava adoperando fino ad un attimo prima e mettendosi sull'attenti.

Si chiese se il momento in cui i ninja della Nebbia avessero finalmente scoperto la sua vera identità fosse giunto, e se avrebbe finalmente smascherato gli effettivi mandanti che tanti anni addietro l'avevano fatta rapire e l'avevano resa il contenitore ad orologeria del Tricoda.

Quasi riusciva già a sentire l'odio del Bijuu risuonare nei meandri della propria coscienza, rifiutandosi di cedere all'ondata di rancore che la bestia in cattività stava indirizzando al mondo intero, colpevole della propria cattura e oggettificazione; la propria esistenza declassata a strumento di guerra, come una banalissima carta-bomba.

Naoko strinse i denti, chiedendosi se le conseguenze di quella notte avrebbero trascinato nuovamente i due Paesi sull'orlo dell'ennesimo conflitto. Il suo cuore tornò ai ceri accesi nella propria camera e l'istinto prese ancora una volta il sopravvento sul suo addestramento ninja, quando la paura dominò le sue gambe e la spinse ad accorrere nel vivo della battaglia, a soccorrere i feriti.

Ciò che si trovò di fronte uscendo dal proprio laboratorio, invece, la fece fermare di botto.

"Dove andiamo così di fretta, bellezza?" giunse, sarcastica, la voce del nukenin che le sbarrava la strada. Il sangue le si gelò nelle vene. Quel coprifronte rigato non poteva significare nient'altro.

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Aveva già messo k.o. senza troppo sforzo buona parte della scorta armata, quando le esplosioni del compagno bombarolo attirarono l'attenzione dei suoi opponenti, che immediatamente gli volsero le spalle, comprendendo il piccolo diversivo.

Tobi si finse offeso, trasportandosi con kamui ancora una volta di fronte a loro per dedicare a quei ninja incapaci una sonora pernacchia.

"Ma dove andate? Il vostro avversario sono io!" cantilenò, calciando uno di loro su un ginocchio e teletrasportandosi ancora quando questi, perdendo l'equilibrio come un novizio d'accademia, cadde in avanti a ruzzolare sulla fanghiglia. Li stava tenendo impegnati senza neanche combattere, notò, spostando il baricentro del proprio corpo per evitare in extremis il kunai lanciatogli contro dallo shinobi grondante fango. Non che fosse sorpreso: la burla e il paradosso si dimostravano ancora una volta la misura della realtà.

Si divertiva a spostarsi rapidamente da un opponente all'altro, toccando la spalla ad uno, facendo lo sgambetto a un altro, spesso senza neanche emergere per intero dall'altra dimensione; lo dilettava dar loro una dimostrazione del caos, atteggiarsi a burattinaio pur indossando lui stesso una maschera d'attore. Ogni tragedia aveva in sé un nucleo di commedia.

Ma che il caos non avesse padrone gli fu ricordato, come in un déjà-vu, all'incrociarsi del suo unico occhio visibile con un paio di iridi familiari.

Il tempo sembrò dilatarsi fuori misura, fuori controllo, quando la flebile voce della Jinchuuriki senza fiato pronunciò un tremulo ma assordante:

"Obito?"

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Aveva sentito il terreno mancarle sotto i piedi, quando, dopo aver dislocato le braccia al nukenin biondo ed essere sfuggita temporaneamente alla sua cattura, si era ritrovata di fronte lui.

Non poteva sbagliarsi, sebbene le sue spalle ormai fossero più larghe, la sua voce più profonda e il suo atteggiamento più spavaldo. Anni passati al suo fianco, come un angelo custode, le avevano insegnato a vedere attraverso ogni sua maschera, le avevano prestato una chiave per il suo cuore.

Solo Obito Uchiha poteva celare nello sguardo una così profonda e assoluta disperazione mentre si atteggiava allo scherzo e impersonava una finta goliardia, a nascondere la propria solitudine con cerotti di coraggio e finta indifferenza. Solo Obito Uchiha avrebbe continuato a fingere anche dopo essere stato smascherato da lei.

Ma Obito Uchiha non avrebbe mai ucciso un ninja a sangue freddo come l'uomo che aveva di fronte fece in quel momento, per poi voltare il suo unico occhio visibile ad inchiodarla sul posto. Non l'avrebbe mai guardata con tale disgusto negli occhi, ma sarebbe stato a sua volta in grado di vedere sotto il proprio camuffamento.

Obito Uchiha era morto sotto un masso da molti anni, ormai.

Chi era l'uomo che aveva di fronte, adesso?

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Abbandonò la sua maschera con la rapidità di un gatto cui venisse a noia il giocare ancora con un topolino inerme.

Quel nome non lo definiva più da tempo.

Raddrizzò la propria postura con un movimento fluido, atterrando con facilità l'ultimo nemico. Il cambiamento nel suo atteggiamento trasudava da ogni poro, da ogni sua mossa. L'aria sembrò raggelare, il tempo finalmente fermarsi. La luna di sangue osservava, distante e crudele, ogni loro mossa, soppesando i loro destini.

"Chi sei?" chiese soltanto. I tomoe nei suoi occhi disegnarono una girandola a tre gambe, mentre osservava la postura di lei irrigidirsi e le sue labbra formare una linea sottile. La donna non rispose.

Il tempo sembrò perdere ogni confine mentre ciascuno di loro misurava i contorni delle proprie ombre, giungendo alle proprie conclusioni. L'incomprensione si stendeva rapida nei loro ostinati silenzi, s'allungava nello spazio vuoto tra i loro sguardi, cresceva sulla diffidenza dei propri reciproci battiti cardiaci.

Aveva visto con i suoi stessi occhi il cuore di Rin venire trafitto dalla crudeltà di questo mondo; aveva sentito sul palmo della propria mano la freddezza della pelle di lei, in quell'ultima disperata carezza, lordandole il volto di un sangue impuro come quello dei suoi assalitori, che aveva giustiziato per il loro peccato; aveva letto il suo nome sulla lapide in cui figurava anche il proprio, tra gli eroi della Grande Guerra, quasi la sua morte avesse avuto un significato, men che meno un valore di cui essere orgogliosi. Aveva costruito il suo credo su quell'unica certezza. Aveva ucciso il suo sensei, il suo sogno, le sue emozioni, il suo Io. Era rimasto solo l'Ego. S'era estratto un cuore palpitante dal petto, aveva riso del sangue che lo macchiava e lo aveva messo da parte.

Aveva scheggiato la propria coscienza pur di ritrovare un senso al caos. Azione e reazione, perché si stupiva di far parte della menzogna che era diventata la realtà?

“Obito, mi hai promesso che saresti diventato Hokage.” Il tremito della voce di lei lo colpì come uno schiaffo e in quell'attimo seppe che non avrebbe più potuto mentire a se stesso. Erano lacrime, quelle che scorgeva negli occhi di lei? O erano le proprie ad annebbiargli la vista?

Sapeva che quello che aveva di fronte era solo l'ennesimo inganno, sapeva di non doverle credere, ma lo stava già facendo, e non appena lei protese una mano verso di lui l'assoluto crollò e la realtà divenne bugia perché lui l'aveva resa tale, non perché mancasse di senso di per sé. Rin era Rin solo se era viva, ricordò di aver pensato, quindi quella che aveva di fronte doveva per forza essere la vera lei, non l'impostora che era morta tra le sue braccia.
In fondo, aveva sempre e solo desiderato di essere fermato prima della sua completa autodistruzione.

Le lacrime silenti scendevano adesso liberamente senza che lui trovasse la forza di fermarle, senza che osasse muoversi, senza che osasse respirare, perché lei si era fatta più vicina e aveva rimosso la maschera di terracotta a svelare il suo viso.

Attivò Kamui e si ritrovarono in una realtà atemporale, il loro eterno limbo, soli, a reimpararsi a vicenda. Ancora stentava a credere alla verità davanti ai suoi occhi. Ma la sua stessa sopravvivenza era la prova che l'assurdo potesse prendere a prestito la sua credibilità.

Fantasmi, si guardarono entrambi negli occhi riscoprendosi vivi nel tocco l'uno dell'altro, e Tobi si rese conto che l'idealizzazione di lei con cui aveva rattoppato le ferite del proprio cuore non era mai stata bella quanto la verità assoluta di quel viso camuffato.

Salvare te è come salvare il mondo, no?” gli rammentò Rin, come quando erano bambini e le sue parole avevano avuto ancora il potere di restituire un significato al proprio sogno, alla convinzione di poter davvero trovare se stessi all'interno di un ideale predefinito.

Si resse il capo con le mani, incapace di tener insieme i margini della propria coscienza. La sua ombra tremò, poi tornò definita, e Tobi crollò sulle ginocchia, ammettendo la propria sconfitta.

"Chi sei?" fece eco la voce di Rin, con dolcezza, giungendo dalle labbra di Sagiyama Naoko.

Lui appurò la mancanza della luce sanguigna della Luna a giudicare i loro destini, quando comprese che l'illusione suprema era stata il credere di potersi liberare dei propri sentimenti e dei propri affetti. Non vacillò più, quando rispose, realizzando che quel nome equivaleva ad una promessa.

Di fronte a lei non poteva che essere Obito.

Sapeva che la sua esistenza non sarebbe potuta mai più ricadere all'interno di una etichetta facile dal momento in cui aveva deciso di attuare il progetto dell'Occhio Lunare; decise che non importava essere l'eroe che avrebbe salvato il mondo, lui che era stato l'antieroe di se stesso, fin quando sarebbe stato capace di salvarsi, ritrovando l'altro pezzo della propria identità riflessa negli occhi bruni della sua metà.

  
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