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Autore: Black Mariah    29/09/2015    9 recensioni
-Michael è un ragazzo dell'alta borghesia di New York, erede di uno dei più ricchi banchieri d'America. Sarah lavora in un supermercato per pagarsi i materiali per i suoi dipinti e aspira a diventare un'artista. Perfetti sconosciuti, conducono stili di vita diversi, vivono in contesti sociali diversi, ma c'è qualcosa che li accomuna: un letto di ospedale.
Il destino ha deciso di farli incontrare in un momento sbagliato: non possono parlarsi, non possono toccarsi, non possono vedersi.
Sarah passa il tempo facendo volontariato al General Hospital di NY e si troverà inaspettatamente a provare dei sentimenti per quell'estraneo in coma: Michael.-
Dal primo capitolo:
"I suoi tratti somatici erano dolci, molto belli e delicati per un ragazzo. Aveva i capelli castano chiaro tendente al biondo e il mento ricoperto da una leggera barba dello stesso colore. Il suo viso in svariati punti era segnato da escoriazioni, mentre le braccia nude, presentavano fasciature, lividi e tagli.
Se non si fosse trovata in quella situazione, e se non ci fossero stati quegli evidenti segnali di incedente, avrebbe scommesso che il ragazzo stesse dormendo beatamente"
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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29 Settembre 2013
 
Michael era davanti allo specchio della sua cabina armadio e si stava facendo il nodo alla cravatta. Scrutava silenzioso la sua immagine allo specchio. Quella mattina non aveva avuto il tempo per dedicarsi alle giornaliere operazioni di toeletta, e sul suo viso, di solito liscio e glabro, c’era una parvenza di barba incolta. Sicuramente quel dettaglio non sarebbe sfuggito a sua madre, a cui la barba, portata in quella maniera un po’ disordinata, non piaceva per nulla.
Sua madre entrò prepotentemente nella stanza, iniziando a impartire ordini per la giornata, non curandosi delle sue maniere poco opportune e del tutto invasive. 
-Michael, allora ho chiamato il fioraio. Devi passare da lui alle sei meno venti in punto, dopo di che devi passare a prendere tuo padre dalla banca- fece la signora Trisher, avvicinandosi al figlio e scorgendo la sua immagine riflessa nello specchio. Intravide dei raggi di sole colpire i suoi capelli freschi di messa in piega, i quali assumevano delle ambite sfumature dorate ottenute con un complicatissimo trattamento fatto dal suo parrucchiere di fiducia, e si portò una ciocca dietro l’orecchio.
-Perché quel musone, tesoro?- chiese qualche secondo più tardi, focalizzando la sua attenzione su suo figlio.
Aggiustò con molta poca delicatezza l’abito del ragazzo. Odiava con tutta se stessa le grinze che si creavano in corrispondenza del punto vita.
Michael sospirò, infastidito da quella mossa.  
–Andiamo, è un’occasione per riunire la famiglia…- aggiunse la donna di fronte allo sguardo scocciato di Michael, come fosse quasi una giustificazione a tutte le faccende che gli aveva appena ordinato di fare.
-Sì, certo…- mugolò Michael a bassa voce  –Mamma, so farmi un nodo alla cravatta non c’è bisogno che mi stai addosso- aggiunse con un tono decisamente infastidito. Odiava quel genere di serate che molto spesso la sua famiglia organizzava: le giudicava frivole e alquanto ipocrite, come se il cenare tutti insieme potesse tenere uniti i pezzi di quella famiglia che si stava distruggendo pian piano, a causa della troppa voglia di apparire della madre e delle sue manie di controllo, dell’ossessivo attaccamento al lavoro di suo padre e della frivolezza di sua sorella, che non faceva altro che spendere i soldi del suo fondo bancario, comportandosi come se tutto le fosse dovuto.
La madre lo guardò negli occhi con un filo di tristezza, ormai era abituata ad essere trattata male dal figlio e da qualsiasi membro di quella famiglia.
-Se dopo aver fatto le commissioni esci…sii puntuale. Alle otto si mangia- commentò solo, allontanandosi.
Michael sentì la porta chiudersi alle sue spalle e tirò quasi un respiro di sollievo. Sua madre lo innervosiva, così come facevano suo padre e sua sorella.
Quando era piccolo la vita gli sembra decisamente migliore, non aveva preoccupazioni, non doveva preoccuparsi del suo futuro, e soprattutto, ai suoi occhi di bambino, la sua famiglia risultava essere quasi perfetta.
Prese il soprabito poggiato sul letto e lo infilò. Aprì la porta che sua madre aveva appena chiuso e percorse il lungo corridoio con il pavimento di parquet.
C’era un odore di pulito nell’aria: molto probabilmente mentre lui stava ascoltando la musica steso sul letto, i domestici avevano ripulito la casa.
Prese le chiavi della macchina e si avviò, nel tentativo di sbrigare le commissioni che sua madre gli aveva dato da svolgere.
Tra tutte le cose che doveva fare l’andare a prendere suo padre da lavoro era quella che lo entusiasmava di meno:  durante il tragitto in macchina con suo padre, probabilmente il signor Trisher avrebbe di nuovo aperto il discorso sulle sue responsabilità, sul suo prossimo lavoro nella banca di famiglia e sulla sua carriera, che avrebbe dovuto essere impeccabile. Tutte cose che a Michael non andava di risentire per la milionesima volta, soprattutto perché gli causavano nervosismo e infelicità.
Scese le scale del grande portone e ancora non riusciva a capire il perché avrebbe dovuto fare il pony express delle faccende di sua madre, e perché suo padre non poteva prendere un semplice taxi per tornare a casa.
Dopo essere uscito dal fioraio, spuntò mentalmente l’opzione “orchidee per la mamma” e risalì alla guida della sua macchina  per dirigersi verso la Trisher Bank. Era la banca di famiglia, la banca in cui lavoravano tutti i maschi della sua generazione, fondata dal suo bisnonno e tutte quelle stronzate di repertorio.
Fin da quando era bambino, i suoi parenti gli avevano riempito la testa di parole, spiegandogli perché anche lui, come tutti loro, avrebbe dovuto lavorare in quella banca, non permettendo a nessun’altra passione di prendere il sopravvento.
Il punto era che a lui l’economia non era mai piaciuta, né tanto meno avrebbe voluto passare una vita davanti ad un computer o seduto dietro una scrivania a tenere sotto controllo quotazioni o movimenti di marketing, e avrebbe voluto far tutto, tranne che la carriera di suo padre e dei suoi zii, consumati e logorati dalla loro stessa ricchezza e fortuna.
La verità era che contrariamente a quanto gli avevano insegnato, lui aveva imparato ad apprezzare le cose semplici della vita, ma soprattutto ad andare oltre la perfetta apparenza del mondo in cui viveva, in cui anche la mela più bella, era una mela marcia.
Assorto tra questi pensieri, alzò lo sguardo e vide il semaforo dell’incrocio che stava attraversando passare improvvisamente da verde ad arancione.
Pressò maggiormente l’acceleratore per cercare di passare l’incrocio e tra tutte le cose che aveva attorno, mise attenzione a solo due di esse: una canzone alla radio, interrotta fastidiosamente da dei continui clacson, e una strana fitta alla testa.
Al resto non fece più caso.
 
 
 
16 Ottobre 2013
 
Sarah timbrò il suo tesserino e si diresse verso la fine del lungo corridoio bianco. Pigiò il pulsante dell’ascensore e attese che le porte di metallo si aprissero.
Un altro giorno era iniziato e tutto quello che le restava da fare era prenderlo alla leggera, o meglio, vivere anche quest’altra settimana nell’attesa che finisse il più presto possibile. Quando le porte dell’ascensore si aprirono aspettò qualche secondo prima di entrare: un dottore con un camice bianco e con un carrellino stava uscendo.
Lo  salutò timidamente per educazione e veloce entrò nell’abitacolo e premette il pulsante che l’avrebbe portata a meno uno.
L’ascensore presentava un lucente rivestimento metallico, lucido a tal punto da potersi riflettere, e Sarah guardò annoiata la sua immagine riflessa e leggermente deformata. Quella era una mattinata  piuttosto fredda e aveva pensato bene di indossare una delle sue tante felpe larghe con cappuccio, acquistata da un grande magazzino del centro. Si legò la cascata di capelli ricci e neri con un elastico e poi avvicinò il viso alla superficie metallica, scrutando ipotetiche imperfezioni della pelle. Mentre era ancora intenta ad analizzare il suo viso, tondo e ben definito, le porte dell’ascensore si aprirono e la catapultarono nel reparto di terapia intensiva.
Sarah  era una normalissima ragazza di ventitré anni, diplomata, con diverse passioni che spaziavano dalla musica all’arte, molto sensibile e introversa, certe volte anche troppo, a cui piaceva fare volontariato all’ospedale.
La sua vita non era un gran che,  ma si accontentava. Non era andata al college come i suoi amici, ma era rimasta a New York, a dividersi tra il turno all’ospedale e il lavoro in un piccolo super market sotto casa, che le permetteva di racimolare qualche soldo per poter coltivare il suo sogno: la fotografia e la pittura.
Fare il volontariato all’ospedale la rilassava, ma soprattutto la faceva sentire un po’ più viva e un po’ più utile alla società. Regalare un sorriso ad un bambino malato o stringere la mano ad una persona anziana, che aveva solo bisogno di affetto, la faceva sentire un po’ meno sola e un po’ più fortunata rispetto a quelle persone, che non avevano la fortuna di aver avuto una salute forte come la sua.
Il reparto in cui era stata chiamata a prestare il suo servizio, era molto buio e presentava poche aperture alle pareti che non permettevano ad una quantità di luce decente di entrare nel salone.
Davanti a lei c’era l’accettazione e dietro una grande scrivania, sommerso da una letterale montagna di cartelle cliniche e scartoffie varie, si nascondeva un infermiere dall’aspetto molto mite, baffuto e con gli occhiali.  
Solitamente non prestava mai aiuto in quel reparto: le competenze richieste per stare lì andavano oltre le sue conoscenze base di pronto soccorso apprese durante qualche progetto al liceo, ma quella mattina Sally le aveva mandato un messaggio sul telefono, e le aveva chiesto aiuto a causa di mancanza di personale e lei non aveva saputo rifiutare.  
-Buongiorno- esordì timidamente la ragazza, avvicinandosi al bancone dietro cui sedeva il signore panciuto.
-Salve- fece lui con fare distratto, soffermandosi per qualche secondo a guardare la ragazza: non l’aveva mai vista prima di allora. -Posso aiutarla?-
-La signora Moore mi ha detto di venire qui stamattina per il servizio di volontariato, in cosa posso essere utile?- replicò Sarah.
-Ah, certo- esclamò l’uomo come se si fosse appena ricordato di una cosa –Alla punta del corridoio c’e’ Tina che ti sta aspettando-
La mora ringraziò e salutò il signore e dopo aver lasciato le sue cose in uno stanzino apposito, raggiunse Tina.
Con passo svelto arrivò alla punta del corridoio ed  intravide Tina all’interno di una stanza  che si accingeva a pulire un tavolo di metallo.
Entrò silenziosamente e salutò la donna con il camice bianco: era un’infermiera sulla cinquantina, molto curata nell’aspetto, con lucenti capelli rossi e cotonati.
Tina ricambiò con un sorriso e dopo aver finito di asciugare il tavolo, si rivolse a Sarah, spiegandole il perché le aveva chiesto di andare in quel reparto e soprattutto pregandole di aiutarla a sistemare quella stanza.
-So che non è compito tuo pulire le stanze dei pazienti, ma questa mattina l’impresa di pulizie ha avuto problemi ad arrivare a Manhattan, e c’è un mare di lavoro da fare. I genitori di questo paziente dovrebbero arrivare tra qualche ora, e ho bisogno che questa stanza sia pulita e in ordine- iniziò a dire l’infermiera.
Sarah mise attenzione a tutte le indicazioni che la donna le diede, soprattutto riguardo i prodotti da usare e su come regolare il climatizzatore della stanza per far cambiare aria, e appena se ne andò iniziò a mettersi all’opera.
La ragazza rimase sola nella stanza e per qualche attimo immobile: quello non era proprio il genere di faccende che sbrigava all’ospedale, ma volontariato significava fare anche quello e perciò lo accettò comunque.
Quando sentì la porta alle sue spalle chiudersi, iniziò a rassettare e a spolverare la camera. Inizialmente non fece molta attenzione al paziente steso sul letto, lo vide solo di sfuggita e ordinò le carte sul tavolo. Spolverò le tende e i frangi sole sui vetri, spazzò a terra e poi passò l’aspirapolvere.
Si avvicinò al letto per poter tirare, per quanto possibile, le lenzuola e nel farlo, menò un’occhiata al corpo addormentato.
Rimase molto sorpresa nel vedere disteso un ragazzo, che avrebbe potuto avere dai vent’anni in su. Il giovane respirava piano, quasi in maniera impercettibile,  e l’unico segnale che testimoniava il fatto che fosse vivo, era solo il rumore metallico dell’elettrocardiogramma collegato al suo petto che procedeva al ritmo del suo cuore.
Nel momento in cui scorse il viso del ragazzo, la ragazza percepì quasi un brivido dietro la schiena: quel ragazzo per quanto ne sapeva poteva avere la sua età, eppure si trovava in quella situazione, bloccato in quel letto d’ospedale, per chissà quale ragione.
Si fece maggiormente vicina per poter tirare le coperte e potergliele rimboccare, e durante il movimento, si fermò un attimo ad osservare i suoi lineamenti.
I suoi tratti somatici erano dolci, molto belli e delicati per un ragazzo. Aveva i capelli castano chiaro tendente al biondo e il mento ricoperto da  una leggera barba dello stesso colore. Il suo viso in svariati punti era segnato da escoriazioni, mentre le braccia nude, presentavano fasciature, lividi e tagli.
Se non si fosse trovata in quella situazione, e se non ci fossero stati quegli evidenti segnali di incedente, avrebbe scommesso che il ragazzo stesse dormendo beatamente.
Gli coprì le braccia con un lenzuolino, temendo che essendo scoperte, potesse avere freddo. In realtà non sapeva se una persona in quello stato potesse provare certe cose, ma lo fece comunque: non vedere i suoi lividi, le dava una sensazione migliore, aumentando l’impressione che quel ragazzo stesse semplicemente dormendo.
Rimase qualche secondo ancora a scrutare i suoi lineamenti: le sue labbra erano di un leggero colore rosato e sembravano molto carnose e ben delineate; il mento era pronunciato, ma non imponente, e  benché lui fosse intubato e benché avesse due tubicini infilati su per il naso, il suo aspetto sembrava non risentirne affatto.
Improvvisamente continuando a fissarlo, a Sarah  venne una voglia immensa di sapere chi fosse e di sapere cosa gli fosse capitato, ma allo stesso tempo avrebbe voluto quasi confortarlo in qualche modo.
Fece una cosa abbastanza azzardata, che una volontaria professionale, ma soprattutto una sconosciuta, non avrebbe dovuto fare: allungò una mano e la protese verso di lui, sfiorandoli con delicatezza prima la mano e poi risalendo verso il suo viso.
Facendo molta attenzione a non spostare i tubi e a non toccargli le escoriazioni, gli accarezzò delicatamente una guancia, cercando di trovare disperatamente dei segni di vita e di interazione.
Il tocco con la sua pelle fu quasi elettrico. La leggera barba sul viso del ragazzo le solleticava i polpastrelli, ma allo stesso modo le causò quasi un brivido dietro la schiena.
Quasi come se fosse sotto un effetto ipnotico, non sentì Tina aprire la porta e irrompere con prepotenza nella stanza, rovinando quella atmosfera quasi surreale che si era creata.
-Hai finito? Sono arrivati i genitori. Dobbiamo uscire…- disse con voce bassa la donna, che non si accorse che Sarah era molto vicina al letto del ragazzo e che addirittura lo stava toccando.
Sarah si girò di scatto, interrompendo immediatamente il delicato gesto con la mano che le stava facendo accarezzare il viso del giovane, e si tirò indietro allontanandosi. Prese velocemente le cose utilizzate per pulire la stanza, e dopo aver mandato un’ultima occhiata al ragazzo, si incamminò con Tina verso un’altra stanza.
Benchè fosse ancora scossa dall’inverosimile accadimento, la ragazza mise attenzione a cosa stesse accadendo nel corridoio e scorse abbastanza movimento: c’erano numerose persone dalla presenza importante che parlavano con il signore panciuto dell’accettazione, e tra  queste vi era anche una donna biondo castano che indossava una vistosa  pelliccia marrone, affiancata da una ragazza, bionda e longilinea, con un cappotto avano. Le due avrebbero dovuto essere madre e figlia  poiché presentavano numerosi tratti in comune: erano entrambe slanciate e con una forma fisica invidiabile ai più, con lunghi e setosi capelli che ricadevano sulle spalle, e due grandi occhi celesti.
Tina si accorse che Sarah stava guardando quelle donne, e sotto voce le disse –Quelle sono le donne della famiglia Trisher, i  proprietari della Trisher Bank. La madre è venuta a far visita al figlio- indicando poi con gli occhi la stanza da cui erano appena uscite.
-Quel ragazzo nella stanza?- chiese Sarah, quasi ammaliata dalle movenze eleganti della signora che si stava accingendo ad aprire la porta della camera.
 -Sì. E’ qui da poco più di due settimane. Questa sarà la quinta volta che vengono a fargli visita…- continuò Tina con un velo di stizza nella voce, ma volenterosa di raccontare a qualcuno quella storia.
-Solo?- fece sorpresa Sarah. Era quasi sconvolta.
-Già.  Se io avessi un figlio in coma da due settimane, passerei qui notte e giorno…-continuò a dire la donna, esternando i suoi pensieri -Pensano solo ai soldi e all’immagine che danno della loro famiglia, per come la penso io- aggiunse camminando svelta e guardandosi attorno alla ricerca di orecchie indiscrete.
Sarah seguì Tina veloce, ed insieme entrarono in un’altra stanza, questa volta priva di pazienti, sembrava più lo studio di un medico.
-Cosa gli è capitato?- chiese poi, mentre puliva la superficie di un tavolo.
-Incidente d’auto. Il rosso era appena scattato e non si è fermato- rispose Tina intenta a sbattere le candide tendine di cotone e ad aprirle, facendo entrare finalmente un po’ di luce.
-Ha subito un brutto trauma cranico e i medici stanno aspettando che l’ematoma interno si riassorba prima di poterlo risvegliare. Lo tengono costantemente sotto anestesia- continuò.
-Non hai sentito niente al telegiornale?- chiese quasi sorpresa.
-Mmm…no…- rispose dubbiosa Sarah, sentendosi quasi in difetto per non aver saputo nulla di quella storia.
Quando finirono uscirono fuori e fecero la stessa cosa per ogni stanza.
Ogni volta che Sarah percorreva il corridoio per passare da una camera all’altra, guardava sempre in corrispondenza della stanza di quel ragazzo, quasi sperando che ricevesse altre visite oltre a quelle dei suoi parenti. Per come la vedeva lei, non era affatto normale e giusto che un ragazzo, forse della sua stessa età, si trovasse in quelle critiche condizioni, ma soprattutto che fosse quasi abbandonato, solo come un cane, in quella fredda e asettica stanza d’ospedale.
Non sapeva bene il perché, ma credeva che lui andasse trattato meglio di così. Chiunque andava trattato meglio di così.
Dopo aver passato il resto del suo tempo all’ospedale a mettere a posto i prodotti di pulizia e ad ordinare qualche scaffale dell’accettazione della terapia intensiva, si diresse a casa. Mangiò uno snack velocemente e poi scappò a lavoro come sempre.
Quando le porte del supermercato si aprirono e le sue colleghe la salutarono, pregò che anche quel giorno passasse in fretta. Non vedeva l’ora di guardare la televisione buttata sul suo divanetto di seconda mano o di sentirsi via webcam con sua sorella.
Quasi inconsciamente si sedette al suo posto, indossando il grembiulino arancione che secondo il datore di lavoro attirava più gente e quasi come fosse un robot, iniziò a battere alla cassa i cibi e gli oggetti che i clienti le porgevano.
La giornata passò normalmente anche se ad intervalli alterni, non riusciva a non pensare a quel ragazzo nella terapia intensiva e alle cose che Tina le aveva detto.
Alle otto con grande gioia terminò le sue ore lavorative giornaliere e ritornò a casa.
La sensazione di sollievo che provò alla schiena nel momento in cui si lasciò scivolare sul divano era indescrivibile e quasi le servì da tocca sana.
Svegliarsi il mattino dopo fu molto semplice e la giornata ricominciò come sempre: la sua tazza di caffè con latte, i cereali al miele mangiati nella metropolitana sotto gli occhi di tutti, la corsa alla fermata del pullman e poi la fila davanti l’ascensore dell’ospedale.
Quella mattina aveva fatto tutto come al solito, però con un piccolo cambiamento: si era fermata, durante il tragitto tra la fermata del pullman e l’ospedale, ad un chiosco di fiori ambulante.
-Io le consiglio le orchidee- le aveva detto il venditore –Sono molto belle e hanno bisogno di poca acqua. Altrimenti ci sono le piantine grasse. Pungono ma sono simpatiche in una stanza!-
Sarah rise di fronte al tono gioviale dell’uomo e fece la sua scelta.
-Le orchidee vanno bene!- disse, porgendo una banconota da dieci dollari e prendendosi il vaso con il fiore –Buona giornata e buon lavoro!- aggiunse allontanandosi.
L’attesa nell’ascensore per scendere nel reparto di terapia intensiva non fu delle migliori, infatti si trovava in un angolo, in una posizione scomodissima, accompagnata nell’abitacolo da altre quattro persone.
Quando le portelle scorrevoli si aprirono e l’aria fredda le riempì i polmoni, si precipitò fuori dall’ascensore, diretta verso l’accettazione.
-Ciao Nell! Ciao Tuck!- fece la giovane, riconoscendo quella mattina gli uomini dietro il bancone. Solitamente i due si trovavano all’accettazione di pediatria, ma per qualche strana ragione sconosciuta alla ragazza, quella mattina erano lì.
Gli uomini ricambiarono sorridenti e furono molto incuriositi di vedere la mora dirigersi verso il corridoio con in mano un vaso con un fiore.
Prima di entrare nella stanza sei, Sarah intravide dagli oscuri metallici se dentro ci fosse qualcuno, e scorgendo solo il letto con il ragazzo, aprì la porta e si sistemò all’interno.
Non sapeva con esattezza perché lo stava facendo, a dire il vero non sapeva nemmeno con esattezza se quella mattina avrebbe dovuto passare nuovamente il suo tempo in quel reparto, ma per una volta non se ne curò.
-Ciao- fece debolmente entrando, conscia del fatto che il giovane steso sul letto e ancora intubato non avrebbe potuto sentirla.
Un odore metallico di alcool e sterilizzanti le riempì le narici e per un attimo le fece distogliere l’attenzione dal letto bianco al centro della stanza.  Andò ad aprire le tende della finestra a nastro, e dopo aver lasciato l’orchidea sul tavolino, iniziò ad armeggiare con il climatizzatore per far cambiare aria.
Dopo aver regolarizzato la temperatura, si diresse verso il tavolino e prese il vaso con il fiore. Si guardò attorno e cercò un posto ottimale per poterla sistemare.
-Dove ti metto?- disse tra sé rivolta alla pianta, quasi aspettandosi una risposta. Il comodino accanto al ragazzo sembrava il posto migliore, ma aveva paura che eventuali tracce di polline potessero in qualche modo dare fastidio, così decise di posizionarla su una mensola vicino la porta d’uscita. Dopo averla poggiata, guardò soddisfatta il suo regalino, contenta dell’aspetto immediatamente più accogliente che quella stanza aveva assunto. Un po’ di colore e di vita le sembravano la cosa migliore.
-Ecco fatto- esclamò, questa volta rivolta proprio al ragazzo –Insomma, non è un gran che…però è carina. Spero tu apprezzi- concluse, immaginandosi quasi una risposta.
Si girò verso di lui e con immensa tristezza, notò che non aveva cambiato posizione dal giorno precedente. Si diede quasi della sciocca per quel pensiero, sapeva bene che non avrebbe potuto muoversi durante la notte, ma una parte di lei sperava con tutta se stessa che ci fosse stato un minimo movimento durante il tempo trascorso dalla sua ultima visita.
Prima di dedicarsi a lui, Sarah sbrigò le stesse faccende che Tina aveva fatto il giorno prima: pulì i tavoli, il bagno e aggiustò le lenzuola. L’infermiera ci teneva particolarmente che quella stanza brillasse e secondo lei la ragione di tanta premura nei confronti della pulizia, era dovuta al fatto che se fosse andato qualcosa storto, almeno la famiglia Trisher non avrebbe avuto nulla da ridire sulle condizioni dell’ospedale.
Finì velocemente il da farsi e poi scrutò silenziosa il ragazzo. Non conosceva niente di lui, nemmeno il nome, eppure provava un’immensa empatia nei suoi confronti. Probabilmente lui non era il tipo di ragazzo che lei si immaginava, ma non le importava, voleva solo fargli compagnia e non lasciarlo perennemente solo in quella stanza. Ancora una volta pensò alle parole di Tina riguardo la sua famiglia: non riusciva a capacitarsi del fatto che nessuno fosse con lui per tutto il giorno e cercò di non pensarci.
Il sole illuminava debolmente la stanza mettendo in risalto i colori del ragazzo. Naturalmente ogni suo respiro era accompagnato dal ticchettio dell’elettrocardiogramma  e il suo petto si alzava e si abbassava piano, a ritmo del suono.
Era un bellissimo ragazzo, ed era quella la cosa che a Sarah sconvolgeva maggiormente. Non credeva sicuramente che qualcuno di meno bello si dovesse trovare in quelle condizioni al posto suo, ma il fatto che il giovane fosse di aspetto piacevole e di buona famiglia, le fece risultare ancora più tragica la sua sorte.
Vide la cartella clinica del paziente sul comodino accanto al letto, e curiosa di sapere il nome del ragazzo la aprì, iniziandola a leggere.
-Allora…- iniziò a dire cercando le generalità. –Tu sei…- aggiunse leggendo tra le righe
–Trisher…Michael Trisher-
Sorrise dopo aver letto il suo nome: finalmente poteva identificarlo.
-Sesso: maschile- continuò –Nato a New York il 9 marzo del 1988-
Fece velocemente due calcoli e arrivò alla conclusione che il ragazzo aveva venticinque anni e rimase sorpresa da quel dettaglio, sembrava più piccolo.
Il resto della cartella clinica dava informazioni riguardo il trauma alla testa, lo stato comatoso in cui si trovava e tante altre cose che Sarah non volle leggere: era estremamente sensibile riguardo le sue condizioni, e non voleva indagare maggiormente.
-Allora…- fece poi, adagiando il plico sul comodino, e sedendosi sulla poltroncina vicino il letto.
Era imbarazzata per quello che stava facendo, ma allo stesso tempo era convinta di fare una cosa carina e buona. Aveva visto o letto da qualche parte che molte volte il suono della voce umana poteva essere rilassante e benefico così come la musica, e così decise di rendere meno apatica quella visita.
-Ciao Michael- disse sorridendo.
Sicuramente avere di fronte un ragazzo steso, immobile e intubato , che non interagiva per niente, non era molto rassicurante, ma provò lo stesso a non farlo risultare tale.
–Io sono Sarah, Sarah Lewis- continuò, ritenendo opportuno presentarsi. –Anche io sono nata qui a New York, il 6 maggio del 1990-
 Continuare a non avere una risposta e sentire solo il rumore dell’elettrocardiogramma la faceva sentire strana, probabilmente stava facendo una cosa stupida, soprattutto date le condizioni di Michael, ma le sembrava l’unica cosa da fare per poter interagire con lui.
-Mi spiace che tu sia qui…- aggiunse con voce triste, seguendo con gli occhi il profilo del ragazzo e cercando di immaginarselo da sveglio.
Michael probabilmente era uno di quei tipi di ragazzi che non avrebbe mai guardato una come Sarah: lei era di ceto sociale medio basso, non andava al College ed aveva una vita mediamente normale; Michael non l’avrebbe mai notata anche a causa del suo modo imbarazzato di porsi nelle situazioni e soprattutto per il suo aspetto fisico.
Uno come lui, palesemente bello anche in quelle condizioni, ambiva sicuramente a qualcosa di meglio: Sarah non era una brutta ragazza, anzi, aveva un viso bello, armonico e con dei lineamenti delicati e quasi esotici; era di carnagione scura, quasi ambrata, soprattutto se prendeva un po’ di sole; aveva dei lunghissimi capelli ricci e neri che sotto la luce assumevano delle sfumature rossastre e moganate, ma purtroppo, secondo lei non aveva una buona forma fisica. Non era magra, ma leggermente in carne, e la continua attività agonistica che praticava quando era più piccola, aveva contribuito a renderla tonica e atletica, rendendo comunque piacevoli quei chili in più che aveva.
Benchè lei non avesse nulla da invidiare alle altre ragazze o alle sue amiche, quello era sempre stato un problema, soprattutto con i ragazzi, che avevano sempre scelto qualcun'altra al posto suo, e benché questo problema la rendesse particolarmente amareggiata e sensibile,  in presenza di altri aveva imparato a mascherare bene il suo insensato disagio.
Il ragazzo che aveva di fronte dunque, per come la vedeva lei, avrebbe sicuramente messo più facilmente gli occhi su qualche bionda slanciata e magra, ovviamente straricca, e magari con il futuro spianato.
Allontanò quei pensieri e si concentrò solo su di lui: in fondo non lo conosceva, e almeno fino a quando era in quello stato, lei poteva immaginarselo come voleva, magari, oltre che bello, anche bravo e premuroso.
Guardò ancora il viso di Michael, cercando di immaginarsi il colore dei suoi occhi: sicuramente aveva gli occhi blu, proprio come quelli delle donne della sua famiglia.
Sarah era una ragazza abituata ad ascoltare sempre i problemi degli altri, tutti i suoi amici la prendevano come la loro confidente  personale, e in fondo le stava bene. Non era una di molte parole e a cui piaceva esternare le proprie emozioni e i propri sentimenti, e solitamente si sfogava ascoltando musica o dipingendo.
Era sola in quella stanza, con un ragazzo in coma che non poteva sentirla e aveva un’immensa voglia di entrare nella sua vita, anche in quelle circostanze.
Da quanto tempo non parlava davvero con una persona? Da quanto tempo non parlava e basta senza stare ad ascoltare le paranoie e i problemi degli altri?
-Ieri ho visto tua madre e tua sorella quando sono venute a trovarti- fece -Sono molto belle, come te- commentò ripensando alle due bionde e permettendosi di essere sincera.
-Probabilmente stare su quel letto e avere quelle cose perennemente in gola, non deve essere molto bello– continuò, riferendosi ai tubicini di plastica nelle narici di Michael –Ma non devi arrenderti- disse con tutta la forza che aveva e che poteva trasmettergli attraverso la voce –Sono sicura del fatto che tu sia un ragazzo forte e coraggioso, e ti riprenderai. Non importa quanto tempo servirà-
Le sue labbra si incurvarono in un leggero sorriso e senza pensarci molto, protese una mano e sfiorò delicatamente quella di Michael.

***
Ecco a voi il primo capitolo della mia prima storia originale.
Mi sono gettata a capofitto in questa nuova avventura e la foga di dare un volto e una storia a questi personaggi è stata così forte, che ho già scritto i primi sei capitoli.
Spero che questa prima parte vi abbia incuriosito e vi sproni per la lettura del secondo capitolo, che sarà pubblicato Venerdì.
Ho cercato di caratterizzare in parte i protagonisti già da queste prime righe: Sarah cerca disperatamente di diventare un'artista o comunque di fare della sua passione un lavoro; mentre Michael purtroppo vive in una realtà che gli sta un po' stretta.
Il personaggio di Michael sarà centrale e verrà trattato in maniera diversa dal solito date le condizioni in cui si trova, ma avremo modo di interagire con lui soprattutto nella prima parte della storia e a partire dal prossimo capitolo scoprirete perchè.
Questa storia mi sta particolarmente a cuore, soprattutto perchè fino ad ora ho sempre scritto in fandom di telefilm e artisti musicali. Ci tengo particolarmente nella sua riuscita e soprattutto tengo particolarmente a sapere cosa ne pensiate a riguardo, quindi fatemi sapere subito che ne pensate, giusto per non partire scoraggiata fin dall'inizio xD

Questo primo capitolo è presente anche su WattPad a questo link:

https://www.wattpad.com/story/50810788-anestesia
Se qualcuno di voi è iscritto possiamo Followarci (?) è la prima volta che lo uso e non so bene come si faccia xD

Se volete, potete anche seguire tutti gli aggiornamenti o piccole anteprime dalla mia pagina Facebook:
https://www.facebook.com/Black-Mariah-Efp-105133312907556/timeline/
In cui pubblico foto, i giorni degli aggiornamenti oppure piccole parti di capitoli.
Grazie per la lettura,
correte a lasciare una recensione!
Un bacio!
Mariah

 
   
 
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