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Autore: _sonder    29/09/2015    3 recensioni
Uno sguardo rapisce, uno sguardo muove il mondo.
| Quarta classificata allo You stole my heart - ObiRin Contest indetto da Angie96 e Amens Ophelia sul forum di EFP. |
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Obito Uchiha, Rin | Coppie: Obito/Rin
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Nickname autore (su efp e sul forum): _sonder/_Sonder
Titolo storia: Nei suoi occhi
Rating: Giallo
Pacchetto/citazione scelto: Citazione otto, Herman Hesse, Io ti chiesi. Entrambi i prompt usati (disegno, vento), seppur in misura diversa. Le linee guida richiedevano quanto segue: Rin ed Obito sono vicini di casa, ma non si sono mai incontrati, realmente. Lui la vede affacciarsi alla finestra, chiedendosi perché lei non vada a scuola come tutti gli altri, mentre lei vorrebbe poter uscire e camminare sulle sue gambe, ma non può farlo. Vorrebbe poter correre a piedi nudi nell'erba ma non può, perché è affetta da paralisi. I due potrebbero mai incontrarsi fisicamente, con questi presupposti?
E io ti chiesi perché i tuoi occhi
si soffermano nei miei
come una casta stella del cielo
in un oscuro flutto.

Mi hai guardato a lungo
come si saggia un bimbo con lo sguardo,
mi hai detto poi, con gentilezza,
ti voglio bene, perché sei tanto triste.
Introduzione: Uno sguardo rapisce, uno sguardo muove il mondo.
Eventuali avvertimenti: modern!AU
Eventuali note: Naka, il nome del cane, significa "mezzo".
Tatami: misurazione della superficie di un'abitazione in base ai pannelli della pavimentazione.
Il POV è alternato fra i due membri della coppia.

Partecipa allo You stole my heart - ObiRin Contest, indetto da Angie96 e Amens Ophelia sul forum di EFP.



 Nei suoi
 o c c h i
come una casta stella del cielo in un oscuro flutto.


N

el letto, da sola, Rin pensava alle carezze del vento che agitavano le tende, scuotendole come per invitarla in giardino. Gonfiate, come gonne di donna in una giornata di primavera, diventavano le vele da seguire per navigare verso nuove e vecchie fantasie. Era piacevole percepire le dita dell'aria, che ancora si poggiavano sulle sue membra. A tratti, le pareva una sensazione distante, lontana e chiassosa quanto le voci dei bambini del quartiere. Anche il lenzuolo le solleticava la pelle: Rin sentiva dei brividi correre lungo le forme e morire verso le estremità, in un formicolio più debole e indistinto. In passato aveva detestato il clima rigido della sua cittadina e gli ampi spazi battuti dalle folate di un gelido inverno; ora desiderava percepire il freddo e il caldo, ritrarsi sotto le coperte e portare le ginocchia al petto, cullata dalla pioggia. Le sembrò che il vento capisse i suoi desideri e alzasse la voce pur di contentarla; si trovò costretta a parare il viso dietro il suo libro preferito di Anzo Kodachi, Per te ho disegnato il vento. Era giunta al punto in cui Tsukasa diceva addio a Mine e il vento soffiava sui messaggi dei giovani amanti, sparpagliandoli. Pur avendo già letto il finale, Rin non poté trattenere un moto di stizza per l'inevitabilità della loro rottura. A distanza di tempo, quei personaggi erano divenuti parte di lei, frammenti familiari con un posto speciale nelle sue riflessioni.

L'imposta si spalancò d'improvviso e rovesciò un vaso, lasciando terriccio e cocci di ceramica sul suolo. Rin sussultò e il libro le cadde dalle mani, batté a terra e le pagine subirono lo sfogo del vento, che le voltò come un bambino dispettoso. Fissò prima il fusto della piantina, sospeso sul bordo della scrivania, e poi le foglie, in balia della corrente d'aria. Decise di girarsi su un fianco per recuperare il libro. Dalla radio proveniva una buffa canzone su un tostapane rotto, che il dj aveva annunciato parlando della coreografia strampalata del cantante e del video virale che ne era stato ricavato. Persino lei l'aveva ballata assieme alle amiche, scimmiottando i versi del pezzo.
Un lamento le scappò di bocca, mentre si trascinava verso il libro e stendeva un braccio senza riuscire a sfiorarlo. Picchiò le gambe, riversando su di loro tutta la propria rabbia; molli e mute, queste rimasero immobili, senza sentire il peso dei colpi. Rin aveva contato i giorni di prigionia in cui era stata piombata dalla sua condizione: erano trascorsi sei mesi e la terapia non aveva dato effetti… e la canzone del tostapane era passata di moda, assieme al suo balletto e al riso sulla sua bocca. Portò le mani sulle gambe e le chiuse in due pugni impotenti, per poi rilassare le dita e abbandonarsi sul materasso.
Respirava a fondo, sconfitta dalla fatica; giaceva con la fronte inumidita dal sudore e la sensazione di non avere più energie da spendere, per quanto il fiato era corto. Lo sforzo le aveva dato colore al viso, ma si trattava di una cera febbricitante e l'idea di sembrare un essere fragile e malato la ripugnò. Rimase con le braccia lungo i fianchi e il vento a scompigliarle i capelli bagnati. Non degnò di un altro sguardo il libro: poteva rimanere a terra, come un tributo gettato alla vecchia se stessa, alla ragazza che non sarebbe tornata; non le importava più, si disse. Non le importava, pensò, mentre le lacrime le rigavano il volto.

Dal giardino udì la vita schiudersi e liberarsi del guscio del lavoro e delle occupazioni: rincasavano le famiglie; si congedavano, gli amanti; correvano, gli scolari, incontro alle mamme e ai nonni; e volava un'imprecazione, di tanto in tanto, ovattata dall'isteria dei clacson e dallo scampanellio del vicino passaggio a livello. Tutto si tendeva verso il focolare domestico, alla luce calda delle case. Con invidia, Rin sentì il cuore esplodere, mente il dj annunciava l'ora di cena. Gli occhi della ragazza sostavano sulla porta della camera e il battito aumentava, scandito dalla solitudine. A casa sua i pasti non venivano più consumati assieme e i suoi genitori si avvicendavano come badanti instancabili al capezzale, dandole tanto amore da amplificare i sensi di colpa e l'inadeguatezza.
Rin li guardava e mordeva le labbra, tenendo stretta a sé quella poca dignità che non voleva barattare. Li amava, ma sapeva di ferirli; di essere ferita, a sua volta, dai loro sguardi carichi di apprensione e terrore per quel futuro in cui sarebbe rimasta sola. Lei, che tanto desiderava bruciare le tappe e diventare adulta, adesso doveva temere l'idea di non essere autosufficiente.
Evitò di chiamare sua madre per sistemare e raccogliere il libro: provava un'immensa vergogna a dipendere da lei per cose che avrebbe soltanto procrastinato in passato. Il cuore si rimpiccioliva, soffocato da un laccio, ogni volta che ascoltava i passi di lei salire le scale. Di fronte a Rin era combattiva come suo solito, ma lo scricchiolio dei gradini in legno e il fruscio delle pantofole sottolineavano che si spingeva al limite per il suo bene. La immaginava assicurarsi al passamano e salire lentamente, con un pausa più lunga dell'altra, soprattutto a fine giornata.

Rin trattenne la coperta fra le dita finché le nocche non sbiancarono. Non era da lei arrendersi così: dopotutto aveva sacrificato molto per essere selezionata in uno dei migliori istituti femminili della zona, che dava ottime referenze per la facoltà di Medicina. E quando qualcuno aveva osato darle della debole, si era impegnata per aumentare la resistenza fisica, allenandosi nella corsa. Non poteva accettare l'idea di essere una bambola rotta. Puntellò i gomiti sul materasso e cercò di sollevarsi, indietreggiando col bacino. Con una mano serrò un bracciolo della sedia a rotelle e la tirò verso di sé, grondando gocce di sudore. A fatica si issò e aderì allo schienale e solo allora emise un sospiro di sollievo, poiché i polpastrelli sentivano la gomma delle ruote e ciò significava avere il controllo sui propri movimenti. Le dispiaceva che le sue mani fossero callose, quando ne aveva avuto una cura maniacale, come aspirante chirurgo; lasciò da parte la vanità e le sue ambizioni, cercando di concentrarsi sul presente.
Spettava a lei ricostruirsi e darsi valore. In un ultimo tentativo di autonomia, Rin arrivò accanto al tomo e avvicinò una ruota posteriore all'angolo per sbilanciarlo e sollevarlo di qualche centimetro. Si chinò di lato, il busto poggiato sul bracciolo, e quando finalmente sfiorò la carta con le dita, esultò con tutto l'entusiasmo che le era rimasto. Era lì, seduta e bisognosa di un bagno caldo, con un libro sporco di polvere e terra fra le mani e qualche livido sul corpo; eppure, la soddisfazione l'aveva colmata fino a traboccare dagli occhi ridenti: erano tornati vivi, a trattenere a stento la vitalità dei suoi pochi anni; anni gracili e pesanti, che l'avevano cambiata.
Non c'era pubblico per quella vittoria conquistata a fatica: agli angoli della camera da letto, c'erano soltanto fotografie di classe, volti che si erano nascosti dietro parole di cortesia e auguri di circostanza. Fino alla sera prima del suo incidente avevano contato di più ed erano stati la bilancia della sua intera esistenza: complici, familiari, i punti di riferimento sui quali contare…
Rin chiuse la finestra per mettere un punto ai pensieri infelici, ma essi tornavano e la investivano senza riguardi per le sue intenzioni. Non capiva perché i suoi amici fossero diventati dei perfetti estranei; doveva ammettere, però, che persino lei aveva tolto la parola a qualcuno, senza riuscire a spiegarsene le ragioni… e quelle persone si erano trasformate in conoscenti, senza che Rin fosse in grado di andare oltre il saluto.

In silenzio, preparò il quaderno degli esercizi e rassettò la stanza, stando attenta ai pezzi di vaso a terra. Guardandosi attorno, le sembrava di trovarsi in uno spazio più ristretto e basso: scaffali e mensole erano proporzionati per la sua altezza da seduta, così da garantirle una certa libertà. L'armadio ospitava soltanto cianfrusaglie sui ripiani superiori, a cui lei non arrivava. Era un mondo piccolo, a sua misura. Per lei, che ancora sognava di passeggiare con gli altri, di affrontare le sfide della quotidianità, si trattava di un'umiliazione cocente.

Si adagiò sul montascale e scese in soggiorno. Sua madre dormiva sul divano, con gli occhiali calcati sul ponte del naso e la televisione accesa, fissa su un canale di notizie, in sottofondo. Fra le mani sorreggeva una rivista di annunci di lavoro. Rin incantò il viso e la osservò; il cuore le era tornato in gola. Percorreva le rughe sul viso della madre e il contorno sfumato delle labbra, più sottili rispetto a qualche anno prima. Capitava spesso alle donne adulte oltre la quarantina. Le accomodò meglio la coperta e sfilò gli occhiali da lettura.
Mentre avanzava sulla carrozzella, Rin contava le differenze nella disposizione dei mobili e osservava la pedana improvvisata che le consentiva di entrare nella cucina.
Spesso sua madre si accasciava contro una spalla del marito e, quando credeva che il sonno avesse colto la figlia, gli domandava se anche lui ricordasse i primi passi della loro bambina, in pannolino e maglietta rosa, con i codini alti… o i rimproveri che le sbraitava contro, quando rincasava senza togliersi le scarpe, per correre a guardare la sua trasmissione preferita. Concludeva singhiozzando e giurando che avrebbe preferito qualche altra macchia di fango o un'orma di sporco sul pavimento, pur di ridarle la possibilità di muovere le gambe. Abbracciato il cuscino al buio, Rin si prometteva di impegnarsi di più, di non ridurre di nuovo sua madre al pianto.

Dalla finestra della cucina si apriva la vista del parco. Rin sfiorò lo stipite e la brezza entrò, sfiorò le guance come una vecchia amica; era un incontro che attendeva da tempo e l'ultimo ricordo che ne aveva era in abiti sportivi, alla fine del solito giro di corsa, le gambe vuote e leggere che quasi andavano da sole verso la strada di casa. Fuori c'era ancora il prato su cui correva: lì, aveva imparato a rialzarsi dopo una caduta dalla bicicletta, a ridere delle sue ginocchia sbucciate; lì, sotto la pioggia e il timore essere vista da qualche vicino chiacchierone, aveva dato il suo primo bacio. E aveva l'illusione di sentire l'impercettibile puntura degli steli bruciati dal sole, di essere cullata dall'odore pungente dell'erba tagliata.
Sotto i piedi la terra veniva conquistata falcata dopo falcata; ed era bello percepirsi intatta, padrona del proprio corpo.
Riaprì gli occhi e capì che non bastava volerlo. Per quanto si impegnasse e obbligasse la mente al pensiero di un passo, le rispondeva l'immobilità. Abbassò il capo e notò soltanto allora la posizione innaturale in cui era piegata la caviglia destra. Il calzino non le fasciava più la carne. L'assenza di sensibilità la colpì allo stomaco e trattenne un singhiozzo. Premette un palmo sui fornelli e soffocò i versi inarticolati di dolore. Era una salita insormontabile… e lei, ancora ai piedi della vetta, si limitava ad assistere alla vita dei parenti, delle sue ex compagne di classe e degli estranei. Ogni più piccolo gesto era deformato in un percorso penoso e lungo da sopportare.


Obito, a cuffie premute sulle orecchie, passeggiava verso il proprio quartiere. Era strano lasciarsi alle spalle l'edificio scolastico in compagnia di un randagio, che lo scortava a casa tutte le sere, pur di avere un pasto gratis e un luogo asciutto in cui poltrire.
– Ti ho proprio viziato, Naka. E l'anno prossimo come farai senza di me, palla di pelo?
Si accovacciò sulle ginocchia, mentre il volpino scodinzolava con il muso inclinato di lato e gli occhi vispi, in attesa.
– Ho capito, furfante, ho capito…
Obito rise e allungò una manciata di croccantini al cane: questo abbaiò festante e leccò le dita, prima di ingurgitare lo spuntino; soddisfatto, si sedette e grattò un orecchio con la zampa.
L'imbrunire avanzava, trascinando le ombre a ridosso dei lampioni e l'umidità si attaccava alla pelle.
Obito si rimise in piedi, per poi sfoggiare il solito sorrisetto che tradiva a ogni bravata.
– Adesso in marcia, da bravo. A chi arriva primo, un biscotto in più!
Scattò in avanti senza aspettare che Naka finisse di sollevarsi sulle quattro zampe, ridendo e urlando.
– Fregato!
Gridò ancora e superò con un salto la siepe bassa del chiosco di ramen di Teuchi. Udì qualche insulto ai suoi danni e Naka uggiolare. Bastò qualche minuto e il cane iniziò a inseguirlo.
Il sudore tracciava la schiena di Obito e il vento gonfiava la maglietta, mentre scorreva ora un braccio avanti, ora l'altro. Si fermò bruscamente di fronte al semaforo rosso dell'incrocio: una luce rossa lampeggiava sino a rischiarargli il volto. Trattenne il volpino, che gli tirava una gamba, a denti stretti sul pantalone. Non avrebbe potuto sfruttare di nuovo il trucco precedente: Naka imparava in fretta.
– Hai proprio ripreso da me in furbizia, – esclamò e sfregò le nocche sulla camicia, – cioè, dal migliore.
Naka emise un guaito confuso e annusò le scarpe di Obito. Fece un giro in tondo, a naso basso, alzò una zampa e… lo scroscio caldo e maleodorante obbligò Obito a saltare sul posto.
– No, no, no!
Agitava le mani e scrollava la gamba inzaccherata. – Cattivo, cattivo cane! Niente più biscotti per te! Sai che il vecchio mi butterà in lavatrice con questo scherzo che mi hai tirato?
Gli puntò un dito contro, che Naka puntualmente leccò.
– Ah, no, no! Non ci casco mica. Queste smancerie non avranno effetto su un tipo virile come… come… me.
Obito era arrossito fino alle punte dei capelli e il labbro inferiore tremava per la tenerezza: dopotutto, amava i cuccioli e le belle ragazze. Non c'era verso che riuscisse a resistere.
– Ah, vieni qui, sacco a pelo di un corruttore!
Svoltarono dopo un isolato. Il ragazzo passava un dito sotto il naso e tirava su, fiaccato dalla sensazione di essere sul punto di starnutire per il raffreddore.
All'orizzonte si profilavano le villette a schiera della sua zona, ognuna divisa su due livelli abitabili. I proprietari del quartiere avevano ricavato per ognuna due appartamenti con entrate indipendenti e suo padre spesso si lamentava di essere stato raggirato. Obito portò una mano a grattarsi la nuca, in un gesto di puro nervosismo. Gli bruciava ancora l'episodio in cui si era presentato in casa di un'anziana signora sul lato della sua strada, convinto di aver varcato la soglia dell'abitazione paterna. Il vecchio ne aveva ricavato un racconto di cui chiacchierare con i colleghi e i parenti.

I fasci dei fari si specchiavano sull'asfalto, i motori tossicchiavano qualche rombo, tra un brontolio e il seguente, e le marmitte addensavano l'aria di fumo. Persino quell'aspetto un poco malsano annunciava a Obito il suo arrivo a casa.
– Allora, pulce. Questo è il piano, – sussurrò a Naka, alzandogli un orecchio e chinandosi verso di lui, armato di uno sguardo da stratega provetto, – io apro la porta e tu sgattaioli nella mia camera, in assoluto silenzio. E il gioco è fatto!
Schiarì la voce e carezzò il mento con aria compiaciuta per essersi semplificato la vita. Tuttavia, smorzò le sue arie non appena vide Naka rotolarsi sul dorso in cerca di coccole.

– Vecchio, sono a casa!
Lo ripeté un paio di volte, il tono di voce sempre più alto e la mano stretta sulla maniglia della porta. Sperò che suo padre sentisse soltanto lui e intanto lanciò un segnale a Naka, perché entrasse nella sua stanza.
– Obito, hai finito così tardi, oggi? Hai bighellonato come tuo solito?
– Per chi mi hai preso? Sono il primo della classe.
– I tuoi insegnanti non erano di questo parere all'ultimo colloquio, – lo rimbrottò il padre, spiegazzando il quotidiano, – beh, fila a lavarti, stasera cucina cine… etciù!
Obito seguì con gli occhi la testa di suo padre: ciondolava avanti e indietro, si alzava e si abbassava violentemente per il nuovo starnuto.
– Obito… hai portato quel cagnaccio in casa?
Non poté trattenere un risolino alla voce nasale del genitore. Sollevò le mani in segno di resa e allungò il passo verso la zona notte dell'appartamento. Il padre si era alzato dalla poltrona e procedeva verso di lui, con il viso nascosto da un vistoso fazzoletto stampato con papere e orsetti. Obito spalancò gli occhi, la bocca e levò un dito nella sua direzione: esplose in una risata sguaiata e l'uomo si tolse una ciabatta e la lanciò contro il muro.
– Vuoi uccidermi, disgraziato? Ora ti insegno io a… etciù!
Il ragazzo guardò il padre affrontare una fila di starnuti, uno più rumoroso dell'altro, e batté in ritirata, sfruttando l'occasione. Per fortuna, pensò, non aveva avuto modo di sentire l'odore del regalino di Naka.
– Buonanotte, vecchio!
Chiuse la porta della sua stanza e ammassò un paio di sedie e sacchi colmi di chincaglieria contro l'uscio. Non credeva che il padre sarebbe entrato, ma una voce interiore gli suggeriva di evitare la morte nel sonno per mano del vecchio.
Lo stomaco gorgogliò, vuoto e affamato, rimpiangendo la prelibatezza dei piatti cinesi.
– Posso farne a meno. Assolutamente!
Si colpì il petto, ma l'addome non fu dello stesso parere e risuonò con un lamento talmente protratto da spingere Naka ad abbaiare. Il cane era steso sul letto, senza complimenti. A Obito non restò altro da fare che stendersi accanto a lui e cedergli le gambe come cuscino. Passò una mano sul dorso dell'amico peloso.
– Dovrei proprio cambiarmi…
Socchiuse gli occhi, invece, e fissò il lampadario spento: una boccia sospesa nel vuoto e mal funzionante. Da bambino credeva che tutti i lampadari di quella forma fossero alimentati da pesciolini rossi. Sua madre aveva riso tanto e lo aveva raccontato al vecchio. Quante cose erano cambiate da allora…
Quando si erano trasferiti, Obito era stato contrario. Gli capitava di sognare spesso la madre: abbandonava la sua mano e sorrideva, ma era uno di quei sorrisi indecifrabili di donna che non riusciva a definire. Era un ricordo annacquato dalla pioggia, dalle stagioni che scorrevano senza sosta e non sapeva più dire se lei avesse sorriso un'ultima volta, prima di lasciarlo. Suo padre aveva deciso di cambiare aria, di ricominciare altrove, come tante altre storie simili alla sua; in fondo al cuore, Obito non aveva alcuna intenzione di abbandonare la vecchia casa. Tendeva le braccia alla possibilità del ritorno di sua madre, sperava di rivederla, di sentirla pronunciare parole di pentimento, perché lui non aveva mai smesso di aspettarla…
– Sono un idiota.
Si girò su un fianco e Naka sbuffò, lamentandosi nel sonno. Obito sorrise, osservando le zampe che si muovevano in un comico saliscendi. Pure la sensazione di oppressione al petto non lo abbandonò, e portò un pugno verso il torace. Aveva cominciato a inseguire il ricordo della madre dall'arrivo di una circolare, in cui si comunicava la demolizione dell'edificio scolastico alla fine dell'anno accademico. Poco male, aveva pensato, dato che si sarebbe diplomato proprio entro quel limite di tempo. Avrebbe dovuto preoccuparsi dei test d'ingresso per l'università, piuttosto… tuttavia, l'idea, che il suo passato venisse cancellato di punto in bianco, lo scuoteva. Il luogo in cui si recava ogni giorno sarebbe stato ridotto a polvere e macerie. Si chiese se, come per la voce di sua madre, avrebbe perso il ricordo dell'aula e dei laboratori, dei primi approcci al disegno, dei volti di compagni e professori che non avrebbe rivisto. Crescere… era questo? Ritrovarsi a pezzi, senza la nitida immagine degli eventi?
Abbassò il capo e premette il cuscino sulla tempia. Lo lanciò a terra l'attimo dopo, in preda alla frustrazione. Crucciarsi e abbattersi non lo avrebbero condotto da nessuna parte. Si sollevò e lasciò Naka sul materasso caldo.

La scrivania era attrezzata con un tavolo da disegno mobile. Cigolava ed era abbastanza scomodo da quando era diventato più alto, ma non voleva separarsene: si trattava di un regalo dei nonni e del vecchio e anni prima era stato un signor modello, per cui immaginava che avessero sacrificato altro pur di comprarglielo. Accese la luce del supporto e vide due occhi femminili che lo fissavano dalla carta. Nel cassetto in basso a destra c'era una pila di A4 già illustrati, con il medesimo soggetto, che usava come strumento di paragone per migliorare l'ultimo schizzo preparatorio.
Non riusciva a togliersi dalla mente quegli occhi, grandi e magnetici, che aprivano le palpebre e guardavano l'osservatore senza timore di svelarsi e di curiosare. In essi, c'era una vena di tristezza che gli mozzava il fiato e lo attraeva, ma lui vedeva in quella tristezza il coraggio di andare avanti, la determinazione.
Obito intendeva riprodurne un ritratto esatto e il più possibile vicino alla ragazza che lo aveva impressionato con così tanta forza; ma la mente aveva tradito i particolari e l'immagine che ricordava andava falsandosi.
Succhiò la matita e la morse, aumentando i solchi inferti dai denti, prima di puntare istintivamente lo sguardo di fronte a sé. Dalla finestra vide la camera della sua vicina. Stropicciò le palpebre e batté le ciglia: il vetro era sollevato e le tende allargate. In cuore gli balzò la speranza di rivederla, di poter catturare la bellezza dei suoi occhi, di essere in grado di strapparle l'anima e imprigionarla in un misero foglio.
Quella finestra era stata quasi sempre chiusa dalla volta in cui aveva visto per caso la ragazza e non riusciva a calmarsi. Voleva, doveva sapere…
D'istinto, spense la lampada e rimase nell'oscurità: assottigliò gli occhi, corrugando la fronte nello sforzo di restare vigile e di scorgere lo sguardo che lo aveva disarmato. Forse era stato lui a ricamare sulla sua bellezza; no, si disse, scuotendo la testa. Lei era autentica e c'era qualcosa in quelle iridi che doveva assolutamente catturare e conservare gelosamente. Si ripromise di restare sveglio per attenderla. Conosceva soltanto il suo nome, visto sulla piccola insegna di legno accanto al citofono: Nohara Rin. Obito a volte fantasticava sul motivo per cui la casa risultasse chiusa o vuota; non lo riguardava, ma la figura di lei, incorniciata da quei capelli corti e dagli occhi grandi che riuscivano a spiazzarlo, aumentava la sua curiosità. Quando l'aveva vista non aveva mosso le labbra nemmeno per un attimo e gli aveva riservato uno sguardo duro: la sua espressione lo aveva trafitto a tal punto da fargli avvertire un profondo senso di colpa. Avrebbe desiderato scusarsi, nemmeno lui sapeva per quale motivo; lei, però, si era ritirata dietro il tendaggio.
Pensava di frequente a quell'episodio. Si erano studiati per brevi istanti, finché lei non aveva interrotto il gioco degli sguardi. E, per la prima volta, Obito ammise che anche nel silenzio c'era bellezza. Non gli erano servite parole per essere soggiogato dalla forza prepotente nella sua vicina di casa. C'erano passione e malinconia in lei e tanto altro che non aveva saputo cogliere.
A Obito era rimasta la vaga impressione di averla colta alla sprovvista e di aver visto le sue guance arrossire. Lui stesso si era sentito accaldato: il volto aveva preso a bruciargli di desiderio e imbarazzo e il battito era impazzito.

L'aria fredda lo punse al collo. Obito strinse le palpebre e tornò a stiracchiarsi nel sonno, finché un altro refolo non lo costrinse ad aprire gli occhi. Agitato, fissò l'orario e andò con lo sguardo alla casa di fronte a lui.
La finestra della vicina era di nuovo chiusa. Massaggiò la nuca, deluso, e staccò delicatamente i fogli dal suo avambraccio. Sorrise: a dargli il buongiorno, c'era lei…


Era spuntato un nuovo giorno. Gli occhi, ancora impigriti per le poche ore di sonno, faticavano ad aprirsi. Per buona parte della notte, Rin aveva sbirciato in direzione del ragazzo che abitava nella casa accanto. Dormiva curvo sulla scrivania, con il viso disteso. Mentre reggeva un lembo di tenda, provò antipatia per la sua tranquillità, ma i suoi occhi continuavano a cercare il volto seminascosto dalle braccia, i capelli neri che cadevano sulla fronte, come un prolungamento della notte. Ad attirarla verso di lui era stato un rumore di trascinamento, seguito dal fragore di oggetti caduti. Prima aveva visto soltanto oscurità, ma poi era entrato un uomo nella stanza e la luce era stata accesa. La figura maschile, munita di mascherina, si era avvicinata al ragazzo e lo aveva accarezzato, sistemandogli uno scialle pesante sulle spalle. Dai gesti le era parso che intendesse trattenersi nella camera, ma in seguito l'uomo si era allontanato e aveva chiuso l'uscio.
Il muso di un cane nero sbucò dal basso e leccò il gomito del ragazzo; quest'ultimo non si mosse neanche quando lo scialle cadde. Rin sentì la propria risata salire dal petto e sgorgare nella stanza, fino a colmarla.


Al mattino, innervosita dal poco riposo, si era detta che non c'era nulla di speciale in quel quadretto. Ripensava alla carezza dell'adulto e al modo in cui il ragazzo riposava spensieratamente. Da cinque anni la casa di fronte era abitata da quei due. Li udiva litigare per il cane, il più delle volte, o starnutire e ancora essere in disaccordo per quasi ogni aspetto della vita. Non ricordava bene quando, ma aveva ascoltato sua madre discutere di loro con una delle sue amiche. Nessuno aveva incontrato la moglie dell'uomo e le voci che si erano levate parlavano di un divorzio, di un lutto o di un ragazzo preso in custodia da un parente single.
Rin alzò la coperta fino al naso: da sei mesi era lei il pettegolezzo sulla bocca del quartiere e la sua disgrazia era un comodo passatempo per i più fortunati, uno spettacolo da portare avanti. In tanti si dispiacevano, sempre un passo indietro per non toccarla, sempre con tono basso e una mano a coprire le parole usate. Sotto l'ipocrisia delle conoscenze, Rin cadeva nel disperato bisogno della normalità… quella routine di cui spesso si era lamentata con le amiche, perché voleva trovare se stessa, voleva vivere qualcosa di movimentato ed eccitante.
Guardò l'armadio. La parete liscia non ospitava più la gruccia con la sua uniforme scolastica. Dopo la riabilitazione, aveva provato l'amarezza di frequentare un istituto superiore esclusivo, non attrezzato per studenti disabili, come aveva affermato il preside. Dentro di lei c'era un mare che rimescolava parole e immagini della sua memoria. Vedeva le mani del preside torcersi e le labbra umide rovesciare giustificazioni. Cocciuta, Rin aveva insistito per continuare a presentarsi a scuola, in una classe al piano terra. Ingoiò la vergogna e ottenne l'accesso agli ascensori dell'amministrazione per raggiungere i laboratori ai piani superiori. Trascorso un mese, percepì di non essere più il fiore all'occhiello della scuola, ma l'erbaccia da estirpare. Si rassegnò, a poco a poco, quando i piccoli privilegi, forniti per sopperire alle mancanze della struttura, non divennero nuovo motivo per accrescere la sua diversità. Persino le amiche fidate cambiarono atteggiamento e passarono dal desiderio di proteggerla a quello di allontanarla per non doversi curare delle sue esigenze. Rin si disse che non aveva bisogno di loro; si disse tante altre cose che non ascoltava e non riusciva ad accettare. Non doveva stupirsi se non aveva mai incontrato il porcospino della porta accanto: entrambi seguivano due stili di vita diversi, in scuole differenti e in direzione contraria l'una all'altra. Spesso era la luce proveniente da quella casa a svegliarla e talvolta si sorprendeva a domandarsi che tipo di persona fosse quel ragazzo tanto rumoroso.

Sopportò la pena di accomodarsi sulla sedia a rotelle: una smorfia le segnò il volto alla prima fitta di dolore alle braccia. L'indolenzimento doveva essere stato causato dagli sforzi del giorno precedente. Sulle mani delle striature rosse le segnavano la pelle e la convinsero a indossare dei guanti, a badare alla forza che imprimeva alle ruote.
Al mattino le piaceva girare per la casa e guardare la strada da angolazioni differenti: era un piccolo espediente per sentirsi parte del paesaggio, per mischiarsi ai passanti e partecipare alla loro vita. Fantasticava sui problemi di ognuno e si permetteva di seguirli con il pensiero, di raggiungerli.
Si fermò dinanzi al balcone dei suoi genitori. Il vicino camminava con il cane nero al suo fianco; rovistava con un mignolo il naso e Rin spinse il vassoio della colazione sullo scrittoio della madre, colta da un improvviso senso di sazietà. Non contento, il ragazzo stropicciava i pantaloni con le dita, in barba all'educazione e all'igiene. Rin incrociò le braccia e poi gonfiò le guance, come se quel gesto fosse un dispetto indirizzato a lei. Alzò un sopracciglio e si assicurò di spuntare fuori dal panneggio della tenda soltanto con il volto.
Il cane alzò il muso e abbaiò verso di lei, finché il ragazzo non seguì la direzione in cui l'amico aveva puntato il naso. Il mignolo, che insisteva a muoversi nella narice, ridusse la sua attività e si fermò del tutto. A quel punto, Rin lo vide tentare di costruirsi un alibi per l'accaduto, gesticolando con entrambe le mani in segno di resa, per poi gridare all'allergia, all'insetto letale e allo sfoggio di un fazzoletto ricamato con panda e biberon. Rin, impassibile nel suo broncio, indicò dapprima i propri occhi con due dita e poi li tese verso il ragazzo, come a dire: “ti vedo, ti ho visto!”.
Il vicino, allora, tentò di rivolgersi al suo amico a quattro zampe, ma l'animale girò in tondo per mordersi la coda e il padrone diventò di colpo di sale.


– Merda!
Obito abbassò entrambe le mani e mandò uno sguardo a Naka.
– Ehi, tu! Non bastava la lavata di capo che mi ha rifilato il vecchio stamattina alle sette, mentre tu occupavi il mio letto… nonché il bucato da fare… ci mancava questa figura! Non lo sai che l'amicizia fra uomo e cane viene prima delle belle ragazze, eh?
Naka si fermò e appiattì il muso a terra, fra le zampe; con le orecchie si coprì gli occhi e pianse.
– No, non farlo!
Obito si inginocchiò e allungò le dita per grattargli il collo. Quando si rimise in piedi, la vicina era ancora lì a fissarlo con occhi indispettiti. Sembrava che volesse scuoiarlo vivo e a Obito venne il dubbio che ne fosse seriamente in grado. Cacciò dallo zaino una bottiglietta d'acqua e si sciacquò le mani, le congiunse e si chinò a chiedere scusa.
In testa aveva l'impellente urgenza di armarsi di carboncino e blocco da disegno, per eseguire un paio di schizzi dal vero. Guardò a destra, guardò a sinistra in cerca di suo padre e si risolse ad arrampicarsi sull'albero più vicino alla casa dei Nohara. Indicò il vetro alla ragazza, nella speranza che aprisse la finestra e gli lasciasse udire la sua voce. Gli occhi scuri la guardavano, quasi tremando, quasi sciogliendosi per la serietà con cui si aggrappava all'immagine di lei. Tuttavia, non ottenne risposta né la vide muoversi, così prese il suo album e un pennarello.
“Sono Uchiha Obito e vivo nella casa accanto alla tua. Piacere di conoscerti!”
Aggiunse un sorriso da una guancia all'altra per risultarle più amichevole; di nuovo, lei non ricambiò il gesto e restò sulle sue. Obito scrisse ancora: “Quello lì sotto è Naka. L'ho chiamato così perché ha la coda mozza e un occhio cieco. Anche così, non deve rendere conto a nessuno, no?”
Iniziava ad avere troppi fogli fra le mani; li rimise nello zaino e scrisse su un altro: “Sai, se non sento una parola piombo nella disperazione di solito… e non è proprio il caso che cada da un albero, giusto?”.
Obito ci rise su, ma gli occhi di Rin si accesero d'ira. Chiuse le tende e sparì per un momento. Poi la finestra si aprì automaticamente e lei riapparve.
– Stupido! Idiota! Vedi di non farti male e tieni quelle mani lontane dal naso!
Lui rimase zitto, stretto al tronco, la bocca spalancata e Naka che trotterellava intorno all'albero.
– Nohara Rin, – disse, infine, senza la foga precedente.
– Tranquilla, non cado, – balbettò Obito per calmarla, – e quello di prima non era… non era… oh, insomma, mi spiace!
La sua faccia assunse un colorito paonazzo e restò immobile quando lei parlò ancora.
– Non dovresti essere a scuola?
– Anche tu, no?
Obito si era addolcito. Gli occhi studiavano il viso di Rin come se la stesse toccando con mano. Carezzava la fronte alta, scendeva sulle guance piene e tonde. Si era chinato in avanti per osservarla meglio. Con una mano si grattò l'orecchio.
– Voglio restare qui a parlare con te. Sarebbe meglio a terra, in realtà.
Gli sembrò che lei esitasse a quelle parole.
– D'accordo, rimango qui, come un koala bisognoso di affetto. In più, sotto c'è Naka che ha deciso di marcare il territorio… è un imperatore nato, sai… – disse, indicando il volpino che tracciava l'albero di urina.
Rin voltò il viso, borbottando qualcosa. Lo avrebbe invitato nel parco, se solo si fosse sentita meglio, ma non voleva essere vista a quel modo.


Il tempo accelerava la sua corsa fra chiacchiere di poco conto e parole più vere. Rin imparò a conoscerlo nei ritagli di un'ora, col viso premuto contro un vetro, talvolta passando di finestra in finestra, perché i suoi capelli corvini spuntassero più in fretta nella via.
Lo vedeva correre verso la sua casa, verso l'albero e sventolare cartelli o agitare le braccia per salutarla. Sentiva di essere il suo centro; e anche lei, chissà da quando, chissà perché, aveva cominciato ad attendere il suo arrivo con una certa ansia, ad anticipare i loro incontri e poi scoprirli più belli di quello che sognava. Eppure, si donava a metà, impaurita dai cambiamenti e dal volgere degli eventi. Gli taceva la sua situazione e nonostante le scuse goffe e il desiderio che gli leggeva in faccia, Obito rimaneva al suo posto e la vegliava senza chiedere altro.
Rin si avvicinava alla finestra di notte, senza timore di essere vista, quando lui dormiva con la luce accesa e Naka gli saltellava attorno, urtando libri e cancelleria, chiazzandolo di china, finché entrambi non erano altro che due macchie di nero nel buio.


– Voglio uscire, – le aveva detto un giorno, a occhi bassi, con le mani che tremavano, – con te.
L'aveva guardata e le sue labbra erano state incapaci di frenare il fremito che le aveva agitate per timore di un rifiuto. Rin strinse la stoffa della tenda, con lo sguardo pieno di lui, e non osò fiatare. Avrebbe voluto chiedergli le sue ragioni e tante altre domande che si erano affollate nel periodo trascorso assieme senza definirsi, senza dire a parole cosa fossero assieme.
C'era un turbine di egoismi, di speranze e di paure nella sua testa. Tra il freno e il desiderio di rischiare, lasciò andare il drappo e lo scostò. Venne avanti per quello che era e non spostò più gli occhi da Obito.
– Non posso, – gli disse.
– O non vuoi? – domandò lui, chinando la testa. Addentava le labbra e non sapeva cosa dirle o come potesse sentirsi in quel momento, – piuttosto, dimmi che sono io a non piac…
– Non è questo!
Obito sollevò il capo e rimase pietrificato dalla fermezza nella voce di Rin. Il cuore era diviso fra l'opportunità della speranza e la chiusura di lei.
– Esci con me, – le ripeté. Le guance di lei si colorarono: frutti maturi, occhi d'estate e un trionfo di vita sul viso.
– Esci con me. Verrò a prenderti domani.
Per la prima volta, pensò Rin, era stato lui a nascondersi nel silenzio e a chiudere la sua finestra.


Sdraiato sul letto, con un ginocchio sollevato, Obito guardava i suoi schizzi. Tanti erano appallottolati o sparsi alla rinfusa per la camera. Aveva disegnato Rin, vestita con un abito bianco, immersa in un prato assolato. Lo sguardo era scuro e rapito dall'erba, prigioniero del vento. In segreto, Obito si odiava per averla desiderata nel suo letto, a gambe intrecciate, col cuore sulla punta delle dita, mentre le scostava una spallina e baciava il suo seno. Si detestava perché amava e non era pronto a rinunciare, a lasciar andare una mano che ancora non aveva tenuto fra le sue. E si odiava per averla sporcata con l'egoismo bruciante di averla, di viverla giorno per giorno. Ebbe paura di se stesso e del disperato impulso di stringerla, che scuoteva le mani e lo dilaniava in tutto lo spirito. Tremò quando si chiese cosa pensasse di lui. “Non è questo”, aveva detto, eppure dalle sue parole era convinto di aver sentito un certo distacco. Coprì gli occhi con l'avambraccio e si disse che non avrebbe lasciato il suo fianco, anche nel caso di un "no", ma non riuscì a fermare le lacrime. Naka guaì e spolverò la coperta, battendo la coda, con la lingua che lappava la guancia del padroncino.


Non sapeva cosa indossare. Da mesi non si preoccupava più di abbinamenti… e adesso qualcuno le aveva rivoluzionato la vita.
Nella stanza gli scatoloni erano impilati l'uno sull'altro: accarezzò i cartoni e li guardò con un peso nel petto. Le ciglia trattennero a stento il pianto. Se non fosse stato per i costi dei suoi trattamenti, la casa…
Guardò le bollette e gli avvisi di pagamento in mora: riempivano il soggiorno di una vergogna da cui non riuscivano a riprendersi. A volte credeva che non essere in salute fosse una colpa, una diversità da pagare con lo scotto di tante rinunce e di spese folli.
La nuova casa di pochi tatami era in legno, vecchia e vicina alla stazione. Avrebbe provato nostalgia a non vedere più Obito dalla finestra…
Voleva ancora diventare medico e uscire e vivere, ma si convinceva che la volontà non fosse sufficiente per ottenere il risultato sperato. Rimase ferma, dietro la porta d'ingresso. Obito era già lì. Non riusciva ancora a credere di avergli svelato il suo segreto e per un attimo aprì la mano e la poggiò sull'uscio. Arrossì, a occhi chiusi, mentre immaginava di carezzargli il petto e di sfiorargli il cuore.
– Rin, – lo sentì chiamare, – aprimi.
Naka abbaiò e strusciò le zampe contro la porta.
– D'accordo, d'accordo, non fare casino. Naka, qui, vuole che mi corregga: aprici!
Rin schiuse la porta lentamente.
– Ciao, – mormorò.
– Sei… beh… bella, – mormorò lui. Aveva un nodo alla gola fastidioso, come quello che gli procuravano le cravatte nei giorni di festa. Naka saltellò sulle punte per sfiorare le dita di Rin.
– Piaci proprio a tutti, tu, – aggiunse Obito, non senza un accenno di gelosia e insicurezza. Muoveva una mano nella tasca della giacca a vento.
– Allora, andiamo?
Le mise Naka sulle gambe e spinse la sedia. Talvolta, si distraeva lungo il percorso e finiva con l'abbassare lo sguardo sulle sue spalle, sulla nuca e si sentiva consumare dal desiderio.
– Quindi, stai per partire? – le chiese.
– Come lo sai?
– Tua madre… lei mi ha parlato del trasloco.
Rin annuì. – All'inizio, abitavamo al piano superiore della villa, nell'appartamento rialzato. Poi, le cose sono cambiate, ma i proprietari non ci hanno lasciato scelta: dovevamo acquistare anche il piano terra. L'abbiamo ristrutturato per me… però, le mie cure costano e…
Si fermò di colpo. Le braccia di Obito le cingevano le spalle e l'avvolgevano fino a scaldarle il petto.
– Diventerò… diventerò un artista migliore per te. E le mie opere varranno qualcosa… così, tu non sarai più triste…
Era una promessa infantile, pensò Rin; lui le baciava i capelli e lei aveva alzato le dita per carezzargli il dorso di una mano. Tremavano entrambi, con la paura di schiantarsi nel volo delle emozioni, nella frenesia di cercarsi e di unirsi.
– Non lascerò che finisca, – le sussurrò, come se potesse sfiorare le paure di Rin, come se riuscisse a leggerle e ad anticiparle.
Obito girò la carrozzina e le mise un foglio spiegazzato fra le mani.
– Tu non devi mollare… il vento, il prato, questo disegno… ti appartengono. E Naka e io… io che non capisco tutto ciò che affronti…
Le dita stringevano le sue spalle.
– Rin, mi mancherà… fingere di dormire per vederti affacciata a quella finestra, per sapere che vuoi vedermi anche tu, ma ho il permesso del vecchio. Posso venire a trovarti: è soltanto a un'ora di treno veloce…

Spezzava le frasi, era disordinato e impulsivo. Rin lo tirò per la giacca e lo baciò d'un fiato. Erano soltanto due ragazzi che si amavano; erano pelle che ardeva al minimo respiro. Bruciavano assieme per un singolo bacio, arrivato in ritardo rispetto ai loro desideri.
E il vento si alzava, schiaffeggiava la sciarpa che dividevano in due, nel mezzo della sera. E il vento urlava di vita, ma non avevano occhi che per le loro labbra e una mano stretta all'altra, e Naka che sonnecchiava fra loro.

  
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