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Autore: vivis_    30/09/2015    5 recensioni
Sentii il suo pollice ridisegnare delicatamente la dolce curva del mio zigomo.
«Perché sorridi?» mi chiese a fior di labbra.
«Prima di venire qui avrei scommesso anche la mia casa sul fatto di essere la persona meno capace di un coinvolgimento emotivo su questa terra. Credevo di possedere una corazza abbastanza rigida ed impermeabile da riuscire a farmi scivolare addosso i sentimenti provenienti dall’esterno. Poi arrivi tu e… guardami: sono qui a sorridere senza motivo al cospetto di due occhi neri illuminati dal chiaro di luna, manca solo Iris dei Goo Goo Dolls in sottofondo e potrei seriamente pensare di essere finita in un film tratto da un romanzo di Nicholas Sparks» spiegai con una punta di autoironia.
Sentii una leggera risata vibrare nel suo petto a contatto con il mio. Quel sorriso. Se anche il mio cervello fosse stato fisicamente in grado di dimenticare, quel sorriso non lo avrei scordato mai.
Genere: Azione, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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The light I wanna save

 
Avete presente quando, in qualsiasi tipo di film o libro in cui ci sia il minimo accenno ad una storia amorosa, arriva la classica frase del tipo: “la soluzione migliore è smettere di usare il cervello e seguire il tuo cuore”. In genere questa particolare tipologia di frase suscita tre tipi di reazioni.
La prima: le copiose lacrime di commozione seguite da gridolini striduli di tredicenni in preda ad una crisi ormonale, illuse che da qualche parte del globo esita un principe alto biondo e con gli occhi azzurri e che questi, un giorno, si presenterà davanti a casa loro in sella al loro bianco destriero, o ancora meglio una Porsche nera scintillante.
La seconda: ragazze che si girano con lo sguardo semi indignato verso i rispettivi fidanzati, trascinati in sala con la forza e che fissano disperati le uscite di sicurezza nella speranza che quel film lagnoso finisca al più presto, assestando loro un sonoro schiaffo sulla spalla sfoderando il classico: “ma tu queste cose non me le dici mai!”
E poi c’è la terza: quella tipica delle ciniche persone dedite alla razionalità come me; una risatina amara con il conseguente commento mentale “tesoro, se il tuo cervello smettesse davvero di funzionare non saresti nemmeno in gradi di pronunciare quelle insulse parole”
Eppure mi trovai a sorprendere me stessa ammettendo l’esistenza di quei momenti.
 
Capitolo I
VIRGINIA
Le mie dita erano convulsamente strette intorno al cellulare mentre sentivo le prime, violente gocce di pioggia grigia schiantarsi contro le enormi vetrate del London Gatwick Airport.
Pioveva.
“Beh, fantastico, me ne andavo da una città piovosa e nebbiosa per andare dove? In una città ancora più piovosa e nebbiosa, ovviamente.” pensai storcendo il naso.
Sentivo la crisi di panico da ritiro bagagli arrivare inesorabile e il fatto che la maggior parte delle persone in quella zona stesse sbraitando inserendo ‘fuck’ e ‘shit’ come intercalare tra le frasi, di certo non mi faceva sentire meglio.
Le valige iniziarono a scorrere lente adagiate sul quel nastro trasportatore che terrorizzava qualsiasi viaggiatore del globo. Nera… gialla… rossa… azzurra!
Ringraziai il cielo di non dovermi far venire un esaurimento nervoso all’ufficio oggetti smarriti.
L’aria iniziava ad essere irrespirabile e le luci grigiastre dei neon fastidiose. Mi diressi verso l’uscita il più velocemente possibile non curandomi troppo dei piedi che stavo barbaramente pestando, mentre attraversavo il terminal con la delicatezza di un pachiderma.
Quando la porta automatica di vetro sì aprì, una ventata di aria fredda iniziò a graffiarmi il viso. Eccomi arrivata nella capitale inglese: Londra. Eccola: grigia, fredda, fantastica come me la ricordavo. Erano passati circa dieci anni dall’ultima volta che ero stata lì, la città natale di mia madre. La mia seconda casa, forse la mia preferita.
Avevo sedici anni l’ultima volta che ci avevo passato le vacanze estive, dopo di che avevamo optato per mete più… estive. Avrei voluto rivisitarla tutta, ogni suo singolo angolo, tutto quello stesso giorno ma la mia visita non era di piacere. Non che non fossi felice di essere lì, tutt’altro, ma il vero motivo della visita non era di certo quello di farmi una passeggiatina rilassante sulle rive del Tamigi.
Sprofondai più che potevo all’interno della mia soffice sciarpa bianca mentre rovistavo nella borsa in cerca dei guanti. Una volta trovati i guanti, li infilai e mi fiondai all’interno del primo taxi disponibile.
«Ha bisogno?» chiese cortesemente l’autista, indicando la grossa valigia che mi portavo appresso. Annuii imbarazzata «grazie» farfugliai.
Il taxista rientrò pesantemente nella vettura più bagnato di un pulcino.
«Dove la porto signorina?» chiese sospirando.
«Numero 9 di Old Pye Street, per favore.» risposi mentre lanciavo un’occhiata disperata ai miei capelli completamente fradici. Il tassista mise in moto ed io portai i miei pensieri altrove, iniziai ad osservare le goccioline di pioggia che sfrecciavano sul finestrino. Feci come quando ero piccola: immaginai che stessero gareggiando.
gocciolina 1 viene superata da gocciolina 2, ma ecco la mia rimonta di gocciolina 1…
 
«Eccoci arrivati, le serve una mano con i bagagli?» la voce rauca dell’autista interruppe la mia avvincente telecronaca mentale.
«Si figuri, faccio da sola» risposi con un finto sorriso, nascondendo la delusione per non essere riuscita a godermi tutta la gara.
Pagai la corsa, presi la mia valigia ed il borsone e mi diressi verso l’esile nero cancello che circondava l’edificio: era un palazzo di cinque piani realizzato con mattoni a vista decorato da qualche piantina temeraria che, nonostante il freddo, penzolava dai vasi sui davanzali. Affilai lo sguardo e feci scorrere l’indice di fianco ai cartellini dei citofoni fino a che non trovai il cognome che mi interessava, suonai.
Sì, da quel giorno averi avuto una coinquilina. Sapevo ben poco di lei, anzi, in realtà quasi nulla, ma considerando la natura temporanea del mio soggiorno e il poco tempo a disposizione per organizzarlo, non avevo avuto il tempo materiale per farmi tanti scrupoli.  L’unica cosa di cui ero a conoscenza erano il suo indirizzo, il suo cognome, ovvero Percy, e il fatto che la sua precedente coinquilina fosse olandese. Pregai tutti i santi del paradiso che non si trattasse di una trentacinquenne disadattata che lasciava mozziconi di sigaretta in giro o chissà che altro.
«Chi è?» chiese una voce squillante anche se leggermente stralunata.
Beh, poteva andare peggio.
«Ehm, sono Virginia, Virginia Sacchi » aspettai qualche secondo «la tua nuova coinquilina.» aggiunsi infine, dopo la prolungata assenza di segnali di vita dall’altro capo del citofono.
«Oh sì, certo cara sali!» la comunicazione venne interrotta dal rumore di qualcosa che cadeva. Ricominciai a pregare.
 
Aprii la porta con cautela tenendo gli occhi semi chiusi, impaurita da quello che avrei potuto trovare.
Li riaprii lentamente, poco per volta ed iniziai ad analizzare il soggiorno: niente mozziconi in giro, un buon inizio, niente bottiglie di Gin vuote, nessuna apparente attività illegale in corso...
Li riaprii e mi resi conto che, contrariamente a qualsiasi mia aspettativa, il soggiorno risplendeva come un cristallo. La moquette non presentava nemmeno la minima traccia di una briciola.
Non male, non male davvero.
Diedi una veloce occhiata al salotto e mi scappò un sorrisetto soddisfatto nel vedere come lo stile minimal e moderno che caratterizzava la stanza mi piacesse. Al centro vi era una tavolo ovale con quattro sedie, decorate con dei cuscinetti bianchi, mentre alla mia immediata sinistra si trovava un piccolo divano ad angolo dello stesso colore.  La tentazione di lanciarmici sopra senza alcun rispetto per la mia femminilità fu davvero difficile da ignorare, ma decisi che sarebbe stato il caso almeno di presentarsi di persona, prima di iniziare a marcare il territorio.
«Ehi, ben arrivata!» una voce vivace interruppe il mio flirt con il divano.
Quando mi voltai , mi trovai davanti una ragazza di corporatura minuta, più bassa di me di diversi centimetri e con una folta chioma di ricci color biondo cenere, tenuta insieme da un frettoloso chignon. Indossava una canottiera blu celeste che le metteva in risalto la pelle di porcellana. Non potei fare a meno di chiedermi il perché di un abbigliamento così misero date le polari temperature esterne, ma il solo fatto che sulla canottiera non ci fosse alcun riferimento a qualche strana realtà occultista riuscì a tranquillizzarmi e fu sufficiente a dissuadermi dal porre ulteriori domande.
«Grazie mille, è un piacere conoscerti di persona, finalmente!» ringraziai allungandole la mano “ed è anche un piacere notare come tu non abbia apparenti dipendenze da strane sostanze illegali” aggiunsi mentalmente.
«Il piacere è tutto mio. Io sono Victoria ma chiamami Vickie, ti prego, evitiamo di dare adito alle manie megalomani di mia madre, nonché alla sua ossessione per la famiglia reale.»
«Il festival del cliché british.» commentai con una leggera risata, una volta constatata la presenza di un buon senso dell’umorismo.
«Non me ne parlare» rispose alzando gli occhi al cielo mentre anche sulle sue labbra faceva capolino un sorriso divertito.
«Comunque io sono Virginia, ma chiamami Vivi. Nemmeno in casa mi chiamano più Virginia.» sorrisi lasciandole la mano.
«Vieni, ti mostro la tua stanza.» disse invitandomi a seguirla con un ampio gesto del braccio.
Afferrai il pesante trolley ed iniziai a trascinarlo nel piccolo corridoio che portava alla zona notte. L’ingombrante bagaglio, unito alla mia totale incapacità di fare qualsiasi cosa senza sembrare un goffo ippopotamo, mi portò a urtare qualsiasi oggetto fosse appoggiato sul pavimento. Uno di questi era una cesta di vimini che conteneva una pila di giornali, in cima alla quale vi era una rivista che catturò la mia attenzione, in quanto si interessava della mia area di competenza.
«Leggi riviste di cronaca nera?» chiesi sinceramente incuriosita.
«Oh no, almeno non di solito» rise tra sé, evidentemente non doveva proprio essere il suo argomento di conversazione preferito. «ma dato il tuo imminente arrivo, ho pensato di non farmi cogliere completamente impreparata.» aggiunse infine con un sorriso gentile.
«Wow, che pensiero carino.» dissi, colta totalmente impreparata, mentre una punta di senso di colpa si istillò nella mia mente.
Io avevo scelto di stare a contatto con gli orrori del genere umano.  Avevo scelto di addentrarmi nei bui meandri della mente criminale. Avevo scelto di fare la criminologa, e lo avevo fatto per una buona causa. Certo, avevo scelto di fare ciò per un’ottima causa: volevo salvare le vite degli innocenti, volevo rendere il futuro il meno pericoloso possibile per quella parte di genere umano, quella buona,quella che voleva solo vivere. Eppure il solo pensiero che qualcuno si fosse affacciato a quell’oscuro mondo non di sua spontanea volontà ma per farmi, in qualche modo, un favore mi lasciò in gola l’amaro sapore di un disagio difficile da spiegare.
«Comunque tranquilla» la rassicurai «non ti illustrerò i miei casi.» sorrisi senza troppo entusiasmo.
Mi chinai a raccogliere la rivista, dando una veloce letta ai titoli in copertina, questione di deformazione professionale.
«Ah, c’è anche un articolo su di te.»
«Su di me?!» chiesi incredula puntando l’indice verso di me.






Ciao People! 
Innanzi tutto voglio ringraziare tutti coloro che mi hanno incoraggiato a pubblicare questa storia (per cui se non vi piace potete tranquillamente perndervela con loro!), ringrazio James Blunt, i Muse e i Beatles che con le loro canzoni mi accompagnano nella stesura e mi trascinano sull'onda dell'ispirazione, ma sopratutto voglio ringraziare in anticipo chi deciderà di tuffarsi con me in questa nuova avventura. 
Ma formalità a parte, spero davvero che questa mia... cosuccia possa piacervi, sarò pronta ad accogliere qualsiasi critica costruttiva (siate clementi vi prego, ahah). 
Ora ho davvero finito di blaterare, buona lettura a tutti.
Un mega bacio,
la vostra S

 
   
 
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