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Autore: Angie Mars Halen    01/10/2015    1 recensioni
Dopo anni trascorsi senza mai vedersi, Nikki e un’amica di vecchia data, Sydney, si rincontrano durante il periodo più difficile e turbolento per i Mötley Crüe. Questa amicizia ritrovata, però, non è sconvolgente quanto la scoperta che la ragazza vive da sola con suo figlio Francis, la cui storia risveglia in Nikki ricordi tutt’altro che piacevoli. In seguito a ciò il bassista comincia ad avvertire un legame tra loro che desidera scoprire e rinforzare in nome della sua infanzia vissuta fra spostamenti e affetti instabili. Si ritrova così a riscoprire sentimenti che aveva sempre sottovalutato e che ora vorrebbe conquistare, ma la sua peggiore abitudine è sempre pronta a trascinarlo nel buio più totale e a rendere vani i suoi sforzi.
[1987]
[Pubblicazione momentaneamente sospesa]
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mick Mars, Nikki Sixx, Nuovo personaggio, Tommy Lee, Vince Neil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I CLOSE MY EYES AND DREAM OF BETTER DAYS







1
NIKKI





West Hollywood, CA, luglio 1980

Il Rainbow, come ogni venerdì sera, traboccava di persone come un fiume in piena. Le luci soffuse si riflettevano sulla pelle rosso cremisi delle poltrone, sui bicchieri dalle mille sfaccettature e sugli abiti scintillanti dei clienti, creando un effetto psichedelico amplificato dall’erba e dal Jack. Nonostante la musica impazzasse, la gente non si dava per vinta e continuava a parlare ad alta voce come se stesse cercando di sovrastare il meraviglioso e scatenato pezzo dei Van Halen che stavano trasmettendo, in attesa dell’arrivo della band che avrebbe suonato.

Insieme alle voci e agli schiamazzi, dai tavoli si alzavano nuvole di fumo che portavano con loro gli effluvi di lacca per capelli, cibo e cocktail di ogni genere, molti dei quali erano stati inventati sul momento, costringendo qualcuno a vomitare senza pietà sul pavimento.

Io, con l’umidità che mi si appiccicava alle braccia e sembrava insinuarsi persino sotto i vestiti attillati che portavo, ero seduto a uno dei tavoli dell’isola centrale, quelli riservati alle personalità più rispettate del Sunset Strip, come i London. Lizzie, il nostro chitarrista, nonché uno dei miei pochi veri amici, era seduto accanto a me, intento a ridacchiare con una ragazza che aveva comodamente preso posto sulle sue ginocchia. Agitava da tutte le parti la sigaretta che teneva con strafottenza tra le dita, mettendo in evidenza le unghie estremamente corte, come si addice a un chitarrista, ma laccate di nero.

“Qualcuno non aveva ordinato da bere?” saltò su il nostro batterista, sporgendosi in avanti e approfittandone per dare un’occhiata da più vicino alla scollatura della mora che sghignazzava in compagnia di Lizzie, il quale prese un attimo di pausa e lo informò che poco prima avevo chiesto una bottiglia intera da condividere tutti insieme, da bravi compagni di band.

“Ci stanno mettendo troppo,” continuò il chitarrista, poi si liberò del peso della ragazza scansandosela da addosso e sollevò una mano, schioccando le dita. “Qui abbiamo sete, cazzo!”

Mentre ero impegnato a ridere per l’espressione che aveva assunto nel vano tentativo di essere considerato anche durante una serata di massima affluenza come quella, sentii una mano appoggiarsi con delicatezza sulla mia spalla e percepii una presenza amichevole.

“Di’ a Lizzie di portare pazienza ancora un po’,” mi invitò una voce gentile. “Stasera c’è davvero tanta gente.”

Mi voltai e mi ritrovai di fronte il viso gentile di Sydney West, che correva da un tavolo all’altro dalle otto e mezza e che cercava di accontentare prima noi solo per fare un piacere a un amico, ovvero a me.

Ci eravamo conosciuti circa un anno prima, sull’Hollywood Boulevard. Lei era seduta su uno sgabello pieghevole di legno e dall’aspetto scomodo, con un largo cappello di paglia appoggiato sui capelli tagliati come quelli di Marylin Monroe e dello stesso brillante biondo platino. Osservava con occhio critico un’elegante turista sui cinquant’anni che, seduta su una sedia da regista, attendeva che la ragazzina che aveva di fronte completasse il suo ritratto al carboncino. Stavo facendo un giro tra i negozi di seconda mano che spuntavano come funghi in spazi angusti al piano terra degli edifici che costeggiavano il viale e, quando scorsi il suo cavalletto che svettava tra la folla che correva lungo la Walk of Fame, mi avvicinai per guardare cosa stesse disegnando. Rimasi immobile dietro di lei per qualche secondo, a bocca aperta, suscitando ilarità nell’elegante turista. Non avevo mai visto un ritratto più fedele di quello e sentii una forza provenire da dentro di me che mi esortava a dirglielo perché lei doveva assolutamente saperlo. Quando sentì la mia opinione, la ragazza mi ringraziò velocemente e mi domandò scherzosamente se anch’io volessi un ritratto. I suoi grandi occhi chiari contornati dall’ombretto celeste mi fissavano in attesa di una risposta e, dato che nelle mie tasche c’erano solo due monete da venticinque centesimi, le chiesi se per caso volesse disegnare un logo per una band heavy metal. Ovviamente i London non ne avevano bisogno, ma dato che ormai mi aveva dato appuntamento in un locale su Melrose Avenue per il pomeriggio seguente, dove avremmo discusso riguardo lo stile che preferivo, non potevo certo tirarmi indietro. Mi presentai al suo tavolo senza sapere cosa dire ma senza togliermi dalla faccia un sorriso spavaldo con il quale intendevo celare l’imbarazzo che quello sguardo radioso mi faceva provare. Le dissi che non avevamo più bisogno di un logo e le riferii la prima giustificazione poco logica e plausibile che mi venne in mente e che lei non contestò, forse perché aveva capito che, in fin dei conti, non mi interessava poi così tanto di quel disegno. Fortunatamente non se la prese. Finimmo per restare in quel pub per un paio d’ore, durante le quali scoprii che si chiamava Sydney, che si era trasferita a Los Angeles da sei settimane, che era originaria del Nevada, e che adorava disegnare, dipingere e la fotografia. Il suo sogno era, infatti, aprire uno studio di sua proprietà in cui far prosperare tutte le sue passioni artistiche che, ora che aveva cambiato città, non sapeva con chi condividere se non con i turisti che visitavano Hollywood, rimanendo immobile sul marciapiede di marmo nero che trasudava i raggi bollenti del sole della California.

Mi fu sufficiente tornarmi a presentare nello stesso posto in cui l’avevo vista la prima volta perché accettasse di tornare a prendere una birra in mia compagnia. Mi resi conto per la seconda volta quanto fosse piacevole parlare con lei senza essere criticati o giudicati, e non ne avrei certo aspettata una terza per chiederle dove avrei potuto trovarla a parte che all’altezza della stella di Marylin Monroe, per la quale sembrava proprio avere un’ossessione. Ebbi così modo di vedere degli altri disegni che teneva stipati in un monolocale di venticinque metri quadrati, tutto invaso da barattoli, tubetti, carta sporca di pittura e cataste di riviste. Quel disordine non aveva nulla da invidiare a quello di casa mia o a quello che un indomani avrebbe regnato nella Mötley House, però non aveva nulla di insano né di squallido: trapelava di colori, luce e creatività.

Adesso, dopo parecchi mesi, mi recavo ancora in quel monolocale e, come possono testimoniare le numerose tele che lo popolavano e che sembravano spiare ogni mia mossa, non avevo ancora avuto il coraggio di offrirle più di un abbraccio. Lizzie e gli altri avevano il loro bel da dire, con tutte quelle battute stupide da ventenni arrapati – anche perché, adesso che Sydney aveva iniziato a frequentare un belloccio che aveva incontrato nello studio fotografico in cui era stata assunta per assistere il proprietario, il tempo a mia disposizione per rimuginare qualcosa da dirle che fosse efficace e allo stesso tempo poco impegnativo da riferire era finito. Sarò anche stato il fottuto bassista dei London che mandava a fuoco il palco, faceva risse con chi osava contraddirlo e faceva piazza pulita di tutti gli alcolici che trovava, ma non ritenevo per niente semplice o spontaneo comunicare con una persona come Sydney. In lei non c’era nulla di falso né di caricato e, soprattutto, riusciva a leggere dentro le persone a cui voleva bene senza sbagliare quasi mai, il che mi faceva sentire indifeso.

“Ehi, Sixx, sveglia!” esclamò Lizzie dopo avermi rifilato uno scappellotto, il quale tornò immancabilmente indietro. “Smettila di rimuginare, hai tutto il giorno per farlo. Adesso pensa a divertirti e... ehi, guarda quella tipa laggiù!”

Seguii con lo sguardo la direzione indicata dal suo indice e intravidi una rossa che parlava animatamente con un trio di ragazzi. L’avrei anche studiata più a fondo se Sydney non mi si fosse parata davanti, la fronte sudata per le corse che stava facendo tra i tavoli e il vassoio vuoto sottobraccio.

“Mi dispiace, ma abbiamo finito il Jack,” disse, mordicchiandosi il labbro inferiore. “Questa sera c’è davvero tantissima gente. C’è qualcos’altro che posso portarvi?”

“Scegli tu per noi,” buttai lì come risposta, concentrato a osservare il colorito insolito del suo viso. Le feci poi cenno di avvicinarsi e accostò l’orecchio a me per ascoltare ciò che avevo da dirle. “Se quel coglione del tuo capo ti fa correre troppo, ci penso io a dirgli due paroline gentili.”

Lei tornò alla sua altezza e mi guardò di sbieco. “Corro così tutte le sere.”

“Non hai una bella cera,” le riferii senza troppi giri di parole.

Sydney roteò gli occhi. “In effetti è da stamattina che non mi sento molto in forma, ma posso resistere.”

Annuii mentre tornava al lavoro ma non le scollai lo sguardo da addosso, sempre più determinato a cercare il suo principale per invitarlo a piantarla di affidarle tutti quei tavoli da servire e di far muovere il culo a quei due tipi che gracchiavano dietro il bancone della cassa.

Bevvi un sorso di birra dal boccale di Lizzie, che era troppo impegnato a tenere banco con gli altri per accorgersene, e osservai Sydney passare in mezzo alla gente con il vassoio carico di bicchieri pieni. A un certo punto interruppe la sua folle corsa come se le suole delle decolleté di vernice nera si fossero incollate al pavimento e io mi sporsi dal tavolo per osservare meglio la scena. Il vassoio che portava sospeso sul palmo di una mano cominciò a inclinarsi lentamente, i bicchieri scivolarono giù e si infransero per terra, ricoprendo le piastrelle scure di mille pezzi di vetro. Sydney, che non sembrava essersi nemmeno resa conto del disastro che aveva fatto, ondeggiò appena prima di raggiungere la pozza di alcol, che inzuppò presto la camicetta rosa che indossava. Senza pensarci due volte, abbandonai il mio tavolo e mi precipitai da lei, che tentava di ripararsi dalle luci colorate mentre tastava il pavimento alla ricerca di una mano amica che la aiutasse.

“Te l’avevo detto che avresti dovuto smettere di correre così,” la rimproverai, ma lei mi fece cenno di non arrabbiarmi. Gli occhi erano lucidi ma non erano arrossati, né le pupille avevano assunto una dilatazione sospetta, per cui esclusi che avesse bevuto o che avesse preso qualcosa di strano.

“Voglio andare a casa,” mormorò mentre i litri di alcol che aveva rovesciato continuavano a infradiciarle i capelli e i vestiti.

Una sua collega, anche lei con il fiatone per la fretta e il caldo, le accarezzò il capo per rassicurarla e la informò che avevano chiamato un’ambulanza, ma questo non servì a rassicurarla.

“Ho detto che voglio andare a casa,” esclamò rivolta verso di me, stavolta con le lacrime agli occhi. “Voglio tornare da John.”

“Non avevi detto che stasera il coglione aveva troppe cose da fare?” le domandai.

“Cristo, Nikki, smettila di chiamarlo così,” mi rimproverò, sempre più stanca. “È il mio fidanzato, abbi rispetto.”

Appunto.

Restava comunque il fatto che il famigerato John non si trovava a casa, e i paramedici dell’ambulanza la raccolsero in fretta e furia per uscire il prima possibile dal Rainbow. Prima che mi chiudessero in faccia le porte bianche con un’enorme croce rossa dipinta al centro, provai a corrompere quei tre tizi dalle divise candide sperando che mi ammettessero sull'ambulanza ma, dal momento che il regolamento lo vietava severamente e Sydney lo sapeva, si raccomandò che la andassi a trovare a casa sua tre giorni dopo. Feci appena in tempo a confermare prima che il mezzo si allontanasse, facendo lo slalom tra le auto e le motociclette che avevano invaso il Sunset Strip e schivando i pedoni.

Per quanto riguardava me, mi limitai a sospirare e cacciai le mani nelle tasche del chiodo, dopodiché girai sui tacchi e tornai all’interno del locale, dove mi attendevano gli altri, e ripresi a fare baldoria con loro. Non ero molto preoccupato per Sydney. Non era la prima volta che mi capitava di vedere qualcuno svenire per il caldo, gli sforzi o qualche bicchiere di troppo. Piuttosto mi interessava andare a trovarla in nome di un’amicizia mai nominata esplicitamente che, se solo non fossi stato un ragazzino sperduto che vagava per le strade di Los Angeles da quando aveva diciassette anni, con la speranza e il timore di trovare ciò che non aveva mai avuto, sarebbe potuto diventare qualcosa di più – ma John era stato più veloce di me e, come si usa dire, chi primo arriva, meglio alloggia.

Il pomeriggio di tre giorni dopo, tuttavia, sebbene non fossi in forma come avrei voluto, mi alzai a fatica dal letto, mi pulii la faccia dal trucco sbavato della sera precedente e mi misi in cammino alla volta della palazzina in cui abitava Sydney. Varcai la soglia del piccolo cortile asfaltato e salii le scale esterne che conducevano al corridoio, sul quale si affacciavano quattro porte bianche coperte di graffi e scalfitture. Appoggiai una spalla allo stipite e, quando premetti il pulsante del campanello, mi accorsi che non suonava, allora cominciai a bussare con insistenza. I colpi che infierivo alla porta bianca attirarono l’attenzione del ragazzo che viveva nell’appartamento dalla parte opposta del corridoio dai muri celesti. Attirò timidamente la mia attenzione, torcendo le mani all’altezza del petto.

“Amico, è inutile che bussi,” mi informò, aggiustandosi il colletto del maglioncino di cotone giallo pallido. “Sydney West è andata via ieri sera.”

Tirai su col naso. “Okay. Allora mi siederò qui per terra e che aspetterò che torni.”

Il ragazzetto, che aveva tutta l’aria di essere lo studente di qualche college nei paraggi, tornò a sollevare un dito. “Non hai capito, amico. Sydney è tornata ieri sera insieme al suo fidanzato, ha raccattato tutte le sue cose, ha riconsegnato le chiavi alla padrona di casa, che abita di sotto, e se n’è andata.”

o fissai con gli occhi spalancati e le braccia penzoloni lungo il corpo, con una tale confusione in testa che mi costrinse a prendermi qualche secondo prima di rivolgergli una domanda.

“Sai dov’è andata?”

Alzò le spalle. “Ha detto che un’urgenza in famiglia l’ha costretta a tornare a Las Vegas. John, il suo fidanzato, mi ha detto che sarebbe partito con lei per restarle vicino. Mi dispiace non saperti dire di più, amico.”

Annuii come un automa mentre indietreggiavo. “Okay. Va bene. Ci vediamo, amico.”

E guizzai verso la mia auto scassata.

Tornai a passare davanti al suo appartamento per diverse volte per un mese intero, finché un giorno non vidi due bambini che giocavano sul balcone e capii che si trattava dei nuovi inquilini. Provai a estorcere qualche informazione alle sue colleghe del Rainbow, ma sapevano quanto sapeva il ragazzo che le abitava davanti. Mi recai anche a casa di John, infischiandomene del fatto che il nostro ultimo incontro fosse sfociato in una rissa e, dopo aver riconosciuto la sua auto parcheggiata davanti al cancello per due volte, a partire dalla terza non la vidi più e anche il suo appartamento fu presto occupato da persone nuove.

Lizzie diceva che erano scappati insieme perché lui aveva avuto dei problemi con la legge. Sparò una sfilza di ragioni per giustificare la loro fuga, una più assurda e stupida dell’altra, e andò avanti finché il tempo non cancellò il volto di Sydney dalle nostre memorie – fino a quando non voltavo più il capo ogni volta in cui passavo davanti a casa sua, non la cercavo distrattamente tra la folla del Rainbow o non desideravo poterla chiamare per chiederle se voleva andare da qualche parte a dipingere. Presto dimenticai ogni suo disegno, il suo tono di voce, le sue mani sempre sporche di pittura e il suo numero di telefono.

Dimenticare un amico non era mai stato difficile per uno che avevo passato l’infanzia a cambiare scuola e compagni ogni anno. Quelli che se ne andavano erano destinati a essere rimpiazzati, ma Sydney non era facile da sostituire. Hollywood era una fogna colma di ratti che pensavano solo a procurarsi il cibo a scapito degli altri. Non avrei mai trovato un’altra persona buona e amichevole come Syd. Forse, pensai, uno dei motivi per cui aveva lasciato Los Angeles era perché aveva capito che non sarebbe sopravvissuta a lungo.

Qualunque fosse la ragione della sua partenza, comunque, io avevo altro di cui preoccuparmi, specialmente adesso che avevo lasciato i London e avevo incontrato un tipo strano, tutto ossa e capelli, con un sorriso da moccioso stampato in faccia, e che diceva di essere bravo a suonare la batteria.




N.D’.A.: Buongiorno a tutti!
Come promesso, ritorno con una nuova storia. Stavolta si tratta di una trama un po’ diversa da quelle che ho scritto fino ad ora, ovvero ho deciso di introdurre una nuova categoria di personaggi, se così posso chiamare i bambini. Spero possiate apprezzare la scelta.
Questo primo capitolo funge un po’ da introduzione, per cui a partire dal prossimo sarete catapultati nel fatidico 1987, e da lì la vicenda comincerà a evolversi, non senza guai o personaggi invadenti che metteranno – volontariamente o meno – i bastoni tra le ruote ai protagonisti.
Prima di andarmene, vorrei precisare che ho tratto spunto da The Dirt e da The Heroin Diaries di Nikki Sixx. Ho cercato, per quanto sia possibile in una storia di fantasia, di attenermi alla realtà e di non sfociare nell’assurdo o nell’improbabile anche se, essendo una fanfiction, entrambe le cose possono accadere. Ma l’importante, dico sempre, è essere coerenti. Nel caso non lo fossi stata, così come nel caso in cui qualcuno dovesse notare imprecisioni o errori grammaticali o di qualunque altro tipo, vi chiedo di farmelo notare, in modo che possa correggerli, rendendo così la lettura più piacevole.
Con questo scritto non intendo criticare, ridicolizzare o sminuire i Mötley Crüe. Il mio intento è, infatti, quello di rendere onore alla loro grandezza artistica, e al fatto che loro stessi abbiano riconosciuto e ammesso gli errori commessi in passato.
Il titolo del racconto è tratto dalla canzone Misunderstood, ma tanto lo sapete già!
Grazie per aver letto questo primo capitolo e per esservi soffermati su queste righe che ho ritenuto necessario pubblicare. ♥
Ci si rilegge mercoledì, giorno in cui, almeno per diverso tempo, mi impegnerò a pubblicare un nuovo capitolo.
Un abbraccio,

Angie Mars



Disclaimer: I Mötley Crüe non mi appartengono e tutti gli altri personaggi sono di pura fantasia. Ovviamente nessuno mi paga per scrivere questa storia.


   
 
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