Titolo:
Fragile
Fandom:
Death Note
Personaggi/Pairing:
Mello, Matt,
Near; MattMello,
MattNear
Genere: Angst,
Drammatico
Avvertimenti: AU,
What if?
Rating: Giallo
Situazione:
Morte di uno
dei
personaggi
Introduzione: Il
fatto era che a Matt serviva qualcuno che di tanto in tanto gli
risistemasse la testa sulle spalle, allo stesso modo di come venivano
manovrate le sue relazioni, gestite le uscite e ripiegati i vestiti
nell'armadio. Aveva sentito il bruciante bisogno di rendere la sua
vita meno patetica e di formarlo al crudele mondo del futuro che
sbirciavano dalla finestra delle loro camere. Gli era stato incollato
nei turbolenti anni dell'adolescenza e tra una scopata e l'altra
sulla scrivania di Watari, l'autolesionismo dei suoi preziosi
quindici anni, la compilation dei videogames preferiti di Matt
giocata e rigiocata mille volte, una manciata di stagioni si erano
susseguite sulle loro teste chinate a tirare le prime strisce di
eroina.
F r a g i l e
All
I want is nothing more to hear you knocking at my door,
'cause if
I could see your face once more I could die a happy man I'm
sure.
When you said your last goodbye I died a little bit inside
I
lay in tears in bed all night, alone without you by my side
But
if you loved me, why'd you leave me?
[Kodaline – All I want]
«Matt.»
Matt sputò il dentifricio nel lavandino, asciugandosi la bocca e posando lo spazzolino nel bicchiere, sul mobile di ceramica bianca. La finestra era aperta per permettere al vapore della doccia di dissiparsi, le tende ondeggiavano appena nel silenzio di una vergine alba uggiosa. Il pavimento era un tappeto di abiti sporchi, sullo specchio appannato solo l'impronta di una mano a ritagliare un'imprecisa striscia di riflesso. Matt non gli rispose, e in boxer ritornò nella loro camera da letto con l'andatura stanca e un po' ricurva di sempre. Non ricordava quante volte gli avesse detto di lasciare pulito il lavello e l'asciugamano ordinato; il caos si stava mangiando quell'appartamento.
«Matt.»
Un tempo gli sarebbe bastato uno schiocco di dita, un accenno minimo a qualcosa, un mugolio; era sempre stato lui a tenere strette tra le mani le redini di quella relazione e le redini di Matt. L'appartamento era stato per una questione di design, il controllo sulle sue interazioni sociali per un problema di incolumità. Lo psichiatra dell'orfanotrofio l'aveva definito come un manipolatore ossessivo, ma dal proprio canto poteva dirsi solo una persona molto accorta e attenta ai dettagli. Il fatto era che a Matt serviva qualcuno che di tanto in tanto gli risistemasse la testa sulle spalle, allo stesso modo di come venivano manovrate le sue relazioni, gestite le uscite e ripiegati i vestiti nell'armadio. Aveva sentito il bruciante bisogno di rendere la sua vita meno patetica e di formarlo al crudele mondo del futuro che sbirciavano dalla finestra delle loro camere. Gli era stato incollato nei turbolenti anni dell'adolescenza e tra una scopata e l'altra sulla scrivania di Watari, l'autolesionismo dei suoi preziosi quindici anni, la compilation dei videogames preferiti di Matt giocata e rigiocata mille volte, una manciata di stagioni si erano susseguite sulle loro teste chinate a tirare le prime strisce di eroina.
«Mail.»
C'erano
degli scatoloni ammucchiati in un angolo del corridoio, pieni delle
sue poche cose utili. Aveva detto di volersene andare e per la prima
volta stava cercando di approcciarsi a lui in modo gentile. La
propria coscienza poteva dirsi immacolata, perché non
ricordava di
aver mai agito per il peggio nei suoi confronti, ma inspiegabilmente
di quel delitto si sentiva un pochino in colpa anche lui. E Matt
sembrava stranamente più sensibile del solito,
perché era una
miniera di emozioni ermeticamente celate, ma raramente riusciva a
trovare la maniera giusta per esternarle tutte. Gli aveva detto di
volerlo lasciare, ma sapeva che non lo intendeva veramente. A rigor
di logica quasi non poteva, perché una vita senza Mello era
una vita
inconcepibile per Matt. E ciò che più gli premeva
era farglielo
capire, dato il fatto che diceva sempre cose senza senso quando si
arrabbiava, anche se non si arrabbiava mai.
Accostò
piano la porta della loro camera da letto, incrociando le braccia e
sistemandosi una ciocca di capelli biondo platino dietro l'orecchio.
«Dobbiamo parlare.»
In
nome della gratitudine che Matt avrebbe dovuto provare nei suoi
confronti, era stato abbastanza difficile accettare l'idea che si
fosse scopato un altro dentro al loro letto mentre lui si rovinava le
mani allo Starbucks della metropolitana nelle ore di punta. E Matt
non aveva ammesso di rimpiangere nulla quando a parole e schiaffi
diventava il doppio dei suoi cinquantacinque chili scarsi, e gli
vomitava addosso tutta l'amarezza provata in quel momento. Se n'era
andato sbattendo la porta, seguendo il suo piccolo amante minorenne,
con la divisa della scuola più prestigiosa dell'intera
città; dopo
il «Ti lascio, Mello.» mormorato di spalle a
coronare un'esistenza
di fallimenti, non era più certo di ricordare qualcosa.
«Mail,
per favore. Ho detto che ti ho perdonato.»
Provò
a muovere piccoli passi nella sua direzione, ma Matt gli diede le
spalle incominciando a vestirsi. Sospirò, mordendosi un
angolo delle
labbra sottili. Non voleva proprio nemmeno guardarlo, gli suggerivano
i suoi gesti, tanto meno rivolgergli la parola. Sulle guance e il
collo aveva ancora i graffi che gli aveva lasciato e sul sopracciglio
sinistro troneggiavano piccoli rettangoli sottili di nastro medico
adesivo. Lo osservò tirarsi i boxer in vita e passare le
dita sotto
ai bordi nel sistemarli, poi con un palmo si aggiustò il
cazzo costipato nella lycra nera.
«Matt...»
Mormorò,
con voce roca e appena venata di desiderio. Urtò per sbaglio
il
mobiletto sul quale erano impilati i suoi manuali di ingegneria
informatica mai aperti, che si riversarono sul pavimento. Entrambi si
voltarono quasi simultaneamente a contemplare quel piccolo massacro
straziante di una persona irrealizzata e Matt sbuffò della
sua
irriverenza, chiudendo la finestra e tirando le tende.
Lasciò per
terra i cocci insignificanti di quello che una volta avrebbe voluto
essere, voltando loro le spalle. Gli passò di fianco,
degnandolo
della prima, stanca e irritata occhiata della giornata.
Uscì
dalla stanza, aggiustandosi il cappuccio della felpa sulle spalle,
afferrando pochi oggetti personali e ficcandoseli nelle tasche
anteriori dei jeans sdruciti. Per evitare gli venisse sbattuta la
porta in faccia, dovette affrettarsi ad azzerare quanto più
possibile la distanza tra di loro. Provò a riportarlo
all'ordine,
sporgendosi ad agguantarlo per un braccio, ma Matt sembrava un po' il
cadavere di se stesso e i fantasmi non potevano essere bloccati.
Il
campanello suonò nell'esatto momento in cui l'orologio
segnò le sei
di mattina. Un Matt per niente sorpreso andò ad aprire
pacatamente
la porta, facendosi da parte per lasciare entrare in casa la faccia
sfrontata del suo amante quindicenne.
«Buongiorno, Mail.»
Lo salutò senza azzardare nient'altro, con un tono tanto rigido e freddo da sembrare quasi quello austero e professionale dello psichiatra dell'orfanotrofio che aveva cercato di dissuadere Matt dall'andare a convivere con lui. Bloccandosi nel centro del corridoio, si chiese perché tutti quanti provavano sempre a sottrargli ciò che amava da quando ancora aveva come unico amico il camioncino della cesta della sala giochi. Si portò una mano alla fronte, scostando lo sguardo da quella patetica scenetta emotiva di un Matt avvinghiato al corpo troppo piccolo di un albino qualunque, che non sarebbe mai stato in grado di riempire il vuoto lasciato da lui.
«Come stai, oggi?»
Brevi
flash di ciò che era avvenuto dopo presero a bombardargli
dolorosamente il cervello. Si tappò le orecchie per non
sentire e
strinse alcune ciocche di capelli tra le fessura delle dita. Matt
rise e disse qualcosa di stupido al bambino che aveva appena chiamato
Near. Near di rimando gli carezzò lentamente la zazzera
rossa e gli
rispose altrettanto stupidamente.
Urlò,
cadendo sulle ginocchia, prostrandosi involontariamente a quella
relazione nociva e deleteria. Chiamò il suo nome, gli
pregò di
smetterla, una fila di insulti si susseguirono uno dietro l'altro a
proposito di quanto fosse stato perso se non avesse deciso di
prendere in mano la sua vita per lui. Matt guardò Near negli
occhi,
poi lo baciò.
«Faremo
tardi, ci conviene muoverci.»
Avrebbe
voluto urlargli di non andare, perché lì non ci
sarebbe stato
nessuno se non il vecchio Watari e non ne valeva la pena. Matt prese
delicatamente una mano pallida di Near dentro la propria e rivolse
un'ultima occhiata al corridoio di quell'appartamento e a lui,
accovacciato sul pavimento, con le guance rigate dalle lacrime e
nella sua espressione più infantile del bimbo che non era
mai stato.
L'unica fonte di luce proveniente dalla porta andava assottigliandosi
sul suo viso man mano che Matt spingeva l'infisso contro il telaio.
«Non
chiudere la porta, per favore, ho paura del buio...»
Aveva
perso le redini. E la porta si chiuse.
I suicidi vanno all'inferno.