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Autore: Ortensia_    04/10/2015    2 recensioni
Nel 1950, a pochi anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, il Giappone versa in condizioni pietose.
A seguito dell'esecuzione capitale dell'imperatore Hirohito e dei pesantissimi debiti di guerra imposti dagli Alleati, l'Impero del Sol Levante giace come un inerme burattino fra le mani delle grandi potenze, di conseguenza povertà e criminalità aumentano a vista d'occhio.
A questo proposito, nella città di Kyoto, si stanno susseguendo già da qualche mese delitti efferati; pare, però, che il loro esecutore sia un assassino impeccabile, sfuggente, evanescente come uno spirito in una storia di fantasmi.
[ Mistero; dark; angst; splatter (leggero); distopia; ucronia ]
«Signor Makishima, posso chiederle qual è il suo colore preferito?»
«Il bianco.»
«Perché il bianco?»
«Perché il colore del sangue vi attecchisce splendidamente.»

Prima classificata al contest "Thrill Me! - Horror Contest Multifandom" indetto da En~Dark~Ciel sul forum di EFP
Genere: Angst, Dark, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Akane Tsunemori, Nobuchika Ginoza, Shogo Makishima, Sorpresa
Note: AU | Avvertimenti: Violenza
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Anatomia criminale





L'assassino che stavano cercando aveva debuttato nel più macabro dei modi. A conti fatti, il primo crimine che gli era stato attribuito risultava essere il più efferato degli ultimi tempi.
La vittima era stata rinvenuta alle prime luci dell'alba di un freddo giorno di novembre, nella camera di un piccolo albergo a nord della città: si trattava di una trentenne al quinto mese di gravidanza.
Kyouko Shinohara, – quello era il nome conferito al volto sfigurato che Akane ricordava nei minimi dettagli –, aveva i polsi legati alla testata del letto da spesse corde di iuta che ne divoravano la pelle, il ventre lacerato da uno squarcio che si estendeva dallo stomaco fino all'inguine e così preciso da tagliare a metà l'ombelico, profonde ferite su entrambi i seni, le cosce e le palpebre, lingua e orecchie, invece, erano state mozzate e, data la loro assenza sulla scena del crimine, comprensibilmente asportate, infine, a strozzare il collo sottile e nodoso, il cordone ombelicale, che era tutto ciò che restava di suo figlio.
Ulteriori indagini avevano confermato la mancanza di segni di violenza sessuale e l'asportazione dell'utero. Il bambino era stato strappato dal ventre materno e, anche in assenza di prove certe, era plausibile pensare fosse morto nel giro di pochi minuti.
Le due vittime successive, vite falciate in un battito di ciglia nel mese di gennaio, una rinvenuta nei pressi di un calzolaio in fallimento e l'altra in un vicolo cieco, a pochi passi da un crocchio di cassonetti, presentavano entrambe tagli profondi su addome, seni e cosce, ma la ferita mortale non correva dallo stomaco all'inguine come per il caso precedente: si trattava, piuttosto, di un taglio netto sulla gola, sottile, eppure così funesto e distruttivo da far fuoriuscire un quantitativo tale di sangue da rendere l'aria quasi irrespirabile. Alla prima erano state amputate e asportate le dita dei piedi, alla seconda quelle delle mani.
Confrontando attentamente gli omicidi, la polizia di Kyoto era giunta alla conclusione che il modus operandi con cui erano stati eseguiti fosse molto simile e che, di conseguenza, ci fossero buone probabilità che il loro esecutore fosse lo stesso, e non tanto perché si era tenuto conto di alcune analogie – l'utilizzo di un'arma bianca o l'asportazione di alcune parti del corpo –, ma perché gli agenti avevano riservato un occhio di riguardo a ciò che mancava, come ad esempio i segni di violenza sessuale, le bruciature e l'interesse fisico che altrimenti lo avrebbe indotto, come assassini del calibro di Jack lo Squartatore, ad accanirsi sui genitali delle vittime.
Qualcuno, per evitare di elencare i nomi delle vittime quando si parlava di lui, lo aveva battezzato – semplicemente e altrettanto sensatamente – il Collezionista.
Quando pensava alle tre vittime, Akane aveva la sensazione che le macabre immagini precipitassero in un abisso oscuro e, con un tonfo sordo, si ingolfassero nella dimensione dell'inconscio, per poi riaffiorare in qualsiasi momento – quando sedeva alla scrivania e sfogliava il fascicolo di un caso irrisolto, quando pranzava o perfino quando si trovava sulla tazza del wc.
A preoccuparla era un dettaglio che pareva fosse stato percepito e inteso soltanto da lei, un particolare che inizialmente le era parso banale, una suggestione irrazionale, ma che con il tempo aveva assunto sfumature sempre più inquietanti, tanto che, ogni volta che rinvenivano una vittima – come era accaduto poche ore prima –, il sospetto e l'apprensione crescevano a tal punto che qualcosa cominciava a contorcersi dentro di lei e la costringeva a sollevarsi un poco in punta di piedi e a incrinare le labbra in una smorfia, come se stesse cercando di reprimere un singulto di dolore o addirittura un grido.
Chinò appena il viso, le dita esili fra i capelli corti e freddi come ciuffi d'erba bagnati dalla rugiada invernale; osservò la superficie liscia della scrivania di noce, le sfumature concentriche più scure e più chiare del legno, poi abbassò le palpebre e si concentrò sul delicato raggio di sole che, insinuandosi oltre le veneziane semiabbassate, trafiggeva gli spazi angusti fra le ciglia e creava una bizzarra coltre d'argento e scintille di colore tenue sui suoi occhi.
La quarta vittima, trovata riversa in una pozza di sangue sulle sponde del fiume Kamo, presentava ferite da arma bianca sui seni e sulle cosce come le precedenti, ma rispetto agli altri tre casi si poteva riscontrare una novità: la cavità addominale era stata completamente svuotata, più che di una donna si trattava di un involucro di carne vuoto incluso di gambe e braccia bianche e fredde, di un viso estraneo che, come imbalsamato, mostrava la smorfia di dolore della malcapitata. Quella che un tempo poteva chiamarsi donna, era divenuta una corolla di petali appassiti attorno a un capolino divorato, i vertici spenti di una stella dal grembo freddo.
Come le precedenti, anche la quarta vittima presentava i requisiti che Akane riteneva fondamentali per appartenere alla cerchia delle candidate ideali del Collezionista: donna, occhi e capelli castani. Pareva bastassero queste tre caratteristiche per rischiare automaticamente di essere brutalmente assassinate.
Akane modulò la respirazione: sospirare in presenza di un teleschermo poteva essere fatale.
Conclusasi la Seconda guerra mondiale, nell'agosto del 1945, gli Alleati avevano fatto in modo che Hirohito venisse giustiziato al cospetto di tutta la popolazione giapponese; subito dopo erano divenuti estremamente restrittivi, ad esempio era stato istituito un coprifuoco per il quale non si poteva rincasare dopo le ventidue, – imposizione che, per fortuna, non era stata estesa alla pubblica sicurezza –, chi voleva dormire a casa di altri necessitava di un permesso speciale e loro, i ricchi – ma sarebbe stato più corretto definirli i meno poveri – venivano costantemente monitorati da un teleschermo, sia a casa, sia sul posto di lavoro.
Mostrare qualsiasi segno di insoddisfazione di fronte a un teleschermo, così come denigrare gli Alleati o pronunciare la parola dittatura, era cosa proibita e poteva costare la vita.
In quel momento, chi la stava osservando al di là del teleschermo – sempre che qualcuno vi fosse per davvero – poteva contemplarne la schiena curva, le pieghe e i drappeggi che, disposti a ventaglio, tracciavano trame vaghe e morbide sulla camicetta nera, la nuca pallida; del resto poteva sentire ciò che diceva, ma non ciò che pensava, e questo la rincuorava sinceramente.
Inquieta, afferrò il libro che si trovava in cima a una pila di fascicoli, un romanzo di mera fantasia, unico genere tollerato dalla dispotica supervisione degli Alleati, come se eliminando saggi storici, economici, di attualità o romanzi di critica sociale sperassero di inebetire i lettori.
Sfogliò le prime pagine senza fare realmente attenzione agli opachi caratteri kanji che ne colmavano fittamente il candore: quel romanzo nemmeno le piaceva, lo aveva trovato banale e a tratti perfino raffazzonato, tuttavia, pur di osteggiare la noia, aveva pensato di sistemarlo nel suo studio assieme ad altri libri di quel genere. Erano così pochi, i romanzi disponibili in Giappone, che quello lo aveva letto ben due volte, eppure lo aveva fatto con una disattenzione tale da non riuscire a ricordare neppure il nome del protagonista e a malapena qualche episodio dell'intreccio principale.
Quando bussarono alla porta del suo ufficio, Akane si limitò a riporre con lentezza il libro e a sollevare appena il viso, dando il permesso di entrare con tono neutro – senza dubbio il tipo di modulazione preferito dai teleschermi.
«Analizzando la profondità dei tagli, Karanomori ritiene che l'autore dell'ultimo assassinio potrebbe essere il Collezionista,» l'agente Ginoza restò immobile sulla soglia, le dita della mano sinistra strette saldamente alla porta «inoltre, ispettore Tsunemori...»
Sentendolo pronunciare il suo cognome e rendendosi conto che la stava fissando con una certa insistenza, Akane cercò di soffocare un singulto, ma deglutendo nel momento dell'inspirazione finì per lasciarsi scappare un singhiozzo: quando Ginoza si rivolgeva a lei in quel modo e se ne restava pietrificato sulla porta significava che aveva qualcosa di importante da dirle, qualcosa che i teleschermi non avevano diritto di conoscere.
Akane si alzò e lo raggiunse con calma: l'idea, più o meno, era quella di indurre chi li stava osservando a pensare che si stesse semplicemente unendo al collega per raggiungere il distributore automatico più vicino e bere un caffè scadente.
«C'è qualche problema?» queste furono le parole che Akane pronunciò non appena Ginoza chiuse la porta alle loro spalle: all'improvviso non c'era più alcun segno di neutralità nella sua voce, anzi si poteva percepire una certa tensione, una nota fuori posto, come una crepa che deformi il riflesso in uno specchio.
«Si tratta dell'agente Funahara.»
Come se temesse ancora l'austera supervisione del teleschermo, Akane restò in silenzio e si sforzò di moderare il respiro; Ginoza, dal canto suo, interpretò le labbra cucite della collega come un segnale di eccessiva attenzione e di comprensibile paura, per cui attese qualche istante prima di riprendere a parlare.
«Non si è ancora presentata a lavoro e pare che la linea telefonica di casa sua sia isolata.»
«Isolata?» Akane sussurrò, poi ruotò il polso sinistro e osservò a labbra serrate il quadrante tondo dell'orologio.
«Il turno di Funahara comincia alle dieci e un quarto» Ginoza soggiunse con la voce lievemente incrinata dall'apprensione.
«E sono già le dieci e quaranta» Akane continuò a osservare il quadrante dell'orologio, contemplando il movimento meccanico e repentino della lancetta dei secondi.
«Anche se avesse lasciato casa cinque o dieci minuti più tardi rispetto al solito dovrebbe essere già qui.»
Akane, gli occhi ancora fissi sulle lancette, ascoltò attentamente la voce di Ginoza, eppure non fu in grado di decifrare le sue parole: riusciva a pensare soltanto che erano le dieci e quarantuno e Funahara non era ancora giunta al Dipartimento.
«Signor Ginoza...» le labbra di Akane furono scosse da un fremito: non ci impiegò molto per realizzare che il sesso, gli occhi e i capelli di Funahara la rendevano una potenziale vittima per il Collezionista «mandiamo una pattuglia a casa sua.»
«Tsunemori, non è il caso di creare allarmismi.»
«Signor Ginoza, la prego!» Akane fu sul punto di congiungere le mani davanti al viso e sollevarsi in punta di piedi.
«Ho un brutto presentimento» continuò poi, a fior di labbra e con la voce incrinata da un leggero fremito.
Ginoza stette in silenzio per qualche istante, senza mai staccarle gli occhi di dosso, infine abbassò le palpebre e sfiatò in segno di resa.


Quando Akane giunse sul pianerottolo angusto che avvolgeva il perimetro squadrato della casa, i capelli corti sferzati da persistenti e vigorosi sbuffi di vento né troppo caldo né troppo freddo, si rese conto di aver impiegato almeno il doppio del tempo di cui solitamente abbisognava per salire le scale e che le gambe le tremavano ancora.
Il fremito che aveva percosso il suo corpo dal momento in cui la scientifica aveva confermato che il sangue presente nell'appartamento di Funahara apparteneva proprio all'amica non si era ancora esaurito. Come per un elastico teso di cui viene pizzicata un'estremità, pareva che quel fremito avesse cominciato a scuoterle testa e spalle con violenza e poi, ridotto a vibrazione, fosse sceso fino ai polsi e alla punta delle dita, al busto e alle gambe, tanto che era facile indovinare fosse finalmente sul punto di cessare.
La chiazza ematica rilevata sul tappeto del salotto e la striscia di sangue lungo il corridoio facevano pensare che l'attentatore avesse colpito Funahara con un oggetto contundente e poi l'avesse trascinata fino alla porta, ma siccome il corpo non era stato rinvenuto si trattava soltanto di una mera supposizione.
Akane sfiorò la cassetta postale con la punta delle dita, ma non appena notò una sorta di escrescenza piccola e quadrata su di essa le ginocchia cedettero e i polpastrelli arrancarono in uno stridio silenzioso sulla superficie fredda e liscia dello sportello.
Siccome il sole era tramontato da alcune ore e il veleno della notte aveva già colmato il cielo d'oscurità, Akane non riuscì a capire immediatamente che cosa fosse l'escrescenza – che di fatto risultava un tutt'uno con la forma spigolosa della cassetta postale.
Schiuse le labbra e trasse una grande boccata d'aria, poi privò la cassetta postale dell'escrescenza che, tastando con le mani e osservando più da vicino, capì essere un minuscolo cofanetto di velluto nero – o Bordeaux?
Durante la manciata di secondi che impiegò per aprire la cassetta postale ed estrarne una busta bianca, Akane trattenne il respiro.
Si insinuò in fretta nel piccolo appartamento, suggestionata da quel cofanetto sospetto che stringeva fra le mani, dunque accese la luce, attraversò diagonalmente la grossa stanza in cui si trovavano letto e cucinino e si abbarbicò all'anfratto di parete posto fra il teleschermo e la nicchia che conduceva al bagno: in quell'esatto punto della casa non era visibile ad altri occhi se non a quelli della propria coscienza.
Akane guardò il retro della busta, ma trovandolo vuoto schiuse le labbra e accennò un sospiro che, a causa del teleschermo, dovette soffocare immediatamente – dopotutto non potevano vederla, ma potevano sentirla –; ne osservò il fronte, ma si ritrovò davanti agli occhi una distesa bianca e anonima e, complice un cattivo presagio, desiderò profondamente di non star stringendo quel pezzo di carta fra le mani.
Akane percepiva qualcosa di pericoloso in quel sottile strato di velluto che le stuzzicava il palmo della mano destra, e quando scollò il lembo di chiusura della busta le parve di udire un sussurro: era presumibile che il piccolo cofanetto inquietante fosse l'allegato di quella busta fantasma, e quel pensiero la terrorizzava.



❝ Basterà che si concluda il giorno, e tutto si saprà.❞




Akane aggrottò la fronte e lesse la frase una seconda volta: era quasi certa che quelle parole, scritte sottilmente in sinuosi caratteri kanji, fossero attribuibili a William Shakespeare e, più precisamente, alla tragedia intitolata Giulio Cesare.
Non c'era possibilità che qualcuno avesse recapitato la lettera all'indirizzo sbagliato, era ovvio che quelle parole fossero indirizzate a lei e che, mancando sia il timbro postale sia quello dell'ispezione militare, il mittente l'avesse consegnata personalmente.
Akane deglutì, cercando di rimediare alla secchezza che pareva aver arso improvvisamente la sua gola, poi ripiegò la lettera, accartocciò la busta e le sistemò alla bell'e meglio nella tasca del tailleur.
Rafforzò la stretta sul cofanetto e accarezzò il velluto nero – ora era sicura del colore – con i polpastrelli di entrambi i pollici, poi udì uno scatto netto e conciso e si augurò che il suono registrato dal teleschermo non fosse così chiaro come le era sembrato, tuttavia non aprì immediatamente l'oggetto della sua angoscia e restò ad osservarlo in silenzio: il suo sguardo era quello arrendevole di un agnello rinchiuso nella gabbia di un leone, sapeva che una volta sollevato il coperchio non sarebbe più potuta tornare indietro.
Aperto il cofanetto, sembrò che l'estremità dell'elastico fosse stata pizzicata una seconda volta: Akane cadde in ginocchio sul pavimento freddo, un grido strozzato in gola.
Adagiò il cofanetto sul pavimento, in un punto cieco all'occhio cibernetico del teleschermo, poi, come se avesse temuto che l'urlo incastrato nell'abisso desertico della sua gola si sprigionasse con prepotenza, premette entrambe le mani sulle labbra.
Nell'istante in cui il teleschermo gracchiò e stridette, Akane si sforzò di reprimere un conato di vomito e, seppur con fatica, si rimise in piedi.
Quando volse la propria attenzione al teleschermo, schiuse le labbra in un gemito sommesso: sull'interfaccia campeggiava una foto sgranata nella quale era appena distinguibile una sagoma di donna su fondo scuro.
Perché il teleschermo stava trasmettendo qualcosa di simile? E perché proprio in quel momento? Possibile che qualcuno di esterno alle forze alleate fosse riuscito a prenderne il controllo?
Guardando meglio la foto, Akane si rese conto che quella donna poteva essere Funahara, ma appena giunta a quella conclusione l'interfaccia del teleschermo mutò ancora e mostrò un indirizzo, infine si spense con un suono molto simile allo stridere di unghie su una lavagna.


Quando Akane aprì gli occhi, ebbe l'impressione che si fosse appena verificata un'esplosione d'aria sulle sue labbra.
La sensazione di intorpidimento fisico e mentale, nonché l'impressione di immediata asfissia, erano molto simili a ciò che aveva provato tempo addietro in piscina, quando suo padre aveva lasciato i suoi polsi di bambina e lei era letteralmente colata a picco verso il tremulo fondo di piastrelle azzurre. Aveva incamerato così tanta acqua, quel giorno, che non aveva voluto saperne più nulla della piscina e non aveva mai imparato a nuotare.
Era quasi certa, anche se in un simile frangente si trattava di una considerazione alquanto surreale, che fosse stata in apnea per molto tempo e che ora fosse riemersa per riprendere fiato.
Restò stesa a terra ancora per qualche istante, istupidita dal suo stesso respiro che, se ascoltato con maggior attenzione, pareva più che altro il fioco sibilo di un animale morente, poi, non appena riuscì a mettere a fuoco ciò che la circondava, si mise a sedere.
Akane affondò i denti nel labbro inferiore e si portò una mano alla testa, massaggiando la zona occipitale con un il palmo: in quel punto esatto continuavano a susseguirsi fitte più o meno intense e, considerando la semioscurità in cui era immerso l'angusto corridoio in cui si trovava, era facile supporre che qualcuno, dopo averla colpita, avesse trascinato il suo corpo inerme e incosciente in quel luogo.
Riuscì a localizzare un leggero gonfiore a destra, fra la zona occipitale e l'osso parietale, tuttavia non si angosciò, anzi il suo interesse parve esaurirsi dal momento in cui individuò la fonte della sua sofferenza.
Si alzò, le braccia tese in cerca di equilibrio e le gambe intorpidite; chiuse gli occhi per un paio di secondi, riaprendoli soltanto quando fu certa che il capogiro fosse passato, quindi restò a osservare per un po' il grosso lucchetto e la catena che brillavano a qualche metro da lei: era chiusa dentro ed era facile intuire che, scegliendo di intraprendere la strada opposta alla porta, avrebbe incontrato il custode della chiave, l'aguzzino della sua libertà.
La porta serrata era una sollecitazione a muoversi, un austero invito a procedere.
L'assenza di rumori e suoni sia all'interno che all'esterno negava ad Akane qualsiasi possibilità di carpire indizi su dove si trovasse, per tanto si poteva abbozzare un'infinità di ipotesi: per evitare di attirare l'attenzione, ad esempio, il suo aguzzino aveva scelto un luogo ubicato in città, magari vicino ad un supermercato o a un ufficio postale, facendo attenzione, però, che fosse insonorizzato, oppure aveva optato direttamente per un ambiente isolato, lontano dal complesso urbano.
Presto, procedendo lungo l'angusto corridoio, Akane si sorprese nel notare che la scarsa luminosità del luogo restava immutata: aveva pensato che la semioscurità iniziale fosse dovuta a qualche microscopico spiraglio nella porta e che, avanzando di qualche metro, sarebbe stata inghiottita dal buio che colmava la soffocante profondità dell'androne, ma anche dopo aver percorso una ventina di metri continuava a vedere discretamente ciò che la circondava – non che fosse cosa entusiasmante, visto che si trovava chiusa fra due pareti di pietra; in verità, avendo la sensazione che qualcuno alle sue spalle le stesse illuminando il cammino con una fiammella, era piuttosto inquieta.
All'improvviso, qualcosa interruppe bruscamente la linearità del percorso: Akane avvertì immediatamente un'irregolarità sotto il suo piede sinistro e vi fu un rumore breve e distinto, un'eco lontana nell'oscurità sembrò stordirla per qualche istante, tuttavia avanzò con uno scatto fulmineo e riuscì a scansarsi pochi secondi prima che un blocco d'acciaio formato da una moltitudine di spuntoni si abbattesse su di lei e la infilzasse: era chiaro, ormai, che quello era un gioco mortale; lei era il topo all'inizio del labirinto, e se le trappole al suo interno non sarebbero state sufficienti ad ucciderla, giunta alla fine avrebbe trovato il gatto.
Schiuse le labbra e prese una grande boccata d'aria, affondò le dita fra i capelli, finché i polpastrelli non aderirono alla cute, dunque guardò di fronte a sé: di lì a un paio di passi non si sarebbe più trovata fra due pareti di pietra, bensì di spuntoni acuminati. Non era da escludere che il suo aguzzino la stesse osservando e fosse pronto ad attivare il meccanismo che avrebbe fatto avvicinare i blocchi metallici gli uni agli altri, tramutando così il cupo androne in una pressa gigante, tuttavia Akane sapeva di non avere altra scelta, non c'era modo di aggirare quella trappola mortale.
Akane si tolse le scarpe e saggiò il terreno con i piedi: era sorprendentemente liscio, levigato così similmente ad una parete a strapiombo sul mare da sembrarle, almeno per un istante, bagnato e scivoloso; eppure era asciutto, perfettamente agevole.
Alla fine del corridoio mortale, ardeva una luce.
Guardò dietro di sé, poi schiuse le labbra e, ingorda, incamerò un grande quantitativo d'aria sollevando il diaframma in uno spasmo, infine rafforzò la stretta delle dita attorno alle scarpe e cominciò a correre.
Corse più veloce che mai, la bocca spalancata perché l'aria entrasse nel suo corpo gorgogliando furiosa nella gola ostruita dalla paura e perché ne uscisse sotto forma di singulto, i muscoli delle gambe tesi, poi contratti, intorpiditi e doloranti a causa dei continui stiramenti; le palpebre avevano ceduto all'impatto violento con l'aria pungente ed erano calate sugli occhi, drappi di pelle distesi sulle bocche oscure di pozzi ignoti.
All'improvviso, Akane si fermò: niente si era mosso, tutto taceva. Se osservate da un occhio meno vigile e giudicate da una mente meno angosciata, le due file di spuntoni che rivestivano i muri sembravano assolvere esclusivamente una funzione decorativa.
Fece un giro su se stessa, poi deglutì nel vano tentativo di sopprimere le vigorose pulsazioni della carotide e chiuse gli occhi per un istante, infine avanzò di un passo e compì l'errore.
Akane non poté evitare di cacciare un urlo: il terreno levigato contro il quale aderivano le piante dei piedi si era spalancato come la bocca vorace di una chimera, sotto di lei si era plasmato il vuoto e il suo corpo, risucchiato dalla forza di gravità, era sprofondato inevitabilmente, adesso sospeso nell'ignoto, le dita faticosamente aggrappate alla superficie liscia di un blocco di pavimento rimasto integro. Di nuovo, la roccia fredda le apparve estremamente bagnata e scivolosa, facilmente sfaldabile.
Akane scalciò, contrasse i bicipiti e gli addominali nel disperato tentativo di sfuggire al vuoto ed emise un suono gutturale a causa della fatica a cui stava sottoponendo i propri muscoli. All'improvviso, si rese conto che i blocchi metallici avevano cominciato a muoversi gli uni verso gli altri e che, se non fosse riuscita ad attraversare il corridoio, sarebbe morta schiacciata, dunque aumentò la forza nelle braccia e, tenace, riuscì a risollevarsi.
Quando si alzò in piedi digrignò i denti e trattenne un gemito: i muscoli delle cosce dolevano, i polpacci e i bicipiti pulsavano, inoltre, di fronte a lei, si delineava un pavimento irregolare e crivellato, dove si alternavano spazi di pietra scivolosa e crepacci bui.
Akane incespicò, il suo incedere tremante e sbilanciato – non avendo altri appigli se non gli spuntoni metallici che adesso parevano muoversi con maggiore velocità – divenne sempre più frettoloso e confusionario, tanto che giunta alla fine del corridoio si lasciò cadere pesantemente sulle ginocchia e diede modo alle ultime sporgenze di divorare un lembo della gonna scura del tailleur.
Restò per qualche istante con le ginocchia e i palmi delle mani aderenti al pavimento, il capo chino, la bocca spalancata: il battito irregolare del cuore le toglieva il respiro.
«Questo mondo è il teatro perfetto dove giocare a fare la guerra e a sopravvivere: non trova, signorina Tsunemori?»
Akane spalancò gli occhi e, sollevato il viso, rispose a quel sibilo con un sospiro tremante: l'uomo che si stagliava di fronte a lei era divorato a sinistra dalla luce giallastra proveniente da una stanza attigua, a destra dall'oscurità dell'ombra; il gioco di chiaroscuri ne esaltava i lineamenti fini e la pelle di morto, gli occhi di serpente.
Quando l'uomo si voltò, Akane portò la mano destra alla fondina, sussultando appena la scoprì vuota; dopo alcuni istanti, destabilizzata e nervosa, seguì il suo aguzzino e varcò la soglia della stanza da cui proveniva una luce poco più intensa di quella che colmava il corridoio.
«È lei, vero?» la coscia sinistra pulsava e pareva fosse sul punto di andare a fuoco – uno degli spuntoni metallici doveva averle provocato una lacerazione poco più sopra del ginocchio –, la stanza era spoglia, ornata solo di una sedia e di grosse ampolle piene di formalina, in alcune delle quali erano chiaramente distinguibili parti anatomiche, ma ad Akane non importava, esigeva semplicemente conoscere la verità. «Lei è il Collezionista.»
L'uomo la guardò per qualche istante, le labbra fini increspate in un sorriso sottile, poi estrasse dalla tasca dei pantaloni quello che pareva un piccolo libro malamente rilegato e privo di copertina, le cui pagine, quindi, risultavano spiegazzate e usurate.
«Makishima Shougo.»
Akane restò in silenzio: la confessione del suo nome celava il solenne giuramento che mai le avrebbe permesso di uscire viva da quel luogo, eppure tutto ciò che riuscì a pensare concretamente, per più di qualche secondo, fu che suonava meravigliosamente bene.
«”La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza”» Makishima sorreggeva il libro spalancato con la mano sinistra, ma quelle parole le aveva pronunciate volgendo lo sguardo al di là delle pagine e soffermandolo su di lei.
«Che cos'è?» ad Akane venne naturale domandare spiegazioni su quella citazione sconosciuta e tanto sinistra.
«Probabilmente lei non lo conosce,» Akane avvertì una punta di sarcasmo nella voce di Makishima e pensò che quella citazione dovesse appartenere a un romanzo compreso nella triste moltitudine di scritti di cui, in Giappone, non era permessa la vendita «si tratta di 1984, di George Orwell.»
«Orwell?» Akane mormorò a fior di labbra. «Ho letto qualcosa di suo, in passato.»
«Prima della guerra» Makishima la corresse con una rapida stoccata, poi riprese. «Sa come si potrebbe definire un mondo che è l'esatto opposto di ciò che dovrebbe essere?»
Akane non riuscì a comprendere il motivo di quella domanda e perché Makishima, dopo aver giocato con la sua vita, stesse cercando di instaurare un dialogo, tuttavia decise di affrontare la conversazione.
«Il termine giusto potrebbe essere distopico
«Non pensa che questo aggettivo rispecchi perfettamente la nostra società?» Makishima la incalzò. «Un romanzo come 1984 è bandito perché, enfatizzando la nostra condizione attuale, caldeggia la verità al cospetto del mondo intero. Ha visto cosa vendono nelle librerie? Vogliono inebetirci, ingrassarci come bestie da macello: siamo pecore, e temono che un giorno alzeremo la testa, perciò tutto è ignoto, tutto è proibito.»
«Ed è per questo che lei uccide le persone? Per sgominare il proibito
Makishima si voltò e Akane lo osservò stagliarsi di fronte alla schiera di ampolle, il macabro altarino delle sue conquiste.
«La vita è labile, e quando è la società stessa a stroncarla avviene la repressione della libertà. Rubandoci il futuro, ci tramutano in bestie» Makishima si voltò e sorrise. «Un uomo divenuto bestia, che porta in seno la rabbia e la sete di vendetta, è l'unico in grado di opporsi al Sistema, ed è per questo che io uccido. Vede, signorina Tsunemori, io colleziono qualcosa di molto più prezioso degli organi vitali: colleziono il futuro delle persone.»
Akane spalancò gli occhi, un fremito le attraversò le labbra.
«Lei non ha il diritto di...» pensò a Funahara e non riuscì a dire altro.
«L'ho osservata a lungo e sono certo che avrà notato i miei criteri selettivi: lei, ad esempio, è la candidata perfetta.»
Akane si morse il labbro inferiore in uno spasmo di rabbia, un misto di rassegnazione e disperazione negli occhi: dopo Funahara, Makishima si sarebbe impossessato anche del suo futuro.


Il caso fortuito aveva voluto che Akane scordasse un fascicolo di documenti importanti in ufficio e che Ginoza le telefonasse verso le ventidue e, ancora, alle ventidue e trenta e una decina di minuti prima delle ventitré. Che Akane non fosse a casa alle ventidue, visto che aveva terminato il turno alle ventuno, era piuttosto insolito, ma Ginoza aveva cercato – e trovato – una e più spiegazioni plausibili, tuttavia, trascorsa un'ora in silenziosa attesa, non era più riuscito a mantenersi distaccato come soleva e aveva deciso di recarsi a casa dell'ispettore Tsunemori con altri due agenti.
Adesso taceva e osservava la notte, contemplava la volta celeste disseminata di piccole luci bianche e ardenti. La luna era un sorriso sghembo e luminoso, pareva quello di un folle che si fosse riempito la bocca di lucciole.
Ginoza attendeva qualcosa che sapeva non sarebbe mai arrivato: Akane era scomparsa, divorata dalle fredde fauci del crepuscolo, e a casa sua restavano soltanto il teleschermo rotto, un cofanetto di velluto nero e un orecchio.
Akane doveva aver pensato che quell'orecchio fosse di Funahara, tuttavia, a giudicare dal suo stato, era probabile che fosse stato conservato per diverso tempo nella formalina e che, di conseguenza, non appartenesse alla loro collega, scomparsa recentemente. Anche se lo avrebbero confermato soltanto i test della scientifica, Ginoza era certo che quell'orecchio appartenesse alla prima vittima del Collezionista e che fosse stato utilizzato come esca per trarre in inganno Akane.
A pensarci bene non sapevano nulla di certo su Funahara, perciò non era da escludere che fosse ancora viva.


«Signor Makishima, posso chiederle qual è il suo colore preferito?»
«Il bianco.»
«Perché il bianco?»
«Perché il colore del sangue vi attecchisce splendidamente.»




Akane aprì gli occhi e scoprì che nulla era cambiato: uno spazio rischiarato da una debole luce artificiale e delimitato da quattro mastodontiche mura di pietra, l'altarino macabro di ampolle verdastre addossato a una di queste.
Il dolore alla testa, fra la zona occipitale e l'osso parietale, era rinnovato – e maggiore, a tratti così forte da spingerla a serrare tenacemente gli occhi e trattenere il respiro –; una corda spessa le stringeva i polsi e le caviglie, ancorandola alla sedia, – a questo proposito le tornò in mente la prima vittima che avevano rinvenuto e fu costretta a deglutire per reprimere un conato di vomito.
«Come dicevo: la vita è labile» Akane guardò Makishima: lo aveva sognato? In lei riecheggiava ancora nitidamente il dialogo sul colore bianco, ma era certa che prima di quel breve scambio di battute ve ne fosse stato un altro molto più intenso e arzigogolato, solo non riusciva a ricordarlo.
Cercò di muovere mani e piedi, ma senza risultati.
«Sa che Orwell è morto lo scorso gennaio? Morto a soli quarantasei anni per il cedimento dell'arteria polmonare: una fine tristemente meschina.»
Le parole di Makishima non trovarono risposta: ostinatamente, Akane aveva cominciato a contrarre e distendere sia le dita dei piedi che quelle delle mani, nell'ingenua speranza di rendere lasca la dolorosa oppressione delle corde.
Makishima estrasse un orologio da tasca e lo osservò a lungo, così che Akane avesse modo di notare la forma morbida e ovale, il dorso dorato su cui era quasi certa fosse incisa una lettera dell'alfabeto latino.
«Sono le ventitré e quarantanove,» Makishima sistemò l'orologio nella tasca dei pantaloni «abbiamo ancora un po' di tempo.»
Prima ancora che Akane potesse interrogarsi sul significato di quelle parole, una fitta lancinante alla testa le negò il pensiero per almeno una decina di secondi e, una volta lenita, la lasciò così disorientata e inebetita da impedirle di parlare: che avessero a che fare con la citazione del Giulio Cesare che aveva trovato nella busta? Non ne era realmente sicura.
«Signorina Tsunemori, ha mai sentito parlare della kuchisake-onna?»
Akane guardò il suo aguzzino: quella domanda inaspettata aveva insinuato in lei – e subitamente scatenato – una forte angoscia; inoltre, seppure le corde le stringessero soltanto i polsi e le caviglie, cominciava a sentirsi soffocare.
«La donna dalla bocca spaccata» quando rispose alla domanda si rese conto di avere il fiatone, tempie e fronte erano imperlate di sudore, tanto che alcuni ciuffi castani avevano cominciato ad incollarsi fastidiosamente alla pelle.
«Riesce a immaginare quali saranno le conseguenze?»
Ammantata dalla luce artificiale, la lama del rasoio emise un lampo; Akane spalancò gli occhi e cominciò a dimenarsi.
Essendo un appassionato di leggende metropolitane, suo nonno le aveva parlato spesso della kuchisake-onna e lei non poteva negare di esserne rimasta profondamente turbata, tanto che perfino in quel momento, quando immaginò una donna con la bocca tagliata ferma all'angolo di una strada, immersa nel buio della notte, con gli occhi grandi e vitrei e le gengive rosse esposte come quelle di un morto cui le labbra siano state divorate dai vermi, fu colta da una nausea così intensa e insopportabile che quasi non si mise a strillare.
La lama del rasoio scintillò di nuovo, più vicina ai suoi occhi; Makishima le afferrò il viso con una mano e Akane rabbrividì al tocco freddo delle sue dita sulla propria guancia destra.
Urlò quando la lama lacerò il lembo di pelle poco più sotto l'orecchio sinistro e scese fino all'angolo della bocca, allora il grido divenne un gorgoglio: il sangue precipitava copioso nella gola e la soffocava, traboccava e, sospinto dagli spasmi della lingua, sormontava l'ostacolo dei denti rossi e cuciva trame bizzarre sul mento.
«Uccido una persona per rendere bestia una seconda» Makishima parlò con estrema calma, mentre affondava la lama del rasoio sotto l'orecchio destro di Akane e delineava con maestria lo stesso taglio netto che poco prima aveva praticato sulla guancia opposta.
«Sa chi, dopo la sua morte, diventerà bestia?»
Il gusto nauseabondo del sangue si era mescolato con quello salato delle lacrime: Akane piangeva, la bocca spalancata, deformata, un rantolio gutturale come risposta al quesito di Makishima.
«Credo che lei lo sappia.»
Akane, infatti, lo sapeva: non era necessario che Makishima facesse il nome di Ginoza.
Makishima si scostò all'improvviso e Akane ebbe l'ingenua presunzione di pensare, anche se per un solo istante, che tutto fosse finito.
«Blaise Pascal diceva: “Poche amicizie sopravvivrebbero, se ciascuno sapesse ciò che il suo amico dice di lui in sua assenza, benché parli sinceramente e senza passioni”.»
L'eco di un passo si accodò alle parole di Makishima; Akane, il ventre teso, le ciglia dolorosamente incollate dalle lacrime, tremò.
«La psicologia per conoscere il cervello, l'anatomia per conoscere il corpo: chiunque cerca di comprendere il prossimo, ma anche la mente umana, come la vita, è labile.»
Makishima continuò a parlare, ma ciò non impedì ad Akane di avvertire altri passi – ora più rapidi, più distinti –; chiuse gli occhi e inspirò faticosamente dalle narici.
«Come si può pretendere di elevare una mente così labile ai sentimenti più puri e agli atteggiamenti più moraleggianti? E, allo stesso tempo, come si può credere di poter reprimere, in una mente che è malvagia di natura, emozioni come la rabbia, la frustrazione e la gelosia? La società li reputa sentimenti negativi, ma la definizione corretta è impulsi umani. Impulso umano è, ad esempio, la frustrazione che un ispettore declassato ad agente potrebbe provare nei confronti della propria collega.»
Le ultime parole di Makishima la scossero profondamente, tanto che, al riecheggiare di un altro passo, nuove lacrime sgorgarono dai suoi occhi e le attraversarono gli zigomi, insinuandosi lì dove la carne era lacerata e pregna di sangue: Akane aveva capito tutto. Avrebbe urlato, se solo avesse potuto.
«La mezzanotte è scoccata.»
Prima ancora di riuscire a vederla, Akane avvertì la fredda pressione della canna di una pistola sulla fronte.
«Siamo tutti soli a questo mondo, signorina Tsunemori.»
Akane chiuse gli occhi e ascoltò le parole di Makishima, il timbro languido e mortale della sua voce che quasi la rincuorava, l'annichiliva come un veleno, poi sollevò le palpebre e contemplò il viso rilassato di Yuki Funahara, appena prima che questa premesse il grilletto.





L'angolino psicotico dell'autrice latente:

Premettendo che questa shot è stata conclusa circa un mese fa, ho fatto la preziosa e ho deciso di pubblicarla soltanto adesso (in verità ho passato un mese a leggerla e correggerla- e francamente la terrei ancora per un paio di settimane, ma così facendo, probabilmente, finirei per recitarla a memoria e non mi sembra il caso). Come vedete, la fanfiction partecipa a questo contest Thrill Me! - Horror Contest Multifandom
e io ho scelto il prompt “Collezionisti particolari”. Ora, mi rendo conto che il prompt non è affatto centrale, piuttosto è stato meramente utilizzato come punto di partenza e ha assunto un ruolo più che altro simbolico, ma mi auguro vada bene lo stesso.
Per il resto, inserisco questo breve angolino perché vorrei fare qualche precisazione:
- Non so se la shot possa essere considerata anche “thriller”, visto che le trappole mortali appartengono a questo genere, perciò mi sono limitata a segnalare il mistero e il dark (più che altro dipendenti dal ruolo giocato dal personaggio di Funahara), che sono i due aspetti preponderanti;
- Si parla di distopia, cioè il genere preferito di Makishima, e vi si è proiettati; a questo proposito, i teleschermi sono un ovvio riferimento a 1984 di George Orwell, così come il clima di dispotismo (in questo caso esercitato dalle forze alleate sul Giappone);
- Il timbro dell'ispezione militare (che è assente sulla busta ricevuta da Akane) è una mia invenzione che si ricollega al clima distopico e autoritario (in poche parole, la posta è controllata dalle forze alleate e per circolare deve ottenere la loro approvazione con questo timbro);
- Come segnalo nell'introduzione, un altro genere presente è l'ucronia, che si realizza quando si introduce un cambiamento fondamentale nella storia (in questo caso, nella realtà gli Alleati non esercitarono dispotismo sul Giappone e l'imperatore Hirohito non venne giustiziato, ma dovette semplicemente sottoporsi alla “Dichiarazione della natura umana dell'imperatore” via radio);
- Quello che viene detto su Orwell in questa one shot, al contrario della vicenda di Hirohito, corrisponde alla realtà;
- Come si intende alla fine, Funahara è stata declassata ed è invidiosa di Akane (documentandomi sulla breve caratterizzazione di Funahara, effettivamente, viene dichiarato che pecca di invidia, anche se ovviamente nella mia shot il suo sentimento giunge al parossismo – per questo ho inserito l'avvertimento “dark”;
- Il sangue trovato nell'appartamento di Funahara è davvero il suo, ma è stato prelevato con delle siringhe (perciò nessuna Funahara è stata maltrattata durante la stesura della shot /?/). Insomma, ispirandomi alla vicenda di Funahara nell'anime, ho deciso di basarmi su una collaborazione fra lei e Makishima ai danni di Akane (e al contrario di quello che potreste pensare: no, non odio Akane, anzi mi sono sentita molto cacca a farle fare una fine del genere... ma sapete che quando c'è in ballo Makishima, chiunque sia la sua controparte, io scelgo lui);
- Lo splatter è molto leggero, perciò sono poco sicura sul rating arancione (ho sempre problemi a selezionare il rating, sob);
- Aspettavo da una vita (più o meno due anni, da quando ho letto una sfilza di leggende giapponesi horror) di parlare della kuchisake-onna;
- Subito dopo aver ricevuto la bellissima recensione Rumyantsev mi sono resa conto che ho dimenticato la cosa più importante (OBV), ovvero chiarire il ragionamento contorto di Makishima. Alcuni potrebbero aver capito senza problemi e pensare che non sia necessario, ma la sottoscritta autrice dice di sì e quindi dovrete sopportarmi ancora per qualche istante.
La frase fondamentale per capire le intenzioni di Makishima è questa: Un uomo divenuto bestia, che porta in seno la rabbia e la sete di vendetta, è l'unico in grado di opporsi al Sistema, ed è per questo che io uccido., in quanto la sua intenzione è proprio quella di uccidere delle persone che abbiano degli affetti in modo che questi ultimi comincino a sviluppare sentimenti negativi, a tal punto da dubitare del Sistema e, infine, decidere di rivoltarsi ad esso e, se possibile, rovesciarlo. In questo caso si potrebbe dire che il dolore per Ginoza (che alla fine si rivela essere il vero obbiettivo di Makishima) è doppio, in quanto, oltre ad uccidere ad Akane, Makishima spinge Funahara al tradimento sia verso di lei che verso di lui.
Diciamo che ho traslato il desiderio di Makishima di osservare il modo di agire delle persone che, invisibili all'occhio del Sistema, hanno libertà di scelta; da tutto questo è nato il ruolo simbolico del collezionista, che più che altro raccoglie la vita di alcune persone e il futuro di altre, nella speranza che, un giorno, queste ultime si ribellino e ottengano la loro libertà individuale e collettiva.
Il mio delirio è finito. Ringrazio di cuore chi leggerà, recensirà, o inserirà la storia fra seguiti/ricordati/preferiti (ma soprattutto chi recensirà, emh~).
Alla prossima!
   
 
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