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Autore: Mitsuko_Ayzawa    05/10/2015    1 recensioni
Erano accadute molte cose, a Beacon Hills, nelle ultime settimane.
Un inizio traballante, e la prima tessera del domino era caduta, trascinando inevitabilmente con sé tutte le altre. E così, un piccolo incidente era diventato una tragedia. Ed essa, a sua volta, era diventata un bagno di sangue.
Tuttavia, tutti avevano commesso lo stesso, identico, sbaglio. Tutti, senza esclusione, si erano concentrati esclusivamente su sé stessi, sui loro piani, sui loro obbiettivi, dimenticandosi del mondo intero intorno a loro.
Ma non per questo, quello aveva cessato di esistere. Non per questo, il mondo del soprannaturale aveva smesso di tenere d’occhio Beacon Hills. Di giudicarla, di agognarla, di ambire a far parte di tutto quello.
E a loro volta, tutti coloro che erano fuori erano stati troppo occupati a guardarsi le spalle, affinché nessuno approfittasse del caos scoppiato per farsi avanti, per agire. Tutti, tranne uno, che aveva visto nella distrazione degli uni e nell’esitazione degli altri la sua occasione.
E quel qualcuno aveva fatto la sua mossa, inevitabilmente, ed altre tessere del domino erano cadute.
(Post season 5A, in cui tutto è andato a puttane, ahem. Qui succederà di tutto. E ci saranno nuovi personaggi. E tanto sangue. Pace.)
Genere: Azione, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Il branco, Nuovo personaggio, Theo Raeken, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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«And where is he? » the boy asked.
«Beacon Hills. My brother lives in Beacon Hills». […]
«I can’t let you go».
«This is exactly why I have to go. They need help». […]
«And what’s the second thing? »

«Is that there’ll be a bloodbath».

 
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Episode 1

Operation in Progress

 
 
 
Stiles si era mosso come un automa.
Aveva trovato il padre a terra ferito e agonizzante, e gli aveva preso la mano. Aveva avuto paura, chiunque avrebbe avuto paura nel vedere il proprio padre morire dissanguato davanti a se, quindi aveva chiamato il 911. Aveva spiegato la situazione cercando di non farsi prendere dal panico. Aveva ascoltato quello che gli veniva detto e aveva seguito le istruzioni che gli erano state date. Si era sfilato la felpa e ne aveva usato una manica per fermare l’emorragia fino a che, esattamente quattro minuti e mezzo dopo, era arrivata l’ambulanza. In quel momento, il ragazzo aveva lasciato che il suo cervello si spegnesse, mentre i medici caricavano il padre su una barella e poi sulla vettura. Aveva lasciato che lo facessero sedere in un angolo mentre loro provavano a rattoppare tutte quelle ferite. Si era lasciato andare, con le mani sporche di sangue che gli tremavano lievemente, appoggiate sulle ginocchia. Prima che se ne rendesse conto erano arrivati, e lo sceriffo Stilinski era stato portato d’urgenza in sala operatoria.
Stiles, che era invece illeso, aveva aspettato fuori, nel corridoio, seduto su una panca di plastica. Era rimasto a fissate la scritta luminosa “OPERAZIONE IN CORSO” per non sapeva nemmeno quanto tempo. Senza reagire. Senza pensare.
In quel momento aveva sentito la voce di Scott.
«Stiles» solo quello, solo il suo nome. Il ragazzo alzò lo sguardo. A pochi passi da lui c’era Scott. Uno Scott malconcio, la maglia lacera e sporca di sangue, i capelli in disordine. Non che Stiles fosse messo poi tanto meglio.
Stiles rimase immobile mentre l’altro si avvicinava e si sedeva accanto a lui. Rimasero fermi per qualche secondo, spalla contro spalla, a guardare il muro di fronte a loro.
«Avevi ragione, riguardo a Theo» sussurrò Scott ad un certo punto «Non avrei dovuto fidarmi. C’è lui dietro tutto quanto».
«Lo so» rispose Stiles, con cautela. La sua voce era roca e sfregava contro la gola come carta vetrata. Gli sembrava come se non avesse detto una parola per anni.
«Sai che non avrei dovuto fidarmi, o che c’è lui dietro i Dread Doctors?»
«Entrambe».
Inaspettatamente, Scott sorrise. Un sorriso stanco, ma il primo sorriso sincero da molto tempo. Stiles puntò i suoi occhi sull’amico, mente una ruga sottile si formava tra le sue sopracciglia, mentre osservava la maglia squarciata di Scott e le macchie di sangue «Mi dispiace».
«Per cosa?»
«Per non esserci stato» Scott si spostò un po’, per guardare meglio l’altro ragazzo.
«Di che parli?»
«Sapevo che eri in biblioteca, con Liam. Theo me lo aveva detto. Ma se fossi venuto da te mio padre sarebbe morto sicuramente. Ho dovuto scegliere».
«E hai scelto tuo padre» Scott completò la frase per lui. Stiles annuì appena «Hai fatto la scelta giusta, Stiles».
Il ragazzo scosse la testa, mentre muoveva su e giù un ginocchio nervosamente «Avrei dovuto trovare un modo».
Scott non seppe cosa dire.
«Che fine hanno fatto tutti?» sussurrò Stiles.
«Non lo so» rispose Scott «Mason e Liam erano con me in biblioteca, ma sono andati via» degli altri, non si sapeva nulla. Malia, Lydia, Deaton, Parrish, Theo. Nemmeno Kira si era messa in contatto con loro da quando se ne era andata. A Scott venne in mente una cosa «Stiles, Hayden è morta».
Nessuna dolcezza, nessun tatto, l’ennesima brutta notizia che si andava ad aggiungere alle precedenti. Ormai non faceva quasi più male. Semplicemente, ad ogni colpo ora tutti diventavano un po’ più freddi, un po’ più distaccati. Iniziavano a perdere empatia. Stiles si limitò a socchiudere gli occhi, abbandonandosi sullo schienale della sedia e appoggiando la testa contro il muro.
«Sua sorella lo sa?» Scott scosse la testa.
«No, non l’ho ancora incontrata.»
«Hai intenzione di dirle la verità?» il ragazzo fece una smorfia tirata.
«Non lo so. Non ne ho idea. Sinceramente non so che cosa fare adesso».
Silenzio «Nemmeno io» aggiunse Stiles.
 
 
Il colpo spedì Malia a parecchi metri di distanza, facendola atterrare violentemente sulla schiena. La chimera ringhiò e ruggì, mentre la ragazza di alzava in piedi. Per ogni volta che lei colpiva quella bestia, lui gli ridava tutto indietro con gli interessi. Fece brillare i suoi occhi di azzurro, ringhiando a sua volta e gettandosi nuovamente in avanti.
Non sapeva da quanto stessero combattendo. Aveva già provato a voltarsi e scappare, ma quel bastardo era veloce, e anche tanto: la raggiungeva sempre. L’unico modo per farla finita era ammazzarlo prima che lei stessa fosse fatta a pezzi. Più facile a dirsi che a farsi.
Riuscì a colpirlo tre volte di fila, rapidamente, due volte al petto e una alla testa, prima che un pugno la centrasse nello stomaco. Malia gemette, mentre la chimera la sollevava di peso e la scagliava nuovamente lontano. La ragazza rotolò sulle piastrelle, prima di rimanere ferma per qualche secondo a riprendere fiato. Sentiva come se avesse ingoiato un fiammifero acceso, e che ora anche il suo stomaco stesse andando a fuoco. La chimera fece un paio di passi nella sua direzione e il massimo che Malia fu in grado di fare fu sollevarsi sui gomiti, strisciando indietro per quanto possibile. Il mostro ringhiò e ruggì, con gli occhi che brillavano nella semi oscurità. La ragazza provò a tirarsi in piedi, ma reagì con troppa lentezza, perché la chimera aveva già portato il braccio all’indietro caricando il pugno. La ragazza irrigidì i muscoli, sperando di riuscire a incassare il colpo senza subire troppo danni. Chiuse con forza le palpebre, preparandosi all’impatto.
Ma invece del pugno, qualcosa alla sua destra esplose, inondando lei e la chimera di schegge di vetro e compensato. Malia riaprì gli occhi, mentre dal polverone emergeva una figura nera e sottile, che si stagliava come un ombra contro la polvere e le luci artificiali. Una ragazza. Indossava una giacca di pelle con il cappuccio, che teneva calato sul volto. La faccia era coperta da una specie di maschera, anch’essa nera, che lasciava scoperti solo gli occhi, di un azzurro glaciale, ma pur sempre occhi umani, rendendo il resto dei lineamenti un indefinita superficie opaca. Nient’altro era visibile. Persino le mani erano coperte da guanti a mezze dita. La nuova arrivata si sganciò qualcosa dalla cintura, e Malia vide che si trattava di un nunchaku.
La chimera ruggì verso di lei, accantonando Malia. La figura non si scompose, rimanendo immobile con il nunchaku che le dondolava accanto alla gamba, e rimase ferma anche quando la chimera si gettò su di lei. Rimase ferma fino a un attimo prima dell’impatto, prima di spostarsi con un movimento fulmineo e al contempo aggraziato, come quello dei toreri. Si spostò di lato, colpendo nel mentre la chimera al fianco con un gomito, e questa cadde in ginocchio con un gemito. Nel tempo che impiegò per tirarsi in piedi, la ragazza in nero aveva già iniziato a roteare il suo nunchaku, accumulando chili di forza centrifuga. La chimera si slanciò verso di lei, e il nunchaku si abbatté con forza sulla mascella del mostro, rispedendolo di nuovo al tappeto con un verso soffocato, ma prima che potesse rialzarsi lei lo colpì ancora, e ancora, implacabile. La chimera emise un ruggito frustrato e, con uno slancio, si gettò contro l’avversaria colpendola all’addome; agganciandola quindi al suolo e bloccandole i polsi. La ragazza non emise un verso, nemmeno quando il tonfo sordo della sua testa che sbatteva sul pavimento risuonò nel corridoio. Malia si alzò in piedi il più in fretta che poté.
«Hey tu!» Urlò, sfoderando gli artigli per attirare l’attenzione del mostro. La chimera si voltò verso di lei e la figura a terra approfittò della sua distrazione rannicchiandosi fino a portare le ginocchia sotto il mento. Con un gesto secco, le fece scattare verso l’alto e il rumore del collo della chimera che veniva spezzato risuonò nelle orecchie di Malia. La figura si scrollò di dosso il cadavere della chimera, che nel frattempo aveva iniziato a perdere mercurio dalla bocca, tirandosi in piedi e recuperando la sua arma. Si muoveva con gelida calma, come se nulla fosse successo.
Poi alzò lo sguardo verso Malia.
Malia e la ragazza si guardarono negli occhi per un secondo, prima che quest’ultima si voltasse e scomparisse nella polvere, una macchia nera che si fondeva nella notte, senza dire una parola. Malia Tate riuscì solo a intravedere due occhi azzurri come il ghiaccio, e capelli biondi come l’oro.
 
 
Quando il chirurgo uscì dalla sala operatoria, trovò sia Stiles sia Scott addormentati.
Si avvicinò con calma ad entrambi, per poi appoggiare una mano sulla spalla di Stiles e scuoterlo appena. Il ragazzo si svegliò di soprassalto, e automaticamente allontanò il braccio del medico con un gesto del polso. L’uomo si tirò indietro senza scomporsi. Era abituato a questo genere di cose.
«Come sta mio padre?» chiese subito il ragazzo, passandosi stancamente una mano sugli occhi per svegliarsi. Accanto a lui Scott, sentendo le due voci, si destò altrettanto rapidamente.
«Il signor Stilinski per il momento è sotto osservazione. Se supererà la notte, ci saranno buone probabilità che si riprenda. Dipende tutto da lui, adesso».
«Posso vederlo?» domandò il ragazzo con voce roca. Il medico scosse la testa.
«Non adesso. Solo il personale può entrare nella stanza di suo padre» Stiles si afflosciò, incassando la testa tra le spalle curve «Il massimo che posso fare è farti vedere dove è la sua stanza».
Stiles rimase fermo un secondo. Una parte di lui desiderava vedere il padre, vedere che era ancora vivo, per quello che contava. Ma un’altra parte di lui era terrorizzata a quello che avrebbe visto.
«Stiles» il ragazzo alzò lo sguardo verso Scott, che lo guardava cercando di essere il più incoraggiante possibile «Dovresti andare».
Il ragazzo ci pensò ancora un po’, prima di annuire e rivolgersi di nuovo al medico.
«Mi faccia vedere la stanza».
L’uomo fece un gesto con un braccio, facendogli strada lungo i corridoi dell’ospedale. Si fermarono davanti a una delle stanze della terapia intensiva, e il chirurgo si congedò rispettosamente lasciando i due ragazzi di fronte alla finestra che dal corridoio dava alla stanza. La tendina era sollevata, e attraverso il vetro entrambi poterono vedere lo sceriffo Stilinski sdraiato sul letto, con i bendaggi che si perdevano sotto la camicia da notte verde acqua che gli avevano messo dopo l’operazione. Giaceva pallido e immobile sulle lenzuola candide, mentre piccoli tubicini delle flebo gli infilavano chissà cosa nel corpo. Metà del volto dello sceriffo era coperta dalla mascherina che lo aiutava a respirare, e la luce verde dei macchinari rendeva quella scena surreale.
Stiles si lasciò scappare un gemito lieve, mentre appoggiava le mani al vetro, come se desiderasse di poterlo attraversare e arrivare dall’altra parte. “È colpa mia” pensò gelidamente il ragazzo. Era tutta colpa sua. Se non si fosse fidato, se fosse riuscito a dimostrare che Theo non era ciò che diceva di essere, se avesse trovato un modo, tutto quello sarebbe potuto non succedere. Avrebbe potuto trovare qualcosa, ci riusciva sempre.
E invece nulla. Non aveva fatto nulla.
Invece adesso suo padre era incatenato ad un letto d’ospedale, in coma, senza nemmeno la certezza che il giorno dopo sarebbe stato ancora vivo. Theo era là fuori a fare chissà cosa, in combutta da sempre con i Doctors. Hayden era morta. Corey, Tracy, Donovan, e tutti gli altri... Erano tutti morti. Kira se n’era andata. Lydia non si vedeva in giro da ore. Malia nemmeno. Deaton, che per loro rappresentava una sorta di guida, era scomparso giorni prima senza lasciare traccia. Liam aveva il cuore infranto, ma almeno aveva Mason.
E lui non aveva fatto nulla.
Per tutto il tempo, Scott rimase un paio di passi indietro, senza dire una parola.
 
 
A Lydia occorse molto tempo per riprendersi. Ma ormai era tardi. Theo era già andato via, portando con sé quattro delle chimere morte. Ah, si ricordò Lydia, ora non erano più morte. Tracy, Donovan, Corey e Hayden erano stati riportati in vita. Solo loro quattro. La ragazza si trasse faticosamente a sedere. Qualcosa non andava, se ne rese conto subito. Qualcosa non andava con il suo corpo.
Non lo percepiva come avrebbe dovuto. Non lo percepiva suo.
Si sentiva sporca, ma non nel senso di contaminata. Si sentiva completamente messa a nudo. Si sentiva osservata, ma non era quel brivido alla base della nuca, no, era come se qualcuno la osservasse da dentro sé stessa.
Theo era stato nella sua testa e poi l’aveva lasciata. Ma non era rimasto tutto come prima. Lydia Martin non capiva se era come se il ragazzo si fosse portato via una parte di lei, o lui non se ne fosse mai andato del tutto.
Era una sensazione orribile, e la ragazza dovette combatterci ogni secondo, mentre lentamente il suo corpo rispondeva agli impulsi lanciati dal cervello. La banshee poteva vedere le sue dita aprirsi e chiudersi a ripetizione, ma non sentiva di starle muovendo.
Per un secondo si chiese se stesse sognando. O peggio, se tutto quello che era successo fosse solo un orribile sogno, e solo ora si stesse svegliando. Se solo in quel momento si stesse lasciando l’incubo alle spalle.
In un qualche modo riuscì ad alzarsi in piedi. Non ricordava come aveva fatto, ma andava bene comunque.
Guardò il nemeton, a pochi passi da lei, con i cadaveri delle chimere non risvegliate che lo circondavano. Anche quello le sembrava alieno. Una fotografia in bianco e nero, un ricordo sbiadito, qualcosa che non le apparteneva. Non più.
Lydia Martin non apparteneva più a sé stessa.
Lydia non era nemmeno più sé stessa.
 
 
Scott e Stiles rimasero davanti alla stanza dello sceriffo per molto tempo, fino a che Melissa McCall non li prese e li portò a casa. Non avrebbe permesso a Stiles di tornare a casa da solo, non in quelle condizioni, non quella notte. Quindi entrambi i ragazzi erano saliti sull’auto della donna, ed erano arrivati a casa. Tutti e tre avevano parlato poco, privati dalla stanchezza e lo stress.
Melissa si era chiusa nella sua stanza, abbandonandosi sul materasso, e prima che potesse infilarsi sotto le lenzuola era già sprofondata tra le braccia di Morfeo. Il suo intero organismo aveva deciso di avere decisamente bisogno di una pausa.
Scott, invece, la prima cosa che fece fu una doccia, e dopo si sentì decisamente rinato. Si era infilato nella cabina di plastica larga 80 centimetri per lato e aveva aperto l’acqua al massimo. Era rimasto fermo sotto il getto mentre il vapore e il rumore coprivano tutto il resto. Respirando a pieni polmoni con la bocca aperta. Si era lavato di dosso tutto il sudiciume di quella nottata, e poi aveva costretto Stiles a fare lo stesso.
Stiles, che in quel momento sembrava il fantasma di sé stesso. Che se ne stava seduto sulla sedia di Scott, perso nei suoi pensieri. No, non era per niente un fantasma. Forse in quel momento era più vivo che mai, aveva semplicemente indirizzato tutte le sue forze nel far lavorare quella splendida macchina che si trovava come cervello. Lo Stiles che aveva giocato a go con il nogitsune per giorni, lo Stiles che trovava connessioni logiche laddove nessun altro riusciva a vederle, lo Stiles che riusciva sempre ad essere un passo davanti a tutti, si era chiuso nella sua testa, intenzionato a non uscirne fino a quando non avesse avuto un idea per sistemare Theo Raeken una volta per tutte.
Quando si lavò, lo fece senza rendersene conto, un gesto automatico dopo anni e anni, un’azione che il suo corpo poteva compiere senza che il ragazzo si distraesse per un solo secondo.
Continuava a pensare, ancora e ancora. Qualcosa gli sfuggiva. Più correttamente, non tornava, non aveva senso.
Se Theo desiderava così tanto far parte del branco di Scott, perché non semplicemente usare le buone maniere? perché non semplicemente entrare a far parte del branco come avevano fatto tutti?
Perché distruggere tutto? A quale scopo?
Domande che sembravano prive di senso, ma erano esattamente le domande intorno a cui doveva girare. Se il ragazzo aveva imparato una cosa, in questi ultimi quattro anni, era che nulla aveva senso apparente; fino a che non si facevano le domande giuste. E Stiles era sicuro di essersi posto le domande giuste.
Ora bisognava trovare le risposte.
E quindi continuava a pensare, dando fondo a tutto sé stesso.
Se Theo Raeken non aveva usato il modo semplice per entrare nel branco, significava che non aveva potuto. O che non aveva voluto. Ma dove stava, esattamente, la differenza?
Stiles digrignò i denti. Non stava tutto in Theo. Non dipendeva tutto da lui. Bisognava trovare un termine di paragone, e si rese conto di averne più di quanto pensasse. Donovan, Corey, Tracy. Ogni chimera. Theo era da rapportare a ogni chimera.
Sotto il getto d’acqua, il ragazzo iniziò a respirare sempre più velocemente, mentre il suo cervello lavorava, incrociando tutto quello che sapeva per ricavare le incognite della sua equazione. Tutto, alla fine, trova il suo senso. Bisogna solo applicare le regole giuste, le giuste formule e le equazioni si risolvono da sole.
Che cosa Theo aveva in comune con le chimere, escluso l’essere una di loro? La risposta si parò davanti agli occhi di Stiles, troppo evidente per essere ignorata o fraintesa.
Theo Raeken aveva perso il controllo su se stesso. E qualcosa aveva preso il controllo di lui, qualcosa che era già dentro di lui.
 
 
Parrish aveva ripreso conoscenza di sé che ormai era già giorno. Aprì gli occhi e si rese conto di essere lucido ma soprattutto di non essere nella cella della stazione di polizia. Era a casa sua, sdraiato sul letto. Poteva vedere chiaramente il soffitto bianco di casa sua, non quel indefinito colore di vecchio della cella.
Parrish si tirò a sedere, passandosi le mani sugli occhi e tra i capelli, emettendo un verso a metà tra un gemito e un sospiro.
Era successo di nuovo e questo significava solo una cosa. Un altro cadavere. Un’altra chimera morta. Un innocente.
Jordan Parrish non era sicuro che sarebbe riuscito a sostenere tutto quello per un altro minuto. Non era certo che non sarebbe impazzito. Non serbare memoria delle sue azioni gli stava facendo perdere la testa. Non sapere come faceva quello che faceva non gli lasciava scampo. La sua natura da poliziotto veniva ancor prima di quella da…
Il giovane si alzò in piedi. Non sapeva nemmeno cos’era, e adesso iniziava anche a chiedersi chi era.
Qualunque cosa fosse, il non saperlo lo stava logorando. Appoggiò le mani sulla superficie del muro, facendo respiri profondi. Doveva calmarsi, doveva trovare un equilibrio, come gli avevano insegnando nella sezione artificieri. Prima di Beacon Hills. Prima di tutto.
Lentamente, la calma nella sua testa andò ripristinandosi, e l’agente poté iniziare a pensare più chiaramente, senza fretta.
Lydia. La ragazza aveva detto che probabilmente aveva un idea su cosa lui fosse, ed era sparita per controllare. In base al suo ultimo ricordo cosciente, Parrish ricordava che la ragazza non aveva fatto ritorno. Cercò freneticamente il cellulare nelle tasche, e ci volle un po’ per trovarlo. Provò ad accenderlo, ma evidentemente la batteria si era scaricata, perché lo schermo rimaneva nero. Trovò anche il carica batterie e si affrettò a collegarci quell’aggeggio. Dovette aspettare con trepidazione che la batteria si ricaricasse quel tanto che bastasse per accenderlo.
Se sperava di trovare qualcosa, qualche chiamata o messaggio da Lydia, rimase deluso. Per essere sicuro controllò la segreteria almeno tre volte, ma invano. Non lo aveva cercato.
Dove era finita quella ragazza?
In quel momento squillò il telefono.
 
 
La campanella suonò, e I corridoi della scuola media si riempirono di fiotti di studenti impegnati a cambiare aula, a prendere libri dagli armadietti, a parlare, ridere, copiare appunti e compiti.
Qualcuno sedeva negli angoli delle scale, sulle panchine all’esterno, studiando, mordicchiando penne o tamburellando le dita.
Emily Carr aveva terminato le sue lezioni, ed era uscita dall’edificio scolastico, con l’intendo di tornare a casa e gettarsi sul divano a guardare la tv. Camminava verso il cancello senza fretta, con la cartelletta che le batteva ritmicamente sul fianco.
«Emily Carr?» la ragazzina alzò lo sguardo verso un uomo che veniva dritto verso di lei. Indossava un completo nero elegante, con una giacca lunga che gli arrivava alle ginocchia, e si appoggiava con una certa classe su un bastone da passeggio laccato in nero, con l’impugnatura argentata. I capelli, lasciati un po’ lunghi, incorniciavano un volto squadrato ma molto affascinante.
«Ci conosciamo?» chiese la ragazzina. L’uomo rimase con galanteria a qualche passo di distanza.
«Sono un amico dei tuoi genitori. Sono dovuti andare a trovare una persona e mi hanno chiesto il favore di venirti a prendere e accompagnarti da loro».
«Chi dovevano andare a trovare?»
«Un parente alla lontana, una specie di prozia» l’uomo fece un sorriso amabile, mentre la ragazzina annuiva.
L’uomo fece un ampio gesto con il braccio, per farle strada, e i due si allontanarono insieme.











Mitsuko’s Lounge
Piccola e breve comunicazione random. “Dottori del Terrore” boh, a me fa un po’ ridere. Dread Doctors mi suona meglio, quindi lo tengo in inglese. Così come i previously on, perchè boh, mi piace complicarmi le cose. Capitemi, fosse per me parlerei solo inglese, ma quando lo faccio mi prendono per scema. 
Forse un po' lo sono.
Pace. Ciao.
Ah, è nel link sotto il titolo ci sarebbe tipo il banner, ma non ho capito come mettere solo l'immagine. Sono impedita.
Mitsuko
   
 
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