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Autore: HibiyaAki and Loonaty    05/10/2015    1 recensioni
"Inverno. Memorie di Haruka Fuwa
Si può arrivare ad essere tanto invidiosi delle persone da desiderarne una morte prematura?
Che strano, dopotutto dovrei sapere quanto dispiacere, quanta desolazione, quanto dolore la morte possa provocare.
La consapevolezza di non avere un futuro può addirittura essere straziante.
E' davvero invidia? O solo spero che uno di loro possa prendere il mio posto?
Ho paura ... Desidero che qualcuno...Resti.
Che prima di sparire mi sussurri "Andrà tutto bene"."
Non è una storia d'amore, se questo che state cercando.
Eppure è un racconto romantico. Di pause, di silenzi e dolcezze.
Di sofferenza,di rabbia, di incomprensioni...
Dove tutto è cenere.
Si poseranno lì i petali del ciliegio?
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Oh, non t'avessi mai incontrato. 
Non t'avessi stretto al petto. 
Oh, non t'avessi desiderato. 
Cenere nei miei occhi ormai secchi. 
La mia anima in pezzi ai tuoi piedi. 
Oh, cosa m'hai rubato. 
Tutto ciò che non hai avuto a me l'hai tolto. 
A me l'hai donato. 
Tornassi indietro anche solo per quel giorno... 
Sotto l'albero di ciliegio ancora 
Ad aspettarti. 

C'ero soltanto. 
C'ero. 
Tutt'attorno, una pioggia di petali. 

E tu. 
 










CAPITOLO PRIMO - IL BUGIARDO 




{La tartaruga}

Aveva diciannove anni
Una ragazza a diciannove anni non ha altra impellente esigenza che riuscire a trovare il proprio giusto posto nel mondo. Che sia per amore o per ambizione. 
Ophelya, in questo campo, si trovava decisamente sospesa, dispersa, senza la certezza di una direzione.
Oltretutto non lo riteneva nemmeno un suo problema.
Non si soffermava mai molto a pensare al proprio futuro, non programmava, non ragionava, lei ... Semplicemente viveva.
Era libera.
O forse unicamente frivola, priva di regole che le impedissero una direzione.
Era sola e sciocca, ma poteva permettersi di esserlo. 

Il suo appartamento a Rubus era vuoto da ormai diversi mesi.
Aveva seguito sua sorella Claire nel Gensekioshi, lì l'economia correva fin troppo veloce perchè un pesce piccolo come lei potesse inserirsi nell'ambiente lavorativo.
Sarebbe dipesa direttamente dalle tasche di quella donna bionda dal portamento sciolto ed elegante. 

Forse l'avrebbe convinta a tornare a casa, a prendersi quelle che le attribuivano come sue proprie responsabilità, ma che ai suoi occhi non erano che obblighi troppo stretti e troppo ... Inutili. Qualcosa di inutile in partenza può divenirlo troppo?
Probabilmente era stato questo il suo intento quando le aveva telefonato, mesi prima, per proporle quella follia. "Un'opportunità strepitosa" Le aveva cinguettato all'orecchio, con quella voce di miele e cannella che doveva aver stregato il suo ex marito.
Anche lui era un pittore, da quel che ricordava, ma tra loro le cose non erano andate bene. In ogni caso Claire aveva pensato immediatamente alla propria sorellina sola e squattrinata lontana dalla ricca magione di mamma e papà e doveva aver deciso di mostrarle quanto fosse bella la vita dei ricchi.
Di quelli ricchi davvero.
Soggiornare nelle stanze di un grande hotel, fare colazioni abbondanti, passeggiare tutto il giorno mentre la maggiore si trovava a sbrigare qualche faccenda per qualche banca... Troppi numeri in quei documenti perchè potersse anche desiderare di capirne il senso.
 Sarebbe riuscita a tagliarle le ali? A precluderle il suo guscio sicuro? 
Se lo domandava, Ophelya, mentre ritraeva i fiori di ciliegio volteggiare sulla sua testa.

C'erano molte cose che la affascinavano nel Gensekioshi. Prima tra tutte le persone e la loro lingua arzigogolata e antica, molto più antica del Rosè della sua terra. 
Aveva così tanti significati che ascoltarla e decifrarla per lei era diventato una sottospecie di gioco. 
Non era mai stata troppo sveglia, spesso non capiva i concetti più semplici e ad un primo sguardo si sarebbe subito intuito quale fosse il problema. 
Quella fanciulla viveva i ntutt'altro mondo. 
Sempre persa, svampita. 
Eppure leggeva montagne di libri, conosceva a memoria un milione di poesie e forse anche di più e le biografie degli scrittori classici popolavano la sua mente come le trame delle loro opere più famose. 
Apprendeva come una spugna solo ciò che la interessava e quel luogo era un ricco fulcro d'interesse per la sua mente. 
Gli alberi di ciliegio, ad esempio, non crescevano più in alcun luogo... Se non lì. 
Era forse strano vedere una figurina così minuta, in piedi in mezzo ad un marciapiede di una via secondaria deserta, con in mano un blocco di carta spessa e grigia, il capo sollevato verso i rami rosati e qualche petalo tra le onde soffici e chiare dei capelli? 
Era forse insolita la mano esperta che tracciava segni elaborati sul foglio con una matita dalla punta perfetta? 
E la tartaruga piccina che sulla sua spalla faceva capolino? 
Oh, se forse era strano, Ophelya davvero non ne trovava il motivo...


{Il pesce}

 
“ Ricordati che dovrai prepararti al peggio. Soffrirai, ma impara a conviverci.” 

Innumerevoli volte aveva sentito quella frase e altrettante si era ripromesso di seguirla alla lettera, ma non era facile.
Non era semplice convivere con la consapevolezza che tra meno di dieci anni si sarebbe ritrovato a marcire sotto terra così prematuramente.
Aveva solo ventidue anni era giovane ed era debole come un ragazzo di ventidue anni non sarebbe mai dovuto essere.
Non c'era nessuno che realmente cercasse di aiutarlo, neanche uno che si prendesse la briga di chiedergli come stava senza provare pietà per lui.
Neppure i suoi genitori sembravano capirlo.
Quei falsi sorrisi che gli dedicavano erano come pugnalate di ipocrisia, la stessa che lui serbava a tutti.
 Haruka però poteva permetterselo, lui soffriva e cercava di non farlo notare, così che gli altri smettessero di compatirlo.
Odio o invidia ? 
Entrambi.
Li odiava per la loro spensieratezza e li invidiava per la loro libertà. 

Lui ormai si trovava in  una prigione fredda e buia dove le pareti erano cosparse  di un veleno chiamato orgoglio che l'avrebbe portato all'autodistruzione.

Cosa c'era di bello nella primavera ? 

Nulla, lui la odiava, come ogni stagione. Rappresentavano lo scorrere del tempo , un concetto che lo spaventava e lo induceva a innervosirsi continuamente. 
Detestava l'essenza del futuro e quei petali rosati volteggianti nell'aria lo infastidivano come se fossero stati la causa di ogni male, quando in realtà non c'era alcun carnefice da accusare. Ed era questa la realtà più frustrante. 
Non poteva nemmeno commiserarsi, la colpa non era propria nè di nessun altro. 
Il solo fatto che ai suoi occhi tutti gli gettassero addosso una bara fatta e finita era prova del suo ormai collaudato pessimismo. La pietà era solo finta, era il prodotto cancerogeno di una società che ci insegna a piangere i più deboli, i pietosi erano tali poichè indottrinati a tal modo. 
Non si fidava delle lacrime, nè dei sorrisi tristi. 
A passo lento, fin troppo forse, dopo essere uscito dal suo posto di lavoro prese una piccola scorciatoia in grado di condurlo il prima possibile verso la metropolitana.
Prima tornava a casa e prima poteva riposare quelle gambe irrigidite, senza rischiare di perdere l'equilibrio per strada. 

Una passo, un altro...Percepì un fischio nell' orecchio destro e si bloccò osservando il paesaggio circostante sfumarsi in tinte incasinate.
Doveva fermarsi da qualche parte e riposare un attimo gli occhi o sarebbe caduto a terra come il peggiore dei clown. In frantumi. 
Nulla gli avrebbe mai tolto il sentore di potersi sbriciolare all'impatto con il suolo.
Una leggera nausea gli salì alla bocca dello stomaco e cercando di aumentare il passo si diresse verso il marciapiede che costeggiava quel piccolo viale alberato, sedendosi al margine. 

“Grazie malattia, ci voleva proprio.” 

Con le gambe magre piegate verso la vita poggiò sulle ginocchia le braccia incrociate, nascondendo tra di esse la testa biondiccia con qualche leggera sfumatura azzurrognola sulle punte, ricordo di una precedente tinta particolarmente estrosa. Nel Gensekioshi non era visto di buon occhio tingersi i capelli, almeno non in ambiente scolastico o lavorativo. Veniva associato ad una mancanza di serietà o a qualche disturbo psicologico di qualche tipo. Lui lo aveva fatto per insofferenza alle regole... E poi perchè il blu gli piaceva...
Il colore dell'acqua...

Ah, glielo avrebbe dovuto dire, qualcuno, che l'acqua era trasparente ed il suo blu intenso solo un riflesso del cielo. Avrebbe compreso prima quanta effimera fosse la sua esistenza. 
Solo di riflesso.
Trasparente, come l'acqua che tanto amava.
 
Le palpebre dalle ciglia corvine nascosero gli occhi ramati, cangianti, che sfumavano dal rossiccio al viola scuro in quel periodo dell'anno, irriverenti verso le foglie appena nate, preambolo di ciò che sarebbe spettato a loro in autunno.  
A causa del suo aspetto in molti lo avevano definito come un fantasma. 
Beh, non gli mancavano molti anni per diventarlo.
 


{La tartaruga} 

Prendeva forma, sulla carta, la figura di guel ragazzo con il capo celato dalle braccia. 


Come avesse cambiato soggetto a stento lei lo sapeva.
I suoi occhi d'ambra dolce e grani di caffè avevano per un istante solo abbandonato il ciliegio, per sposta
rsi sulla figura che aveva visto procedere accanto per poi fermarsi.
Non lo aveva notato finchè non si era seduto sul marciapiede, in realtà. Non che avesse fatto rumore alcuno, era stato come un presentimento.
Le persone si avvertono in fondo, le senti dentro, anche se loro non si accorgono della tua esistenza.
Lo aveva ben imparato, Ophelya, negli anni trascorsi a non essere vista.

Era solo uno schizzo a matita.
La schiena curva, i capelli leggermente arruffati da quella brezza che recava con sé i petali chiari degli alberi ed il loro profumo tenue. 
Avrebbero dovuto mettere una legge, un divieto con tanto di multa sul ritrarre le persone socnosciute. 

Non era certo buona educazione... Lo sapeva. Non era nemmeno buona educazione farsi gli affari altrui. 
Non lì a  Daya, quella città conosciuta per le banche più sicure al mondo, ma ancor più per gli ospedali avanzati, dove si sperimentavano cure mediche innovative ed efficaci... 
Lì erano tutti troppo seri. Tutti troppo freddi e distaccati.
In parte la cosa la rassicurava, poichè nessuno avrebbe osato rivolgerle la parola per primo, se non strettamente necessario, in secondo luogo la metteva tremendamente a disagio poichè non era mai in grado di comprendere come si sarebbe dovuta comportare. La cortesia di quel luogo era del tutto differente da quella a cui era stata istruita per via del proprio sangue reale.

Era quasi ridicolo. Una principessina sfuggita al suo ruolo che incontrava un ragazzo straniero sotto un albero di ciliegio. Aveva un che di mistico.
Chiunque altro avrebbe cominciato a costruire castelli di carte irrealizzabili, ma quella creaturina esile era troppo incantata dalla composizione cromatica della scena per darsi la pena di sognare oltre.
Solo dopo un paio di istanti ed innumerevoli linee tracciate a matita, il suo animo tenero formulò un tiepido dubbio.
Che stesse male?
A rigor di logica -e lei non ne possedeva molta- chinarsi a quel modo a lato della strada non doveva essere all'ordine del giorno per gli abitanti del luogo.  


Si accovacciò, la gonna di veli color acqua frusciò appena, fili d'oro scuro, le onde dei capelli, ricaddero lungo la schiena sollevandosi in un primo momento e accompagnando poi l'abito leggero.
In grembo l'album spesso e la matita ed il pastello chiaro fermi tra le pagine. Avrebbe potuto rimetterli in borsa, ma no, non ancora. 
Le sue mani erano piccole e rosee, leggermente macchiate da schizzi di china che solo dopo molto tempo sarebbe riuscita a cancellare dalla pelle, una di queste si poggiò  sulla spalla del ragazzo, sfiorandolo solo per un momento. 
Era principalmente timida e di solito si asteneva dall' attirare l'attenzione altrui, quasi spaventata dall'umore mutevole dell'essere chiamato uomo.  
Era una piccola tartaruga pronta a ritirarsi nel proprio guscio, non conosceva rabbia, odio, amore... Sperimentava  costantemente disagio e paura. Oppure quella gioia pura che solo negli occhi dei bambini e degli artisti poteva specchiarsi. Una creatura che, per i tempi che correvano, sarebbe dovuta essere dichiarata specie protetta, o semplicemente internata in un istituto di igiene mentale. Era incredibile l'empatia dimostrata dalla giovane, rasente forse solo all'idiozia. 
Come umano hai la necessità di non comprendere, di odiare, di non accettare, eppure lei no. 
Lei era... Diversa. 
Per quanto il termine "diverso" fosse ormai divenuto un presuntuoso aggettivo che la maggior parte della popolazione amava attribuirsi. Tutte erano diverse. 
Eh, logico. 
Ognuno aveva i suoi geni. 

Ophelya però si preoccupava per ... Chiunque.
Fosse ladro, lebbroso o assassino.
Fosse carnefice o bugiardo.

-Tutto bene? -

Il tono di voce fu basso, ma cristallino. Non l'aveva sfiorato per più di un attimo e le dita sottili erano state ritratte chiudendosi a pugno mentre un'ombra rosata prendeva piede sul suo volto di bambina. 
Imbarazzata, ma sinceramente in ansia.
Ah, in nessun caso avrebbe saputo mentire.
Non ne era mai stata in grado, anche quando da bambina scarabocchiava con i pastelli a cera sulle pareti dell'ampia villa e Agath faceva la spia. Finiva sempre per piagnucolare un po' ed accettare poi la propria punizione. 
Era sinceramente meglio non convolgerla in feste a sorpresa o dispetti, alla prima domanda scomoda avrebbe rovinato tutto. Ogni suo pensiero le si leggeva in faccia con la stessa semplicità con la quale lei leggeva lo stato d'animo altrui.
Una maledizione per un dono.  
Alla fin fine a suo parere la sincerità era il pane della vita. Perchè nasconderla? 
Il suo cuore era già stato inconsciamente ferito, troppe, troppe volte per reggere un qualunque altro peso. 



{Il pesce} 



Ed ecco un altro dei molteplici disagi del suo attuale stato.
Quella sensazione travolgente di perdita di concentrazione, che lo portava a vedere il mondo che lo circondava, sopratutto gli oggetti vicini, confusi e ondeggianti. La percezione della distanza e
ra alterata e il suo equilibrio incerto.
Un giro gratuito su una giostra ad alta velocità, con tanto di biglietto occasionale e sgradito.
E dire che un tempo amava i luna park.  
Quell'insicurezza minatoria tentava di celarla dietro ad un muro di perfezione, qualcosa di falso e madido di quel veleno che lo stava divorando vivo. 

Se avesse sorriso, se fosse stato perfetto, nessuno avrebbe potuto giudicarlo con compassione, aveva creato una realtà ingannatrice, migliaia di squame luminose ricoprivano il suo corpo marcio, permettendogli di andare avanti.

Con il capo sepolto tra le braccia si accarezzò con una mano la nuca, arruffandosi appena alcune ciocche, innervosito per quella debolezza tale da fargli provare ribrezzo per se stesso.
Sollevò appena la testa, spostando le iridi in un punto impreciso del terreno cosparso ormai da quei piccoli petali rosati.
Che schifo...Una nauseante visione. 
La lingua schioccò contro il palato .
L'unica cosa che lo faceva stare bene in quel calvario di solitudine e vittimismo era il suo amato pianoforte... Desiderava muovere le dita sui tasti, accarezzarli e premerli con dolcezza. Voleva ascoltare l'amata Sonata al chiaro di luna,così sarebbe stato un po' meglio. Per fare ciò avrebbe però dovuto raggiungere il proprio appartamento... Il che ci riconduceva al problema principale... 


I suoi pensieri vennero recisi di netto quando percepì il leggero tocco sulla spalla, scattò di lato per la sorpresa quando alzando lo sguardo incontrò quello d'ambra screziato di una ragazza sconosciuta. 
Non l'aveva vista, immaginata, nemmeno percepita. In effetti non gli importava abbastanza del genere umano per potersi dire partecipe al mondo che lo circondava. Un tempo lo era stato, però. Un tempo la compagnia lo entusiasmava... 
In ogni caso. 
Quella chi diavolo era ? 
"Tutto bene?"
A quella domanda posta con un Kyoihari zoppicante e incerto il viso non mutò, perso nell' incertezza di quei secondi, almeno finchè le labbra non si incresparono nel solito sorriso falso, maschera frutto di anni e anni di lavoro e di cui quasi andava fiero.

-Sì, tutto bene.- 

Rispose con un tono appena rauco, raschiando la gola con un colpo di tosse. 
Fingere di stare bene era una delle sue capacità. 
Un bugiardo cronico, mentiva sempre, sopratutto per quanto per riguardava il suo carattere che raramente mostrava in tutta la sua pessima forma.

Eppure gli occhi di quella creatura non lo abbandonavano un istante, facendogli provare un insospettabile senso di disagio che mai al mondo avrebbe ammesso.
Non capiva per quale ragione una ragazza spuntata dal nulla gli avesse rivolto la parola, quasi fosse l'incipit di uno scadente film di serie B.

Che gli volesse vendere qualcosa?

In un modo o nell'altro se ne sarebbe liberato senza che lei avesse di lui uno sgradevole ricordo o un'impressione negativa.

-Davvero?-

La voce della ragazza, tanto fragile da sembrare di carta di riso lo lasciò un momento tra il sorpreso e l'accigliato. 
 
“Davvero...? 
No, sto solo crepando, ma se te ne vai mi fai stare decisamente meglio.” 

Avrebbe tanto voluto risponderle così, ma non poteva. 
Sorrideva ancora, serafico, ma avrebbe voluto vomitarle addosso sangue e fiele. Gli girava ancora la testa... 
Stava per ripeterle che stava bene, che non doveva preoccuparsi, che poteva tornare a fare quello che stava facendo, qualunque cosa fosse, in qualunque mondo parallelo si trovasse.
Tornasse nel suo pertugio, insomma, lei e la sua tartaruga poggiata su una spalla, che, dio santo, era una delle cose più strane che avesse mai visto!
Solo che, prima che potesse cominciare un soliloquio di rassicurazione la creaturina impertinente aprì nuovamente bocca, in un sussurro tanto lieve e svelto da fargli mordere la lingua.

-Scusi, non volevo essere invadente...-

Doveva trattenere quella parlantina velenosa, non poteva essere scontroso già da subito. Doveva almeno provarci ad apparire "normale", la sua pazienza era stata forgiata negli anni alla fin fine. 
Certo che aveva davvero una pronuncia imperdonabile della lingua del posto. Il Kyoihari era copmplicato, certo, ma quella ragazza lo stava  massacrando. Doveva essere straniera.

-Non si preoccupi, signorina. Sto bene, è stato solo un leggero capogiro, ma adesso è tutto passato. Sarà colpa della stanchezza.- 

 
 Le parole uscirono da quella bocca intrisa di acido come una perfetta recita. Un copione che ormai conosceva a memoria.



{La tartaruga}

 Non amava essere un'impicciona, e si sentiva automaticamente respinta da quel ragazzo, quasi le stesse dicendo in silenzio di andarsene, ma allo stesso tempo non sapeva se sarebbe stata una cosa giusta o sbagliata. 
Dopotutto lei non leggeva nel pensier
o.
Le sue pause in silenzio, in cui si prendeva il tempo di osservare le persone, potevano dare l'idea di una fanciulla forse un po' tarda, eppure era piuttosto sveglia, capiva le cose al volo... Quando non riguardavano la matematica... La chimica... Le scienze, la politica o la geografia. O in generale le materie scolastiche in cui era stata ripetutamente rimandata di anno in anno dal proprio insegnante privato.
Risultava unicamente perennemente indecisa e forse un po' volubile dal punto di vista emotivo. 

Non si vergognava a piangere o ridere in pubblico. Era una specie di specchio d'acqua chiara. Si increspava al primo soffio e rifletteva qualunque cosa vi venisse posta dinnanzi che suscitasse la sua curiosità docile e pacata. 
Annuì piano, non proprio convinta per la seconda volta.
Non l'aveva convinta alla prima e nemmeno ora. Spontaneamente aveva mormorato un "Davvero?" Inclinando di lato il capo, come un uccellino, una folata di vento aveva fatto ondeggiare i lunghi capelli di miele scuro.
Si era subito mortificata per tale errore, scusandosi e correggendosi anche immediatamente riguardo un'altra imprecisione vocale. Gli aveva dato del tu all'inizio... Mai, Mai dare del tu agli sconosciuti. 
Era mancanza di rispetto.
Lui però era stato così gentile... Tanto da gelarle il sangue nelle vene, rincarando la dose riguardo al suo stato.
E spingendola a fidarsi ancora meno delle sue parole. 
Quello sconosciuto la... Ghiacciava dentro.
Anzi no... Era come se le stesse soffiando cenere e neve negli occhi.
Non riusciva a guardarlo senza scivolare in una voragine oscura.

Non voleva guardarlo.
Abbassò ancora una volta lo sguardo. 

Una persona normale avrebbe impostato un'espressione alla "se sei tu a dirlo!" Lei... Lei semplicemente fece spallucce strappando con delicatezza il foglio dal blocco, porgendoglielo senza emettere suono, dopo avervi scarabocchiato qualcosa sul fondo. Una scritta incisa di getto sulla pagina, quasi senza guardare.
Il ragazzo prese il foglio quasi fosse stato un obbligo, probabilmente sperava che assecondando quella streamberia sarebbe scomparsa più alla svelta.
Come lanciare centesimi al mendicante insistente.
Ma lei non attese che lui guardasse il disegno, nè ne aspettò un parere. 
Non si soffermò oltre. 
Non notò i suoi occhi sgranati oltre la frangia pallida, nè la palpabile irritazione.
Sistemò  la tracolla sulla spalla ed alzandosi in piedi fece scendere la tartaruga sul palmo della mano che non occupava nemmeno per metà. 
Si voltò dando poi le spalle al giovane sconosciuto e procedendo di qualche passo lungo il viale. 

Era sempre stata così. Passava, andava, non si fermava. Non ricordava nemmeno in che direzione si trovasse l'albergo suo e della sorella, dopotutto ancora non era abituata alla nuova città, ma avrebbe camminato benissimo fino alla mattina dopo, troppo timida per domandare indicazioni, gli unici soldi che aveva con sè erano Lily dato che ancora non si era sprecata a cambiarli, dunque anche i mezzi di trasporto risultavano impraticabili per lei. 

Certo, lei picchiettava sulla spalla degli sconosciuti per domandare se stessero bene o meno e poi la imbarazzava farsi indicare una via o una direzione che... Oh, che via era? E come si chiamava l'hotel? 
Certo che se ci fosse finita davanti l'avrebbe riconosciuto... Tanto valeva continuare a camminare. 
Strusciò leggermente contro la guancia il guscio della tartaruga parlandole a bassa voce in rosè.

-Shakespeare, hai visto i ciliegi in fiore? Sono spettacolari, vero? 
Non ne abbiamo così ad Amber ... E nemmeno a Rubus... -

In rosè, però, erano anche le parole sul fondo del disegno lasciato tra le mani di quel ragazzo strano.
Una scrittura fine ed elaborata che non si sarebbe detta innata come era invece per la ragazza, tanto candida da apparire artefatta nella sua noncuranza della vita. 
Se fosse stata lei stessa quella ammalata, morente, in fin di vita... Forse lo avrebbe accettato come accettava ogni particolare del suo destino. Ogni cosa che non potesse aggirare in punta di piedi. Ogni cosa che non potesse rimandare come meglio riusciva. 
Se glielo avessero chiesto, se fosse stato possibile, si sarebbe caricata sulle spalle il peso di tutte le persone che ne portavano uno sullo stomaco, o magari un groppo in gola, o forse il dolore in fondo al petto. 
Lei avrebbe accettato tutto ciò pur di vedere un sorriso, di riceverne uno sincero da poter imprimere nella propria mente prima che sulla carta. 
Lei era sempre stata una sostituta. Ophelya non era che un riflesso, una macchia di acquerello troppo facile da cancellare. 
Lei non era un pensiero fisso, lei dubitava della propria esistenza ed accettava tutto.
Qualunque cosa fosse. Tentando inoltre di essere il più ottimista possibile, se poteva fare qualcosa... L'avrebbe fatta, sempre. 

Al di sotto di quel disegno dal tratto grigio e triste, realistico come sarebbero state solo le lacrime dell'animo del ragazzo che trasudava come veleno, in un colore più scuro, vi erano solo tre parole che sarebbero potute essere il perfetto titolo di quell'opera.

"Colui che mente" 

I petali dei fiori di ciliegio venivano sospinti dalla brezza primaverile e lei sapeva che forse non avrebbe più intrapreso quella strada. 
Non avrebbe più incontrato quella persona alla quale aveva porto un affronto increscioso.

Tutto questo sarebbe potuto apparire surreale.
Ai limiti del possibile.

Probabilmente quanto le parole che la rincorsero un passo prima che potesse essere troppo distante.
Uno dopo il troppo vicina.

-Aspetta!-

Ophelya si voltò.
 





 NOTA DELLE AUTRICI: 
Ebbene sì, questa è una storia a due mani, ambientata in un universo non esattamente ordinario.
Tutte le peculiarità del mondo in cui i due vivono saranno spiegate più avanti, non disperate e non lasciatevi sconvolgere dai nomi strani e dalle cose... Complicate che avete trovato qui in mezzo.
Unica precisazione che vorrei fare "Ophelya" qui non si legge  "Ofilia" come sarebbe in pronuncia inglese, ma si pronuncia in Rosè, quindi "Ofelai-e" la e alla fine si sente e non si sente--- E' quasi muta in effetti ma non del tutto.
Per il resto spero che la storia abbia catturato almeno un po' l'interesse di qualcuno --  

   
 
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