Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: Doctor_Who    16/02/2009    1 recensioni
Quinta Classificata al concorso "L'Ombra e... L'Angelo" indetto da Eylis. Alle volte la nostra mente crea meccanismi simili all'autolesionismo per lasciarci dentro una sensazione di benessere seguita da un grande vuoto bruciante. Ci mostra immagini che sembrano alleviare le nostre ferite. Oh, ma com'è bruciante il risveglio. Com'è difficile rialzarsi e pensare a quello che è rimasto ad aspettarci, mentre dentro di noi creavamo ferite ancora più grandi.
Genere: Romantico, Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Titolo: Wasted Land of Dreams.

Autore: (DoctorWho)

Tipologia: One-shot.

Genere: Onirico, Melanconico, Romantico.

Avvertimenti: -.

Rating: giallo (°w° )/

Introduzione:

Alle volte la nostra mente crea meccanismi simili all'autolesionismo per lasciarci dentro una sensazione di benessere seguita da un grande vuoto bruciante. Ci mostra immagini che sembrano alleviare le nostre ferite. Oh, ma com'è bruciante il risveglio. Com'è difficile rialzarsi e pensare a quello che è rimasto ad aspettarci, mentre dentro di noi creavamo ferite ancora più grandi.


Aprì gli occhi, lentamente. Le palpebre gli dolevano, livide e stanche. Non si era mai lamentato del suo ruolo nella vita, nonostante si trovasse seduto sui gradini più bassi di una società egoista e venale. Eppure, in rari momenti, il suo corpo risentiva dello sforzo fisico. Essere costretti a muoversi sempre nell'ombra, a nascondere la propria identità e a cancellare le proprie tracce, nonostante la sua attività non fosse equiparabile al lavoro di un garzone o di uno scaricatore di porto, comportava comunque un dispendio di energie, soprattutto mentali, che spossavano lo spirito e il corpo di conseguenza. In quei momenti, dopo essersi trascinato in salvo, si abbandonava a terra, ovunque fosse, sporco di polvere e di sangue incrostato sul volto e sulle mani. Noncurante, poteva allora sentire le sue membra stanche cedere sotto il peso dello sforzo, e adattarsi completamente alle forme del suolo, ogni fibra del suo essere in un contatto primordiale con la superficie. E poi la vista si annebbiava, e i suoni divenivano ovattati. Le sue sopracciglia si muovevano, reattive a quei rimasugli sonori, ma il corpo non aveva la forza di reagire, e diventava uno con la terra sotto le sue dita.

Aprì gli occhi, lentamente. Le palpebre gli dolevano, livide e stanche, ma sapeva che, ovunque si trovasse in quel momento, ogni forma di dolore era una semplice rimembranza di ciò che provava nella vita reale. Non c'era motivo, lì, per soffrire. Un'ombra densa lo avvolgeva, abbracciandolo in una calda stretta, gradevole a momenti, opprimente in altri. Poteva scorgere una fonte di luce, leggera e lontana, che gli permetteva di intravedere il proprio corpo in mezzo a quell'oscurità grigia e scolorita.

Fece un passo, poi un altro, e un altro ancora. Un piede dopo l'altro proseguiva in linea retta fino a che sbatté con una spalla contro una parete. Era nera. Appoggiò le mani contro di essa e queste affondarono nel muro ma, cercando di oltrepassarlo, non ce la fece. Era come se una forza gli impedisse di proseguire. Alzò lo sguardo verso l'alto: ombra, solo ombra, attraverso la quale leggeri raggi di luce filtravano senza però riuscire ad arrivare al suo volto. Cercò di immaginare il loro calore sulla sua pelle, ma non ci riuscì.

Appoggiò la schiena contro la parete, scivolando fino a toccare il suolo e a trovarsi seduto. L'ombra ora lo avvolgeva ancora di più. Non aveva sapore. Ispirò profondamente, e sentì i polmoni riempirsi di quell'aria grigia. Si aspettò di tossire, ma non successe niente. L'ombra non aveva nemmeno odore. Aggrottò le sopracciglia, riflettendo.

“Cosa ci faccio qui?” chiese, ad alta voce, sapendo che nessuno avrebbe potuto sentirlo.

Per questo quando una voce gli rispose sobbalzò, appoggiando le mani contro la parete, pronto ad appiattirsi contro di essa per nascondersi nell'abbraccio caldo di quell'ombra persistente.

“Sei nella tua testa, Komari... sei nei tuoi pensieri...”.

Dall'ombra spuntò una figura. Komari socchiuse gli occhi, sentendo le palpebre bruciare: la figura emanava una luce talmente forte ed accecante da costringerlo a coprirsi il volto con le mani. Man mano che avanzava nell'oscurità, il bagliore scemava. Sgranò gli occhi quando riconobbe la figura.

“Inara...” mormorò, riconoscendola.

Lei, la selvaggia, l'insolente, la donna forte che ricacciava all'interno qualsiasi debolezza pur di non mostrarla ai suoi compagni di viaggio, lei dalla chioma rossa e folta scompigliata dal vento, sempre pronta a lamentarsi e mai a tener la lingua a posto, era lì, di fronte a lui, luminosa e candida. Lei, con quel sorriso, con quegli occhi azzurri come il cielo. Inara.

“È così che mi vedi, quando mi guardi?” chiese lei, osservandosi le mani che brillavano di luce propria.

Komari arrossì, colto nel profondo.

“Questa è la mia testa?” chiese, sviando il discorso.

“Sì... monotona vero?” rispose Inara, avvicinandosi.

Si chinò su di lui, accennando un sorriso.

“Beh... non ho molto a cui pensare... non ho il tempo per farlo...”.

“È preoccupante che ci sia quest'ombra, che avvolge tutti i tuoi pensieri...” notò lei, infilando le dita nella nebbia, creando sbuffi e arabeschi chiari.

Komari rimase in silenzio. Non tutti i pensieri valevano la pena di essere ricordati. Alcuni si trovavano lì perché lui non riusciva a farli andare via, e allora quale metodo migliore se non coprirli con una coltre di nebbia? Sarebbero sembrati meno dolorosi in quel modo?

Sobbalzò, quando sentì le mani di Inara sulle sue guance.

“Cosa fai?” chiese, premendo la schiena contro la parete, ma in quel momento la forza misteriosa che lo tratteneva svanì, facendolo scivolare all'indietro. Con la testa appoggiata al suolo, sentì su di lui il peso di Inara. Le sue mani, ancora appoggiate alle guance, si erano strette leggermente a lui nella caduta. Appoggiando i palmi sul suolo immateriale la ragazza si issò sulle braccia, guardandolo dall'alto.

“Siamo nella tua testa, no?” chiese, per rispondere alla domanda fatta poco prima.

Komari annui, aspettando ulteriori spiegazioni.

“Vuoi forse farmi credere che non sogni di fare quello che nella realtà non potresti mai?”.

Komari arrossì nuovamente. Il suo sguardo cadde sul seno della ragazza. Sussultò, nel rendersi conto del fatto che lei era nuda, appoggiata completamente al suo corpo, emanando un calore pieno di vita, talmente inebriante da esaltargli i sensi: le narici gli si riempirono del suo profumo. Sentì l'affluenza di sangue scorrere verso il suo basso ventre, ma quel gesto lo bloccò.

“Non è questo, quello che desidero...” mormorò, scostandola da sé.

Lei lo guardò con quell'aria da bambina viziata e delusa.

“Non ti piaccio forse?” chiese, inviperita.

“No... non è...” fece per dire lui, ma lei lo interruppe.

“Credi forse che io non sia abbastanza attraente per te? Ho sentito le tue reazioni, lì sotto, quindi non credere di potermi ingannare!”.

“...non si tratta di reazioni fisiche...” mormorò lui, chinando il capo.

La sentiva parlare, ma non riusciva a distinguerne i suoni. Lei gesticolava, la vedeva con la coda dell'occhio. Come poter esprimere quel che provava? Le parole erano di colpo sparire, lasciandolo muto, mentre i pensieri si affollavano, vorticosi, intorno a lui: sua madre, la violenza... l'amore che mai era riuscito a provare dopo quella volta... il dolore bruciante che aveva sentito dentro di sé... la profanazione della sua infanzia, la distruzione della felicità e il sangue caldo che scorreva sulle guance lacerate... la coltre di nebbia si infittiva intorno a sé, fino a quando fu troppa. Troppo calore, troppa oppressione, e i suoni provenienti dalla bocca di Inara che confondevano tutto. E poi, di colpo, sapeva cosa fare.

Si gettò in avanti, stringendola a sé più forte che poteva, perché lei era la sua unica speranza di redenzione. La luce si fece più intensa, fino a cancellare tutto. L'ombra svanì, come se un vento forte l'avesse spinta via in un soffio. Dalla schiena di lei si dipartirono due grandi ali, mentre piume ricadevano intorno a loro, come se nevicasse.

“...ali?” chiese lei, perplessa.

“...è così che t'immagino, quando ti guardo...” sussurrò lui, vergognandosi leggermente della propria visione, così innocente e pudica.

Non si azzardava a lasciarla andare: solo standole vicino la sua testa si svuotava d'ogni pensiero negativo. Solo standole vicino sentiva la possibilità di un futuro.

“Devo andare...” mormorò lei, rompendo quell'idillio effimero.

“...perché?”.

“Devo, perché questa non è la realtà...”.

“Ti prego, non andare... non voglio....”:

“Cosa non vuoi?”.

“Non voglio svegliarmi....”.


Aprì gli occhi, di colpo. Le palpebre gli dolevano, livide e stanche. Sentì granelli di sabbia sotto le mani e riconobbe intorno a lui le pareti di una cantina. Fuori la notte regnava e il silenzio era rotto solo dal cicalare degli insetti. La realtà...

Sentì una lacrima rigargli il volto, carica della consapevolezza che tutto sarebbe continuato come prima. Bruciava.

  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Doctor_Who