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Autore: _sonder    08/10/2015    2 recensioni
Ti ho dato appuntamento alla stazione...
| Partecipa al contest L'amore è l'incontro fra due fiori delicati!, indetto da zerozero91 sul forum di EFP |
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore (sul Forum e su EFP): _Sonder/_sonder

 

Titolo: Come ti vedo

 

Fandom: Nessuno (storia originale)

 

Nome fiore: Anemone (ti sento lontana)

 

Prompt usati: Pioggia, Appuntamento + Immagine 23

 

Introduzione: Ti ho dato appuntamento alla stazione...

 

NdA (facoltative): POV della protagonista, l'immagine è ripresa due volte, ma con una descrizione differente e pensata per essere "in movimento". 

Come ti vedo


C'è un bagliore di luce che giunge dal piccolo oblò nel bagno: mi fissa negli occhi e mugolo, finché non apro le palpebre. 
Dalle finestre, le nuvole appaiono come l'occhio tumefatto di un giorno senza riposo; un giorno feriale cerchiato sul calendario, sull'agenda personale: avvisi e post-it parlano all'unisono del nostro appuntamento.
Stordita, getto un'occhiata al comodino: mi baci una guancia, lasciando una traccia di rossetto e i tuoi capelli mi annebbiano la vista; come la fronda di un albero mi coprono e tento di filtrare ciò che si trova dinanzi agli occhi. Non ricordo più cosa stessi guardando, ora che carezzo il vetro del portafoto. Una sottile lastra divide le dita dalla tua immagine; ciononostante, ti so più lontana: lo dicono i libri che nessuno ha più sfogliato da quando sei partita, le tarme nella tua cassettiera e la polvere accumulata sulle mensole della scrivania. Penso di già ai commenti sarcastici che riserverai al mio disordine creativo, al letto perennemente sfatto, conciato come la mia faccia senza un velo di trucco.

È un mese che non ti vedo, ma scrollo dalle spalle il peso dei giorni trascorsi aspettando d'incontrarti. Sono queste ore a non scorrere come vorrei: si allungano e danno concretezza ai dubbi, ai timori. Soltanto ieri ho chiuso la telefonata mandandoti al diavolo; hai pronunciato il mio nome, come per placare una bambina impaziente, ma ho preferito abbassare il ricevitore e scagliare un calcio ai tuoi cuscini, piuttosto che cedere a un tono comprensivo.

L'appartamento porta i segni dei mobili sui muri. A volte mi sembra di aver impiegato anni a crescere dei bambini diventati tanto alti da lasciare il nido; e a me, la loro assenza ha lasciato soltanto cicatrici e rughe. Come un morbo si è diffusa pure la tua partenza: i vicini evitano di fermarmi, perché non sono più l'animale curioso in tua compagnia. Il mancato saluto di un condomino mi porta a pensare al modo in cui schiarivi la voce e porgevi un buongiorno, per essere certa che riconoscessero la nostra esistenza, la nostra relazione. 
Non ho il tuo stesso coraggio, non ho l'esigenza di schiaffeggiare con parole insolenti chi mette bocca fra noi...

Sventolo la mano: la moka bollente rilascia un alito di fumo e metto in bocca il dito scottato. Il caffè nero liscia la gola e scorre, amaro, sino a tirarmi le guance. Assottiglio gli occhi e il desiderio di toccarti, di scorrere le labbra fra le tue cosce e bere, e sentirti chiedere di più con un miagolio protratto, mi toglie il fiato. Ho fame di noi, dei momenti in cui erano i miei capelli a solleticarti le guance e il viso si sporgeva sulla tua spalla, guancia contro guancia, col respiro pronto a baciarti e la stretta dell'abbraccio più intensa.
Ero viva in quel mondo piccolo, soffocante; e la felicità si trasformava in debole tristezza: il mio ovale solcato dalle lacrime, era a un soffio dal tuo, roseo e deciso. Le nostre differenze erano solo motivo di unione; il contrasto della carnagione, un pretesto per esplorare la pelle e imbarazzare l'altra con baci più audaci. Potevo adeguare il battito al tuo e ascoltare la nostra marcia.

Abbraccio la cartella: visi spenti dondolano nel vagone passeggeri. A tratti, i fasci di luce scuotono il buio e lo colorano di sfumature fastidiose. Stringo le palpebre e continuo a vedere zampilli acidi che saettano nell'oscurità. Lampioni delle strade e fari delle gallerie lasciano un'impronta sugli sguardi assopiti dei viaggiatori. C'è chi sorride a un piccolo fagotto, da cui spuntano le guance rubiconde di un neonato; c'è chi sbadiglia e non trova una singola faccia che sappia interessarlo. Per una volta, sciolgo la tensione e non resto indifferente a ciò che mi circonda, ai visi che non ricorderò più tra qualche giorno. Sorrido al cucciolo d'uomo fra le braccia della madre e un tunnel inghiotte ogni traccia di chiarore. La notte annuncia di essere pronta a tornare, ma il mattino nuvoloso riprende la sua corsa.

Il pizzo dell'intimo produce un'insistente sensazione di prurito a cui cederei volentieri, se non fossi incastrata tra braccia alzate e bagagli ingombranti. Al suono della carta di un quotidiano, si aggiunge una fisarmonica stonata. Assumo un'aria più rigida e riservo occhiate taglienti a chi ha trovato un posto a sedere. C'è diffidenza reciproca e un clima di intolleranza, quando la musica s'interrompe e giunge il momento dell'elemosina. Non m'importa e lancio una moneta nel bicchiere di carta: oggi potrò vederti. La certezza di un solo desiderio mi percorre la pelle ed espande i polmoni, come se avessi più forza: ridurre la distanza... non saperti più correre sul filo di un telefono, con la voce impastata dalla stanchezza e i minuti sottratti al riposo; non saperti più piatto ritratto di un ricordo, nome scritto di fretta fra tanti altri su un moleskine. Fra noi c'è sempre stato questo gioco a inseguirsi, come fra giorno e tenebra.

Porto con me un ombrello: una debole scusa per tenerti vicina e sbirciare meglio la scollatura. Rideresti del mio gesto, ma ne saresti complice, in barba al decoro e alle etichette. Forse hai messo quel gloss alla fragola, che ti lucida le labbra e le rende gommose; o hai desistito, perché ricordi il pessimo soprannome che ti è costato: fruitjoice.
Salgo sulle scale mobili, convinta di vederti spuntare da un angolo, dietro una coppia di amanti. Una parte di me non ha ancora coscienza del tuo arrivo e ti immagina in un supermercato a scorrere i codici a barre dei prodotti, a supervisionare il banco dei prodotti freschi. È una parte di me che ti chiede cosa pensi, mentre ti dedichi al lavoro e allo studio. In preda al nervosismo, arriccio le punte dei capelli e mi figuro la tua schiena e la mano con cui massaggi un fianco. E la stanchezza della tua routine mi ricorda quanto sei distante, persino con la mente... al punto che sentirti sussurrare ti amo è diventato un rituale, non un gesto spontaneo.

La stazione brulica di un fiume di individui e gruppi di uomini fermi come massi in mezzo alla corrente. Assomiglia alla pila di bollette e alle aspirazioni che ho perso. Immergersi in questo letto di persone, mi spinge a stringere la cartella con le tue iniziali, nel timore di perdere la ragione per cui sono qui. Trattengo ogni spartito, scaldo la voce come se potessi sedurre il mondo e ciò bastasse per ottenere il riconoscimento che merito.

Ho detto che tornare dai tuoi non sarebbe stata una sconfitta, mentre ero curva sulla tua spalla e serravo la camicia fra le dita. 
A ogni parola le labbra erano tirate in una smorfia e le mordevo, permettendo alle lacrime di scorrere. E mormoravo all'orecchio frasi di conforto, senza sapere di aver destinato il nostro rapporto all'eutanasia. A poco a poco, con dolcezza, i nostri sentimenti si sarebbero spenti in città dove vivevamo per conto nostro.

Il fragore di un tuono si sparge nell'aria: ruba spazio agli scrosci dell'acqua e al loro cadenzare pesante e ripetuto, come passi di un pendolare stanco. D'un tratto, le banchine diventano silenziose e tristi e i musi delle locomotive conoscono colori più vividi, bagnati dalla pioggia.

Poi, il lampo annuncia il nuovo tuono, e le spalle dei passanti si stringono nei cappotti. Poche teste si sollevano verso l'alto, altre cercano riparo sotto un quotidiano o presso la tettoia del negozio più vicino.

Io, invece, apro l'ombrello rosso e ne faccio un tetto che presto dividerò con te: perché oggi devo vederti e intonare nuovamente canzoni d'amore.

Non ti afferro, non ti ascolto. Dal tuo binario sfilano passeggeri intimoriti dall'acqua che gronda e si è fatta manto. I miei occhi squadrano i pilastri e il paesaggio di colpo ingiallito: la limpidezza delle gocce si corrompe e macchia di ghiaia ed erba, di suole e fazzoletti. Una sfumatura di seppia copre i colori delle palazzine e smorza la vita.

Sorrido e la pelle tira agli angoli della bocca. Hai un aspetto più adulto e ti affretti a passare accanto alle coppie, come infastidita. Il foulard rosso svolazza e sembra cercare il mio ombrello. 
Faccio un passo avanti e il cuore urla alla mente di mettersi da parte, di lasciare i dubbi per un'altra occasione. Ti bagni i capelli e ti volti. Qualcuno ti chiama e corre per dividere il tuo soprabito... è un bambino, con i tuoi occhi e i capelli a caschetto, più simili a una scodella; una scodella che sorride.

Guardo gli orecchini che pendono fra i tuoi capelli biondi e si mescolano in una nota d'oro; guardo la mano piccola che cerca le tue dita, con la stessa incertezza che avrei io, bisognosa di una direzione, di conferme. Sei una madre, ora? Mi sento ridicola, l'ombrello ancora aperto sopra la mia testa e la pioggia che si abbatte e ristagna sul terreno. Resto piantata lì, un ciuffo d'erba ai margini delle rotaie, e osservo dal basso la vita che mi sono lasciata sfuggire. Nelle pozzanghere i riflessi appaiono invecchiati, come immagini su specchi rovinati dalla ruggine. Tiro le labbra e mi chiedo se stiano sbiancando; nella pozza limacciosa ai miei piedi c'è soltanto il pallido scorcio di un'insegna del fast food. Giro le chiavi del nostro appartamento fra le dita. Non pensavo di pagare tanto caro uno sfratto: è un'amarezza che non riesco ad accettare. Ascolto il tintinnio del metallo: non avrei dovuto tenere questa copia del mazzo... la tua. Il suono mi conforta come se potessi tornare indietro e risparmiarmi d'immaginare la profondità del solco fra le nostre vite.

Esito, quando avverto i tuoi occhi su di me. Avanzi, non una volta abbassi lo sguardo a terra; sono tante le domande che voglio porti per abbattere la lontananza. Mi superi e cerco l'angolo in cui ti sei inginocchiata. 
 Saluta la zia! Ciao!

Sei ancora in ginocchio, gli occhi lucidi e un fazzoletto che ti copre il naso. Sei qui: eppure, l'espressione vaga e quando non trova ciò che desidera, si carica di lacrime a puntare una fotografia e un mazzo di fiori, parole sbiadite e schede di ricarica infangate. Hai anche tu delle domande, ma il fischio del treno in partenza copre la mia voce; sento la gola raschiare parole da un barile vuoto. Sono come questa pioggia, che cade e non ha altro da raccontare, se non il fresco che porta, il sentore di autunno, la malinconia di un giorno perduto. Ti ho dato appuntamento in un pomeriggio di pioggia. E vorrei avvicinarmi, portare alla bocca una ciocca di capelli, lasciar andare le mani sui tuoi seni e far mio il brivido che inarca la tua schiena al lieve tocco delle dita. Vorrei, vorrei: vorrei ogni cosa che non ho potuto ed è caduta, rotolando su un binario morto. C'è solo il fischio del treno in partenza, sovrastato dall'annuncio di una donna.

Io, che scivolo via come acqua, guardo me stessa in una fotografia e cado, priva di voce, in un angolo in cui si piange ancora il mio ricordo. Non posso darti risposte e continuo, continuo ad aspettarti ogni anno, a sentirti distante nell'età che per te passa e per me è semplice presente, semplice scoperta di nuovo cambiamento sui tuoi tratti. A te, che ancora ti domandi cosa mi ha spinto a saltare, non ho da offrire nulla. Perché a nulla vale l'esplosione di uno scroscio, la disperazione di un sentimento e l'inganno della mente. A nulla vale un ombrello che non si può dividere in due.

  
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