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Autore: Gwen Chan    09/10/2015    4 recensioni
"Ho trovato un bambino" aveva annunciato Berwald, senza preamboli, togliendosi il pesante cappotto di ritorno dalla passeggiata pomeridiana.
Come se fosse stata la cosa più naturale del mondo.
[...]
Di norma i bambini non si trovano per strada; per strada si trovano cianfrusaglie perse da gente distratta e frettolosa, per strada si trovano mozziconi di sigaretta, a volte un cane abbandonato - come il loro, Hanatamago, prima che lo adottassero s’intende - ma non i bambini. Soprattutto quando si passeggia per i boschi svedesi.

[Ikea Family][Human!AU][Snaketalia]
Genere: Fantasy, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Finlandia/ Tino Väinämöinen, Inghilterra/Arthur Kirkland, Principato di Sealand/Peter Kirkland, Scozia, Svezia/Berwald Oxenstierna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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A Michael
 
 
Prima che finisca l’estate
 
"Ho trovato un bambino" aveva annunciato Berwald, senza preamboli, togliendosi il pesante cappotto di ritorno dalla passeggiata pomeridiana. 
Come se fosse stata la cosa più naturale del mondo.
Era giugno e la neve, dopo un inverno insolitamente rigido, aveva da poco cominciato a sciogliersi. 
Tino sollevò il naso dalla rivista di design che lo aveva tenuto impegnato per tutto il pomeriggio, sfilando le cuffie che pompavano musica heavy metal  al massimo del volume consentito dal lettore mp3. Era consapevole della sindrome del buon samaritano che affliggeva il compagno, lui stesso ne era stato oggetto tanti anni prima, eppure la notizia lo lasciò interdetto. 
"Un bambino?" ripeté. 
Di norma i bambini non si trovano per strada; per strada si trovano cianfrusaglie perse da gente distratta e frettolosa, per strada si trovano mozziconi di sigaretta, a volte un cane abbandonato - come il loro, Hanatamago, prima che lo adottassero s’intende - ma non i bambini. Soprattutto quando si passeggia per i boschi svedesi.
"Si sarà perso. Domani lo portiamo dalla polizia, sono sicuro che qualcuno lo starà cercando."
Tuttavia posò il giornale sul tavolino di fronte a lui, rigorosamente Ikea come del resto l'intero mobilio della casa, perché c'era di mezzo un bambino, possibilmente spaventato e possibilmente affamato. La mente corse a quando lui stesso si era trovato in una situazione simile, senza domicilio, soldi o lavoro. Berwald lo aveva raccolto in una stazione della metropolitana di Stoccolma, più morto che vivo per un principio di assideramento, e Tino, per la prima volta dopo mesi, si era svegliato in un comodo letto, con un bagno caldo e un pasto abbondante che lo aspettavano.
Il finlandese aveva messo in conto numerosi possibilmente. Non furono comunque sufficienti. 
Il bambino - sempre che fosse corretto adottare tale termine, nell'accezione socialmente accettata, perché forse sarebbe stato più consono qualcosa di neutro, come cucciolo – quasi scompariva nel maglione di Berwald, che in altezza superava il metro e ottanta, quello a greche blu e gialle comprato durante l'ultimo viaggio in Islanda.
Aveva capelli biondi, lisci, e occhi azzurri, vivaci, che facevano capolino dal collo del pullover, tirato su fino a coprire il naso.
Le somiglianze con un essere umano terminavano lì: dalla cintola in giù, il ragazzo aveva il corpo di un serpente, con spire, squame e tutto il resto. 
"Berwald!" esclamò Tino. 
Il giovane credeva con fermezza nell'esistenza di gnomi, fate e simili esseri; era il tipo di persona che lascia offerte per gli elfi della casa, per ingraziarseli, o che a vent'anni scrive ancora la letterina a Babbo Natale. Nonostante non fosse mai stato in grado di vedere un singolo esponente del Piccolo Popolo, a differenza dell'amico Lukas, il quale conversava con i troll come nulla fosse, provava un profondo rispetto per simili creature.  Tale rispetto finiva col concretizzarsi in un unico dogma: non mescolare i due mondi.
Non sbirciare i riti delle fate.
Non mangiare il cibo degli gnomi.
Non uscire di casa quando gli elfi oscuri sono a caccia. 
La presenza del bambino-serpente annullava anni di principi. 
Nonostante ciò, non si lamentò: conosceva il grande cuore di Berwald, uno dei motivi che lo avevano portato a considerarlo qualcosa di più di un amico, sebbene l'appellativo di moglie che si ritrovava appiccicato addosso non gli andasse proprio a genio. 
"Come ti chiami?" chiese, chinandosi per essere faccia a faccia col piccolo. Non ottenne risposta, né a quella né a simili domande che seguirono. Il bambino si limitava a brevi soffi, che rivelavano una rosea lingua biforcuta. A Tino venne il dubbio che non parlasse il loro idioma. O che non parlasse proprio. Ora che lo guardava meglio, si rendeva conto che non poteva avere più di cinque anni. 
"Hai fame?", imitando il gesto di portarsi del cibo alla bocca.
Questa volta il bambino fece un cenno di assenso.
 
Peter, così avevano deciso di chiamare il ragazzo, si rivelò una creatura sveglia. Imparò lo svedese e il finlandese con sorprendente rapidità, era curioso, intelligente. Se non fosse stato per certe esigenze legate alla sua natura, come la muta annuale e una tendenza a mettere troppa forza nei suoi abbracci, non sarebbe stato diverso da centinaia di altri bambini.
Succedeva che Tino si preoccupasse, nel vederlo sempre solo, privo della compagna di persone della sua età; Berwald, che aveva la passione del bricolage, gli aveva costruito splendidi giocattoli per il suo lato umano e un quadro speciale, in giardino, fatto di assi intrecciate, dove arrampicarsi o rimanere acciambellato per ore. Peter adorava crogiolarsi al sole. 
Oppure, nelle lunghe sere invernali, si accoccolava vicino al camino, un occhio semi aperto rivolto alla televisione, a guardare i Moomin. Nonostante non andasse in letargo, d'inverno lo coglieva sempre una profonda sonnolenza. L'armadio dei maglioni, quello che lo faceva starnutire con l'odore di naftalina, diventava allora il suo posto preferito. 
"Ho conosciuto una persona" cinguettò Peter allegro, sdraiato supino sull'erba tagliata di fresco. Le chiazze di squame ocra sui fianchi appena abbronzati rilucevano nella luce pomeridiana. 
"Una persona? Ti ha visto? Ti abbiamo detto di stare attento!"
Oh, che avrebbe fatto? Berwald aveva ragione a non concedere troppe libertà a Peter. Il ragazzo rotolò sulla pancia, frustando l'aria con la coda da biscia. Rideva, mostrando le finestrelle dei denti da latte che avevano cominciato a cadere.
"È in vacanza dall'Australia, è simpatica, non preoccuparti" minimizzò. Chiese poi la merenda e strisciò a prendere il giornalino di supereroi che Tino gli aveva comprato quella mattina. 
Già, Peter non era diverso dagli altri bambini. 
 
A otto anni raccontò di essere stato separato dalla propria famiglia, per errore, il giorno in cui Berwald aveva deciso di adottarlo. "Il nostro popolo non si avvicina alle vostre case. Voi ci decapitate, ci avvelenate, avete paura di noi, siete pericolosi. Questo ci insegnano."
Fu una delle poche volte che parve marcare la differenza tra la sua vera famiglia e quella attuale, tra la sua razza e gli esseri umani. 
"Non parlare così a tua madre" lo rimproverò Berwald. Sgridava Peter raramente e quelle poche volte perché il bambino guardava troppo televisione, a suo dire.
"Non è nulla. E non sono sua madre!"
L'episodio era caduto nel vuoto e, man mano che le candeline sulla torta di compleanno di Peter aumentavano, Tino e Berwald si erano convinti che nessuno si sarebbe mai presentato a reclamare il ragazzo. 
 
"Papà, la porta!" urlò il giovane, quasi tredicenne, spaparanzato sul divano. Sgranocchiava delle patatine, sbriciolava sul tappeto, e navigava su Internet. Si era fatto tanti amici, grazie ai social network, dove poteva nascondersi dietro a uno pseudonimo. La vecchia Hanatamago uggiolava ai suoi piedi, metaforicamente parlando.
Udì il familiare cigolio delle assi dell'ingresso, poi un "oh". 
"Peter!"
Lo trovò strano. D'abitudine, in presenza di estranei, gli veniva intimato di andare in camera e di non farsi vedere o sentire. Soltanto pochi amici dei suoi genitori erano al corrente della sua esistenza. 
"Peter!"
Il suo compleanno sarebbe stato solo tra un mese. Non aveva rotto nulla. O, magari era lo zio Mathias  con uno dei suoi regali. L’ultima volta gli aveva portato un bracciale di cuoio di foggia vichinga.
"Sì?" domandò, semi nascosto dietro l'appendiabiti. 
"C'è una persona che ... Vuole vederti."
Titubante, Peter strisciò verso l'uscio. Lentamente. Percepiva un'insolita tensione nell'aria, pesante, diversa da quella di quando Tino e Berwald litigavano, quelle rare volte, e non gli piaceva per nulla. Poi lo sconosciuto lo chiamò per nome, il suo vero nome, il nome che gli uomini non possono pronunciare. 
"Non lo voglio vedere!" e fuggì in camera. Sbatté con violenza la porta, di proposito, per tenere lontana l'onda di ricordi che la visita aveva scatenato. Si tappò le orecchie per non udire la ninna nanna della sua vera mamma; tirò su col naso e si strofinò le lacrime sulle guance. Fuori dalla finestra la Saab di Tino frenò bruscamente nel vialetto. Un minuto per scaricare le borse della spesa, tre per arrivare alla porta, entro cinque anche lui avrebbe incontrato l'ospite. 
Suo fratello.
Quella sera Peter non scese a cena. Acconsentì, però, a lasciare entrare Tino nella sua stanza, con un piatto di pesce tiepido e un bicchiere di latte. 
"E ho comprato il salmiakki" lo informò Tino. Peter si strinse nelle spalle: la liquirizia salata gli piaceva - quando crescevi con i piatti di Tino finivi con l'abituarti a tutto - ma ora non gli suscitava particolare interesse. Comunque divorò il cibo, perché non aveva mangiato a merenda e aveva fame. Tanta. Solo quando i piatti furono vuoti, Tino chiese spiegazioni per il suo insolito comportamento. 
"È mio fratello. È una persona antipatica! È stata colpa sua se mi sono perso! Lui non mi faceva mai giocare con i sui amici, diceva che ero troppo piccolo! Fa tanto il gradasso!"
Incrociò le braccia sul petto, prese una pallina di liquirizia, se la mise in bocca e cominciò a succhiare. "Non si è mai preoccupato di me!"
“Non ci hai mai detto di avere un fratello.”
“Perché è così.”
 
Quando Peter aveva bucato il proprio uovo, la sua famiglia aveva già abbandonato l'abbazia in rovina, nella brughiera inglese, dove da secoli il clan si era stabilito, per visitare dei parenti in Svezia. Gli uomini-serpente adulti, infatti, possono mutare la propria coda in un paio di gambe umane, per attraversare il mare, clandestini o, occasionalmente, ospiti, sui mostri di metallo che solcano le acque. Detestano gli aerei.
La visita sarebbe dovuta durare solo poche settimane, ma una serie di fattori, compreso l'arrivo imminente dell'autunno e la nascita di Peter aveva rimandato la partenza. I cuccioli di echidna, così gli uomini-serpente chiamano se stessi, non amano viaggiare.
 
"Dopo che i miei fratelli avevano cercato di nascondersi in un ... Come si chiama? Container. Ecco, dopo quell'episodio, fu deciso che saremmo tornati in Inghilterra all'arrivo dell'estate. Oh, grazie!"
Tino finì di versare la tisana di erbe. Mise in tavola i biscotti al burro. Berwald era alla seconda tazza di caffè, di tanto in tanto grugniva qualcosa in direzione dell'ospite. Arthur, così si era presentato. Era per metà biscia dal collare, come Peter.
"Ma lo avete perso" fece notare Tino. Eppure non c'erano dubbi sulla parentela che legava Peter e Arthur, sebbene nessuno dei due chiamasse l'altro col nome umano. Di più, nelle possenti spire grigiastre, chiazzate di nero, che distese avrebbero raggiunto i due metri, Tino poteva vedere come sarebbe diventato Peter. C'era qualcosa di affascinante in un echidna adulto, nella fluida eleganza dei movimenti, nell'umano che scivolava nel rettile senza soluzione di continuità, dalla giacca di buona fattura alla nudità delle squame. Col passare dei secoli, mentre le metropoli si espandevano, gli uomini-serpente avevano affinato l’abilità di nascondere la propria natura, al punto da celare la coda per un tempo sufficiente a lavorare in mezzo agli esseri umani. Dalla velocità con cui Arthur era tornato al suo vero aspetto si capiva come una simile finzione causasse loro un profondo fastidio.
“È stato un incidente.”
 Quel giorno, quando avevano perso Peter, erano successe molte cose. L’intero assembramento di zii e cugini aveva fatto a gara a sabotare la partenza; suo padre si era convinto di aver smarrito i biglietti per la nave e aveva ripercorso a piedi l’intera strada dalla casa al porto, salvo scoprire che i biglietti erano sempre stati nella tasca del giaccone da neve; sua madre distribuiva ceffoni come caramelle; i fratelli si lanciavano il compito di fare da baby sitter a Peter come nel gioco della patata bollente. Tutti erano molto irritati per il soggiorno prolungato lontano da casa. Alistair, soprattutto, minacciava di rompere qualunque cosa gli fosse capitata sotto mano se avesse dovuto vedere un altro sole di mezzanotte.
Infine l’ingrato dovere di fare da balia al fratellino era toccato ad Arthur, all’epoca in piena ribellione adolescenziale, con un paio di piercing alle orecchie e un tatuaggio sulla schiena. Oh, quanto avevano urlato mamma e papà. Di fatto, ad Arthur, del più piccolo della famiglia non importava poi molto. “Vai a giocare in giardino! Sto leggendo!” si limitava a ripetere, esasperato, fermo da mezz’ora sulla medesima riga, perché Peter gli tirava contro una pallina di gommapiuma, gli tirava la coda, lo punzecchiava. Prendeva la rincorsa e gli si gettava addosso a peso morto. “Sei proprio antipatico, lo sai? Sei antipatico, brutto e cattivo!”
Voleva solo un po’ di tranquillità, una tregua dalla continua cantilena di “mi annoio, ho fame, ho sonno, ho caldo.”
Non immaginava che Peter sarebbe stato capace di scavalcare la staccionata o che si sarebbe avventurato nei boschi, nonostante gli avessero più volte intimato di non farlo.
“Pensavo che con il buio sarebbe tornato a casa, ma siamo al nord e qui d’estate il sole tramonta tardi. Quando tramonta.”
Per una settimana la foresta era riecheggiata del nome di Peter, di soffi e sibili; gli adulti avevano abbandonato la vista umana per sondare l’ambiente con la visione termica, facendo guizzare le lingue nell’aria, con affanno crescente.
C’erano stati urla, pianti, accuse.
Lo avete trovato ? È colpa tua … pensi sempre a te stesso … vostro fratello è piccolo. E altre frasi simili. A distanza di anni si confondevano e mescolavano nella loro banalità.
Midispiacemidispiacemidispiace.
“Partimmo, non avevamo molta scelta. Avere dei biglietti di seconda classe era stato un colpo di fortuna, viaggiare nella stiva non è piacevole. È umido, sporco, freddo. Solo nostro padre rimase indietro. Ha cercato Peter per mesi. Nostra madre non è più stata la stessa.”
Le dita strette attorno alla tazzona di tisana tremavano.
“Poi un viaggio di lavoro a Stoccolma mi è parso un … segno del destino. Sapevo che la vostra era l’unica abitazione vicina alla nostra, per chilometri. Vi ho osservato a lungo.”
 
La lancetta corta dell’orologio aveva compiuto numerosi giri attorno al proprio perno prima che Arthur avesse finito di parlare. Furono poste numerose domande. Col senno di poi, Tino avrebbe fatto a meno di alcune informazioni. Che nella casa sul laghetto vivesse un’intera famiglia di uomini-serpente poteva anche passare; Berwald conosceva di vista la zia di Arthur, una donna gentile dai capelli grigi sempre raccolti a treccia, che amava fischiettare e sembrava avere una passione per il cibo pronto, a giudicare dalle periodiche visite del furgono dei surgelati.
La scoperta che gli echidna erano quasi immortali, invece, lo sconvolse.
“Perché non ce lo hai detto?”
Peter fece spallucce. La consapevolezza che Arthur aveva conversato con i suoi genitori, nella medesima cucina dove ora piluccava di mala voglia dell’uva, lo rendeva di cattivo umore. Disse che non lo credeva importante. Sotto al tavolo, la coda si attorcigliava attorno alle gambe della sedia, al ritmo del suo nervosismo. Strinse tanto da staccarne una.
“Peter!”
“Scusate.”
“È questo il problema. Noi ti vogliamo bene, ti abbiamo cresciuto, sei nostro figlio …”
“Questo non cambierà le cose” borbottò Berwald. Tino lo ringraziò.
“Ma non sai controllare la tua forza e Arthur ha detto che hai bisogno di addestramento. Non sai come vivere nella Natura, perché non te lo hanno insegnato. No, i nostri campeggi non contano. Non sai mutare, perciò ti è impossibile trovare lavoro nel mondo umano.”
“Molte persone lavorano da casa. E c’è tempo! Ho tredici anni!”
“Peter …”
“No, non voglio sentire!”
Strisciò via, sbattendo volontariamente tutte le porte. Tutte. Alcune anche più volte. Si chiuse in camera, a chiave, e questa volta non ci fu verso di farlo uscire. Il quadro svedese della sua infanzia dondolava tristemente al vento.
I due mondi non devono mescolarsi.
Il pensiero che adottare un cucciolo di echidna non fosse stata una buona idea aveva tormentato Tino per anni, come un tarlo, subdolo e logorante. In diverse occasioni si era ripresentato, ad esempio quando Peter faceva i capricci – raramente – e lui si convinceva di essere un pessimo padre. O una pessima madre. Si chiedeva se anche Berwald nutrisse i medesimi dubbi, dietro l’espressione perennemente corrucciata, così poco adatta alla gentilezza e alla premura dell’uomo. Mathias, che con Berwald aveva frequentato il liceo, un giorno aveva raccontato che lo svedese da ragazzo era stato una specie di teppista, dedito a bevute e bravate.
“Mi prendi in giro!”
“No, eravamo in bande rivali.”
Ecco, Peter sarebbe scappato di casa e si sarebbe unito a una banda di motociclisti o sarebbe diventato un fenomeno da baraccone. Venite a vedere il meraviglioso ragazzo serpente! Affrettatevi!
“Gli passerà.”
Berwald gli accarezzò i capelli e il viso paffuto. Tino sospirò e si accoccolò contro il petto del compagno. Lo svedese aveva la pelle fredda, ma non gli dava fastidio. Ah, quanto poteva essere difficile l’adolescenza? La sua era stata caratterizzata da un’ossessione per i gruppi heavy metal, il colore nero e i teschi.
“Speriamo.”
 
Peter non festeggiò il quattordicesimo compleanno con loro. Né nessuno dei compleanni successivi. Arthur doveva aver informato i parenti del fortuito ritrovamento, perché non ci fu giorno che il campanello di casa non suonasse. Come accade con i funghi che aspettano la pioggia per sbucare nel sottobosco, di colpo la zona si popolò di uomini-serpente, donne-serpente, bambini-serpente. La notizia che Peter era vivo fu sufficiente per una sfilza di zii e cugini e fratelli a superare il timore di avventurarsi nelle terre degli uomini.
“Molti di noi preferiscono ancora non farsi vedere da voi” aveva spiegato Arthur.
Più Peter si rifiutava di ascoltarli, più diventavano insistenti. Non importava che ai suoi occhi fossero dei perfetti sconosciuti, perché le deboli sensazioni che la memoria corporea aveva conservato non erano sufficienti a generare un legame, che per anni lo avevano avuto a un passo e mai, mai avevano provato anche solo a cercarlo. E ora lo volevano strappare dalla sua famiglia! No, loro non erano la sua famiglia. La sua famiglia erano Tino e Berwald e Hanatamago. E Lukas, Emil e Mathias. Persino l’amico strano di Mathias, Jan, quello che fumava sempre erbe dall’odore pungente, quelle che facevano danzare forme colorate davanti agli occhi, era più famiglia dello stuolo di presunti parenti.
Su una cosa però avevano ragione, sebbene Peter non lo avrebbe mai ammesso: vivere tra quattro mura cominciava a stargli stretto. Sentiva il richiamo dell’erba, della musica di rami che scricchiolano, di una pietra bollente su cui sdraiarsi e non pensare a nulla.
 
Andò avanti per mesi, finché uno di loro non decise di cambiare approccio. Esisteva un motivo se Alistair veniva chiamato La Vipera delle Highland, al di là dell’essere un marasso, o se chiunque si teneva a debita distanza quando era di cattivo umore, fatto abbastanza frequente, specialmente se beveva – e accadeva spesso. Faceva il pastore, qualche volta banchettava con una pecora intera, e provava un profondo astio per gli esseri umani, nonostante alcuni dei loro costumi lo affascinassero e avesse un debole per la birra, il whisky e le sigarette. La lana gli causava irritazioni, perciò non era insolito vederlo a torso nudo in pieno inverno, le rare volte che abbandonava la propria tana, una catapecchia nel nord della Scozia.
A differenza degli altri, non pensò nemmeno di bussare alla porta principale. Di mattina presto si piazzò sotto la finestra della camera di Peter, che era al primo piano, attese che essa venisse aperta per il ricambio dell’aria e vi si infilò senza fatica. I quasi quattro metri di lunghezza di sicuro furono utili. Batté con la coda un potente colpo sul parquet. Peter, che aveva i sensi fini, si girò di scatto, l’auricolare destro ancora infilato nell’orecchio.
“Hyss …”
“Ne è passato di tempo.”
Il rapporto tra Peter e Alistair – Hyss – era sempre stato caratterizzato dallo strano legame che unisce il fratello più grande della nidiata al più piccolo. Alistair non pativa la sindrome del “fratello di mezzo”, i suoi dispetti avevano per oggetto preferito Arthur, per cui Peter  finiva col beneficiare della sua protezione. Il ricordo di quei giorni si limitava al retrogusto che un odore lasciava in bocca, ma Alistair lo aveva cullato tra le braccia muscolose e lasciato sonnecchiare tra le sue spire. In breve, Peter era più disposto ad ascoltarlo di quanto non lo fosse stato con tutti i suoi parenti messi insieme. Anche perché Alistair non era tipo da tollerare capricci di sorta; non si fece remore a mollare due ceffoni al minore, il quale, non abituato a riceverne, si ammutolì.
“Basta con queste scenate! Domani, al fiume.”
Se ne andò prima che Peter avesse l'opportunità di replicare.
 
Sarebbe troppo lungo raccontare i numerosi eventi di quell’anno o seguire passo passo il severo addestramento cui Alistair sottopose Peter, con poche pause e poca attenzione alle lamentele. Passarono un altro inverno e un’altra primavera. Venne di nuovo l’estate e ai primi di luglio, Alistair comunicò la sua volontà di tornare in Scozia. Era via da quasi otto mesi e le telefonate dal ragazzo assunto per badare alle pecore in sua assenza si erano fatte sempre più insistenti. "Quell'imbecille", lo udiva borbottare a volte Peter.
“La nave parte dopodomani” comunicò. Diede un biglietto a Peter, che da poco cominciava a padroneggiare l’abilità da muta-forma, e si allontanò.
 “Credevo sarebbe rimasto con noi fino ai diciotto anni” rivelò Tino, dall’umore già rovinato per la recente morte di Hanatamago.
“Hm … se è felice”
“Mi sentirò solo.”
Lo ripeté a Peter, al porto, stritolandolo in un lungo abbraccio. “ È strano vederti così” aggiunse, indicando le gambe del ragazzo.
“Torna a trovarci!”
“Peter!”
La sirena della nave suonò.
“Arrivo!”
 
“Mi è sempre piaciuto il mare”
Peter si sporse oltre il parapetto della nave. L’aria salmastra gli scompigliò i capelli. Spruzzi salati gli bagnarono la faccia. Un gabbiano volò così vicino da sfiorargli il naso con la punta di un'ala. Il ragazzo agitò le braccia: anche se non poteva più distinguerne i lineamenti, sapeva che Tino e Berwald erano ancora sulla banchina. In piedi, stretti l’uno all’altro, a rimandare fino all’ultimo il momento in cui avrebbero dovuto affrontare la realtà di una casa un po’ più vuota e un po’ più silenziosa.
Salutò finché gli fu possibile vedere la costa.
 
Note
A volte sei convinto di non avere uno straccio di ispirazione e poi finisci con lo scrivere una one-shot da sei pagine. Normalmente non scrivo sui Nordici – dunque ci sono ottime probabilità che io abbia rovinato i personaggi – ma l’Ikea family è qualcosa di troppo tenero e coccoloso per non usarla.
L’idea dei Kirkland come ibridi mezzi umani mezzi serpente viene dallo “snaketalia!AU, abbastanza popolare su Tumblr; tengo a precisare, tuttavia, che pur essendomi ispirata per il concetto, ho sviluppato indipendentemente i dettagli.
Peter e Arthur sono bisce dal collare (Natrix Natrix) perché tale rettile è comune sia nel Regno Unito sia in Svezia. Alistair è un marasso (Vipera Berus), l’unico serpente velenoso della Scozia.
Sì, lo so che chiamare Alistair La Vipera delle Highland fa molto “Il trono di Spade”.
Enjoy.
   
 
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