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Autore: SweetOblivion    17/02/2009    0 recensioni
Questa one-shot era inzialmente destinata ad un concorso con il tema "Utopia". Poi, per motivi vari ho deciso di non inviare questo brano (lo sto riscrivendo in chiave completamente differente), così ho deciso di metterlo qui. L'ho scritto circa due settimane fa^^
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ci sono persone che farebbero qualsiasi cosa pur di ottenere una briciola di quella che chiamano felicità. La loro vita ruota attorno a un perno fisso: alla perenne, instancabile ricerca dell’appagamento, sia esso fisico o morale. Solo alcuni riescono realmente a trovare quello che cercano e si dicono soddisfatti. Ma lo sono veramente? Che cosa resta della loro vita, una volta raggiunto l’unico scopo?
La maggior parte, invece, crede fermamente di aver trovato quello che cercava, ma solo nel suo ultimo giorno quella certezza crolla, sotto il peso della schiacciante e dolorosa verità: non era così, c’era un altro orizzonte, ben più lontano ma più appagante da raggiungere.
Ci sono poi persone convinte che la felicità non esista, mai, in nessuna forma e in nessun caso. Si credono saggi, superiori, veri intenditori della vita, ma hanno realmente ragione? La vita non è degna del proprio nome se non è vissuta per uno scopo, per un obbiettivo che renda saporito ogni azione, ogni vittoria, ogni sconfitta. Altrimenti diventa un’esistenza vuota e insipida il cui unico scopo è la morte.
Infine, ci sono io. Io che ho speso –sprecato- tutti i miei giorni anelando alla felicità, senza sapere di cosa fosse fatta. Io che ho venduto la mia anima per sorridere e che volevo la vita di una stella del cinema.
Io che solo nel momento più sbagliato che potesse esistere mi sono accorto che la Felicità non è quello che promettono i volantini pubblicitari e nemmeno quello che dipinge la tv.
Ho capito che forse ha ragione chi sostiene che la felicità non esista.
Ma non per questo è sbagliato cercarla.

Solitamente, quando qualcuno vuole raccontare la propria storia, inizia dalla nascita e cerca di trovare in ogni modo possibile qualcosa di straordinario in ogni azione e pensiero che racconta.
Io non voglio raccontare la mia vita, né mi aspetto che qualcuno legga ciò che scrivo. Non credo di saper scrivere così bene da spingere qualcuno a leggere le mie parole, né di scrivere qualcosa di interessante. Io scrivo per me stesso. Scrivo per la sola necessità di svuotare il mio cervello, scrivo perchè se non confidassi queste cose a qualcuno –sia una persona o un foglio di carta- la mia testa diventerebbe così pesante da schiacciarmi del tutto come una piccola insignificante formica.
La mia storia inizia parecchi anni fa.
Ero un ragazzo di vent’anni circa. Ero una persona normale, come può esserlo qualsiasi ragazzo a quell’età. Ero giovane e spensierato. Pensavo a divertirmi, a non perdere nemmeno un secondo della mia vita e lasciavo le svilionate filosofiche sul senso dell’esistenza, sul perchè della vita, sull’esistenza del paradiso agli adulti che ormai non avevano altro da fare che rovinarsi il cervello con inutili pensieri.
Avevo terminato la scuola da un anno e non avevo la minima intenzione di continuare gli studi: ero dell’opinione che la cultura non servisse un granché nella società. Invece, ritenevo che fosse molto più importante la musica. Forse perchè della cultura non mi importava nulla, mentre la musica era la mia vita. Vivevo cantando, mi cibavo di note.
Con lo studio e la saggezza non puoi esprimere te stesso, o meglio potresti, ma saresti noiosissimo e nessuno ti ascolterebbe. Invece, io esprimevo tutte le mie paure, i miei dubbi e le mie gioie, confidavo i miei segreti all’infinito diario delle note.
Ero il leader di un piccolo gruppo che si vantava di suonare rock, quello vero. In realtà, ora non credo fossimo così bravi, ma quando si è giovani non c’è spazio per le opinioni negative.
Suonavamo due volte a settimana, il mercoledì e il sabato, in un piccolo pub in centro città ed eravamo abbastanza noti tra i ragazzi della nostra età.
Era il massimo per noi, o almeno per me.
Credevo di avere il mondo ai miei piedi, al mio servizio e di essere invincibile.
Non ero bello, eppure c’era qualcosa –non so esattamente se i tenebrosi occhi color ghiaccio o i capelli sempre disordinati- che mi rendeva particolare e amato dalle ragazze. Penso che, se avessi voluto, avrei potuto cambiare forse una ragazza a settimana, ma non volevo. Il mio cuore era impegnato, anzi sposato, con la ragazza più fantastica che potessi desiderare.
Suonava il basso nella nostra band e a volte mi aiutava a scrivere canzoni. Possedeva un dono naturale per la musica, le note scorrevano nelle sue vene, permettendole di trovare sempre la combinazione giusta di parole, il pezzo mancante al puzzle che componevamo insieme.
Amber era mia, mia. Nessuno poteva separarci o pensare di portarmela via perchè il nostro amore era più forte di ogni cosa.
Purtroppo, non avevamo considerato qualcosa di grande, molto più grande di noi.
In quel periodo Amber soffriva di forti mal di testa: le fitte erano spesso così forti e lancinanti che nulla poteva calmarle e la costringevano a urlare con le lacrime agli occhi e le mani strette attorno al capo.
Dopo un mese, riuscii a convincerla a fare delle analisi, a trovare una soluzione; non potevo più sopportare vederla in quello stato e non poterla aiutare.
Un giorno tornò a casa con una busta giallognola fra le mani. Sorrideva. La lanciò con fare non curante sul tavolo del salotto –vivevamo insieme in una piccola casa in periferia- e mi baciò. Teneramente, a lungo, stringendosi forte a me in un abbraccio senza confini. Esitò solo un attimo prima di parlare.
-Ho un tumore. Al cervello-
Lo disse così, come se stesse parlando dell’ultimo libro letto. Lo disse a voce alta, scandendo le parole, senza paura. Lei non aveva paura, mai, nemmeno mentre pronunciava la sua condanna a morte.
Non volle tentare nessuna cura possibile, perchè sapeva che non ci sarebbe stata speranza: ai quei tempi era raro sopravvivere a mali di quel genere.
Volle vivere fino alla fine e io tentai di esaudire ogni suo desiderio, cercava di provare ogni esperienza possibile, anche se a volte il male era troppo insopportabile per preparare anche un solo caffè.
Era buffo, eppure c’erano momenti in cui era lei a confortare me. Certe notti, mi svegliavo all’improvviso e, appoggiando l’orecchio alla sua bocca, controllavo se stesse respirando ancora. Allora, mi rendevo conto che forse un giorno mi sarei svegliata e l’avrei trovata immobile per sempre accanto a me. Scoppiavo a piangere ed era lei a consolarmi e calmarmi, lei che era molto più forte di me.
E poi accadde. Il suo corpo si spense in una dolce giornata di marzo. Eravamo abbracciati, sotto le coperte. Sapevamo entrambi che sarebbe finita di lì a poco. Le sue forze diminuivano col passare delle ore, la sua pelle si faceva sempre più chiara, sottile e tirata, le sue palpebre si chiudevano stremate.
-Sono felice.-
Mi disse un attimo prima, a fior d labbra. Fu terribile sentire la sua vitalità, la sua energia affievolire poco a poco tra le mie braccia, fino a spegnersi del tutto.
Non fui capace di abbandonarla: quella notte, la tenni stretta a me ogni istante, accarezzando quella pelle ormai fredda che tanto mi aveva emozionato.
Ancora oggi ricordo i suoi occhi e quell’ultimo sguardo di addio, impresso a fuoco vivo nel mio cuore. Il suo corpo era morente ma la sua anima viva come non mai. Quelle iridi grigio perla, appena velate di bianco opaco, le pupille lucide, brillanti, ardenti.
Erano gli occhi di chi non voleva morire.
Per anni, tentati di vivere dissetandomi di quell’ultimo sguardo, nutrendomi del suo ricordo.
Non feci niente, letteralmente. Abbandonai la musica e probabilmente, se avessi potuto, avrei abbandonato anche la vita. Avrei lasciato il mio corpo muoversi inanimato mentre la mia anima avrebbe cercato disperatamente quella di Amber.
Passavo le giornate contando i secondi, i minuti, le ore, pensando quanto fosse ingiusta la vita. Perchè spezzare una creatura così perfetta, così vitale?
Amber mi aveva detto di essere felice, prima di morire. Mi chiesi, non so quante volte, se l’avesse detto per consolarmi o perchè lo era davvero.
Decisi, una notte di settembre, che Amber era stata veramente felice e che la felicità realmente esisteva.
Decisi che non era giusto continuare a lasciar passare il tempo: non era giusto nei confronti di Amber, che di tempo non ne aveva più. Darei stato felice per lei, perchè lei sicuramente lo avrebbe voluto.
Erano passati ormai tre anni dalla sua morte, ma a me sembrava fosse passato soltanto un lungo, eterno secondo.
E così, incominciò la mia difficile, esasperata ricerca della felicità.

Il problema sorse allora. Io ero convinto della sua esistenza, ma non sapevo come e dove trovarla. Dove abita la felicità? Mi risposi nelle nuove, belle esperienze, nell’amore, nell’amicizia, ma anche forse nelle piccole cose. Allora, basta vivere per essere felici?
Ho solo un vago ricordo sfocato di quel periodo della mia vita.
Ricordo che cercavo di fare tutto ciò che potevo, che viaggiai molto, moltissimo e conobbi nuove culture e nuove persone. Obbligavo la macchina fotografica a scattare migliaia di foto dei paesaggi e delle città che visitavo e mi costringevo a guardare ogni fine del mese le foto dei trenta giorni appena trascorsi. In ognuna di quelle foto mancava qualcosa, o meglio, qualcuno. Il vuoto di Amber era sempre più pesante, un fardello sulle mie spalle giorno dopo giorno mi schiacciava sempre di più. Mi chiesi se ci fosse qualcosa di sbagliato in me. Amber aveva fatto così, prima di morire. Aveva vissuto il più possibile ed era morta felice. Anche io vivevo il più possibile, eppure non ero felice. Per quanto mi sforzassi di cercare di esserlo ogni sorriso che mi costringevo ad esibire era estremamente forzato.
Un ricordo, invece, è fisso nella mia memoria, incancellabile, come se lo stessi vivendo anche ora.

C’è un detto che dice: Quando si tocca il fondo, non si può far altro che risalire. Io non pensavo di essere sul fondo di quell’enorme piscina, al contrario, pensavo di risalire verso l’alto, mi illudevo di vedere la luce accecante del sole. In realtà, quella sera avrei dovuto capire che sul fondo non solo mi trovavo, ma vi ero anche spiaccicato e che, ancor peggio, la massa d’acqua nera mi stava completamente sovrastando e soffocando.
Erano le dieci di sera. Ero andato al cinema, a vedere un film ridicolo che non mi aveva fatto per niente ridere. Stavo tornando a casa in metro. La carrozza era punteggiata qua e la da passeggeri di tutti i tipi: ragazzi giovani senz’altro da fare che vagare senza meta, uomini d’affare con serie valigette di cuoio che tornavano a casa in ritardo, un ubriaco.
Osservavo distrattamente il finestrino di fronte a me, cercando di districare immagini distinte dalla massa intricata di forme e colori che sfrecciava al di là del grande serpente di metallo di cui ero passeggero.
Improvvisamente, mi voltai e mi accorsi del signore seduto accanto a me. Sembrava appartenere alla categoria “uomini d’affari”. Curato, distinto, elegante, insignificante. Non mi ero accorto della sua presenza fino a un attimo prima. Lo ignorai e tornai ad osservare il finestrino, sbadigliando. Poi, mi accorsi dell’evidenza. Potevo quasi chiaramente osservare il riflesso del mio volto stanco e apatico, la barba incolta di almeno una settimana, i capelli spettinati. Eppure, non potevo scorgere il ritratto dell’uomo accanto a me. Mi voltai per accertarmi della sua presenza e tornai ad osservare lo specchio improvvisato. Non mi ero sbagliato. Era forse un’allucinazione allora?
-Certo che non vedi il mio riflesso.
Mi voltai e lo osservai stupefatto. Non potevo vedermi in quel momento, ma immaginavo benissimo l’espressione sorpresa che avevo sicuramente adottato.
-Non fare quella faccia. Non dirmi che non sai chi sono.
Non riuscivo a parlare: la mia mente era completamente assente, come in vacanza, le mie labbra erano paralizzate, le parole rinchiuse nella gola, incastrate in un fitto nodo di perplessità.
-Piacere, Lucifero. Oh, so cosa stai per pensare, certo che sono il Diavolo. In persona.
Lo osservai ancora senza parole. Il diavolo? Come poteva essere? Non avevo mai creduto prima d’ora nella sua esistenza, né in quella di Dio, ma sapevo che tutti lo raffigurano demoniaco, rosso, con corna code e forcone. Non come un uomo d’affari con tanto di valigetta in pelle nera.
-Non ci credi? Guarda.
Allungò la mano verso un signore, seduto di fronte a noi, e quello morì. In un secondo. Un colpo di tosse, un rantolo e poi basta. In quel momento gli credetti, sia perchè mi sembrava evidente, sia perchè probabilmente avevo paura di fare la fine di quel poveretto.
-Dicevo, io sono il Diavolo e sono venuto qui per te. Tu hai desiderato il mio aiuto e ora sono qui. Ti aiuterò. Però non lo farò gratis, ovviamente. Oh non ti preoccupare, loro non mi vedono e non mi sentono. Sentirebbero te, ma mi sembri troppo sconvolto per proferire una sola parola. Ecco il nostro patto: io ti donerò la cosa che tu più desideri, quella per cui ardi e ti sei ridotto in questo patetico stato. Ti donerò la felicità, ti renderò felice. In cambio voglio la tua anima. La tua anima sarà mia, per sempre, e tu sarai dannato in eterno, tra le fiamme una volta morto.
In quel momento, non riuscivo a pensare. Avevo capito il discorso del Diavolo, sempre che fosse lui davvero, ma non riuscivo a formulare un pensiero di senso compiuto. Sapevo solo che aveva pronunciato la parola felicità, l’unica parola che mi interessava in quel momento. La felicità, sì.
E’ sbagliato desiderare una cosa al punto da vendersi per ottenerla? Oggi probabilmente risponderei di sì, ma allora avrei risposto senza dubbio no.
Accettai il patto silenziosamente, annuendo con un movimento appena impercettibile del capo. Il Diavolo sorrise, soddisfatto.
-Ricorda che il Diavolo appare soltanto ai dannati.
Sparì in una nuvola di fumo rosso, così com’era arrivato, senza che nessuno si accorgesse di lui.
A quel punto, pensavo di aver vinto. Avrei finalmente avuto ciò che tanto avevo desideravo e sarei stato in pace con me stesso. Avrei vissuto serenamente felice.
Non me lo meritavo, forse? Non meritavo un dannato minuto di felicità dopo tutto quello che avevo passato? Si, lo meritavo. Assolutamente. Volevo la felicità che credevo esistesse. Volevo la felicità ritratta nei film e nelle pubblicità. Volevo la felicità che le star del cinema promettevano sorridendo dagli schermi in bianco e nero. Quella, credevo, era la felicità vera.
Così iniziò la mia nuova vita.
Il Diavolo non mi aveva mentito. Mi ritrovai catapultato nella vita delle stelle che avevo tanto invidiato, improvvisamente fui bellissimo, ricchissimo e famosissimo. Ero circondato da bellissime ragazze. Potevo permettermi di cambiarne una appena mi stufavo, come fossero dei pantaloni sporchi. Partecipavo ai party inaccessibili all’ordine di droghe, alcool e sesso.
Era la vita a cui avevo per anni anelato e mi sentivo felice, felice come non mai. Realizzato.
Ora, riscrivendo queste memorie, mi rendo conto di quanto fossi stupido, incosciente e incoerente, ma allora non me ne rendevo conto. Ero troppo accecato dal mio mondo così apparentemente perfetto, bello e insostituibile da dimenticarmi quali fossero i miei valori, i miei credo, i miei veri obbiettivi.
Mi dimenticai completamente di Amber. La sua presenza scivolò dai miei ricordi, sovrastata dalla sfrenatezza della mia nuova vita per almeno tre anni, finché non vi ripiombò, come un uragano.
No fui io a cercare quella foto ma quella foto a cercare me, ne sono certo. Quando tornai nella mia stupenda villa da multi miliardario era lì, sul tavolo della cucina, come se qualcuno fosse entrato e l’avesse messa lì per dispetto. Era una foto vecchia, in bianco e nero, dai bordi rovinati. Ritraeva due ragazzi. Si stavano baciando, ma non era un semplice bacio: erano letteralmente avvinghiati uno all’altro, labbra, corpi e anime fusi insieme. Si amavano e tutta la passione che gli univa trasudava ancora da quell’immagine. In quella foto eravamo ritratti io e Amber.
Fu solo allora che capii tutto.
Capii che quello che promettono i manifesti, le star alla tv e le pubblicità non è felicità, ma solo la brutta copia per chi non ha la forza di pensare a qualcosa di più.
Capii che la gente ha fame di vento e si nutre di vanità.
Capii che la società era stata costruita sulla fragile impalcatura del lusso e che era facile inciampare e cadere giù, sul suolo ruvido.
Avevo pensato per anni di aver vinto, di essere stato più bravo della vita ma in realtà non avevo capito niente. Cos’avevo? Cosa mi restava del sogno che avevo distrutto? Nulla, solo macerie di parole, di frasi, di mille scelte sbagliate.
Il Diavolo si era sbagliato. Non mi aveva donato la felicità, ma aveva distrutto quel poco che mi rimaneva. Si era preso gioco di me, illudendomi con quello che in quel momento desideravo sentirmi dire.
Aveva ragione, però, ero dannato, sono dannato. Sono dannato perchè ho bramato, desiderato e cercato con tutto me stesso una cosa più grande di me, una cosa che credevo la più importante, una cosa che in realtà non esiste. Ho capito ora, la felicità è solo una maschera usata dalla società per coprire un pesante velo di profondo sconforto.

  
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