Ci sono
persone che farebbero
qualsiasi cosa pur di ottenere una briciola di quella che chiamano
felicità. La
loro vita ruota attorno a un perno fisso: alla perenne, instancabile
ricerca
dell’appagamento, sia esso fisico o morale. Solo alcuni
riescono realmente a
trovare quello che cercano e si dicono soddisfatti. Ma lo sono
veramente? Che
cosa resta della loro vita, una volta raggiunto l’unico
scopo?
La maggior parte, invece, crede
fermamente di aver trovato quello che cercava, ma solo nel suo ultimo
giorno
quella certezza crolla, sotto il peso della schiacciante e dolorosa
verità: non
era così, c’era un altro orizzonte, ben
più lontano ma più appagante da
raggiungere.
Ci sono poi persone convinte che la
felicità non esista, mai, in nessuna forma e in nessun caso.
Si credono saggi,
superiori, veri intenditori della vita, ma hanno realmente ragione? La
vita non
è degna del proprio nome se non è vissuta per uno
scopo, per un obbiettivo che
renda saporito ogni azione, ogni vittoria, ogni sconfitta. Altrimenti
diventa
un’esistenza vuota e insipida il cui unico scopo è
la morte.
Infine, ci sono io. Io che ho speso
–sprecato- tutti i miei giorni anelando alla
felicità, senza sapere di cosa
fosse fatta. Io che ho venduto la mia anima per sorridere e che volevo
la vita
di una stella del cinema.
Io che solo nel momento più
sbagliato che potesse esistere mi sono accorto che la
Felicità non è quello che
promettono i volantini pubblicitari e nemmeno quello che dipinge la tv.
Ho capito che forse ha ragione chi
sostiene che la felicità non esista.
Ma non per questo è sbagliato
cercarla.
Io non voglio raccontare la mia
vita, né mi aspetto che qualcuno legga ciò che
scrivo. Non credo di saper
scrivere così bene da spingere qualcuno a leggere le mie
parole, né di scrivere
qualcosa di interessante. Io scrivo per me stesso. Scrivo per la sola
necessità
di svuotare il mio cervello, scrivo perchè se non confidassi
queste cose a
qualcuno –sia una persona o un foglio di carta- la mia testa
diventerebbe così
pesante da schiacciarmi del tutto come una piccola insignificante
formica.
La mia storia inizia parecchi anni
fa.
Ero un ragazzo di vent’anni circa.
Ero una persona normale, come può esserlo qualsiasi ragazzo
a quell’età. Ero
giovane e spensierato. Pensavo a divertirmi, a non perdere nemmeno un
secondo
della mia vita e lasciavo le svilionate filosofiche sul senso
dell’esistenza,
sul perchè della vita, sull’esistenza del paradiso
agli adulti che ormai non
avevano altro da fare che rovinarsi il cervello con inutili pensieri.
Avevo terminato la scuola da un
anno e non avevo la minima intenzione di continuare gli studi: ero
dell’opinione che la cultura non servisse un
granché nella società. Invece,
ritenevo che fosse molto più importante la musica. Forse
perchè della cultura
non mi importava nulla, mentre la musica era la mia vita. Vivevo
cantando, mi
cibavo di note.
Con lo studio e la saggezza non
puoi esprimere te stesso, o meglio potresti, ma saresti noiosissimo e
nessuno
ti ascolterebbe. Invece, io esprimevo tutte le mie paure, i miei dubbi
e le mie
gioie, confidavo i miei segreti all’infinito diario delle
note.
Ero il leader di un piccolo gruppo
che si vantava di suonare rock, quello vero. In realtà, ora
non credo fossimo
così bravi, ma quando si è giovani non
c’è spazio per le opinioni negative.
Suonavamo due volte a settimana, il
mercoledì e il sabato, in un piccolo pub in centro
città ed eravamo abbastanza
noti tra i ragazzi della nostra età.
Era il massimo per noi, o almeno
per me.
Credevo di avere il mondo ai miei
piedi, al mio servizio e di essere invincibile.
Non ero bello, eppure c’era
qualcosa –non so esattamente se i tenebrosi occhi color
ghiaccio o i capelli
sempre disordinati- che mi rendeva particolare e amato dalle ragazze.
Penso
che, se avessi voluto, avrei potuto cambiare forse una ragazza a
settimana, ma
non volevo. Il mio cuore era impegnato, anzi sposato, con la ragazza
più
fantastica che potessi desiderare.
Suonava il basso nella nostra band
e a volte mi aiutava a scrivere canzoni. Possedeva un dono naturale per
la
musica, le note scorrevano nelle sue vene, permettendole di trovare
sempre la
combinazione giusta di parole, il pezzo mancante al puzzle che
componevamo
insieme.
Amber era mia, mia. Nessuno poteva
separarci o pensare di portarmela via perchè il nostro amore
era più forte di ogni
cosa.
Purtroppo, non avevamo considerato
qualcosa di grande, molto più grande di noi.
In quel periodo Amber soffriva di
forti mal di testa: le fitte erano spesso così forti e
lancinanti che nulla
poteva calmarle e la costringevano a urlare con le lacrime agli occhi e
le mani
strette attorno al capo.
Dopo un mese, riuscii a convincerla
a fare delle analisi, a trovare una soluzione; non potevo
più sopportare
vederla in quello stato e non poterla aiutare.
Un giorno tornò a casa con una
busta giallognola fra le mani. Sorrideva. La lanciò con fare
non curante sul
tavolo del salotto –vivevamo insieme in una piccola casa in
periferia- e mi
baciò. Teneramente, a lungo, stringendosi forte a me in un
abbraccio senza
confini. Esitò solo un attimo prima di parlare.
-Ho un tumore. Al cervello-
Lo disse così, come se stesse
parlando dell’ultimo libro letto. Lo disse a voce alta,
scandendo le parole,
senza paura. Lei non aveva paura, mai, nemmeno mentre pronunciava la
sua
condanna a morte.
Non volle tentare nessuna cura
possibile, perchè sapeva che non ci sarebbe stata speranza:
ai quei tempi era
raro sopravvivere a mali di quel genere.
Volle vivere fino alla fine e io
tentai di esaudire ogni suo desiderio, cercava di provare ogni
esperienza
possibile, anche se a volte il male era troppo insopportabile per
preparare
anche un solo caffè.
Era buffo, eppure c’erano momenti
in cui era lei a confortare me. Certe notti, mi svegliavo
all’improvviso e,
appoggiando l’orecchio alla sua bocca, controllavo se stesse
respirando ancora.
Allora, mi rendevo conto che forse un giorno mi sarei svegliata e
l’avrei
trovata immobile per sempre accanto a me. Scoppiavo a piangere ed era
lei a
consolarmi e calmarmi, lei che era molto più forte di me.
E poi accadde. Il suo corpo si
spense in una dolce giornata di marzo. Eravamo abbracciati, sotto le
coperte.
Sapevamo entrambi che sarebbe finita di lì a poco. Le sue
forze diminuivano col
passare delle ore, la sua pelle si faceva sempre più chiara,
sottile e tirata,
le sue palpebre si chiudevano stremate.
-Sono felice.-
Mi disse un attimo prima, a fior d
labbra. Fu terribile sentire la sua vitalità, la sua energia
affievolire poco a
poco tra le mie braccia, fino a spegnersi del tutto.
Non fui capace di abbandonarla:
quella notte, la tenni stretta a me ogni istante, accarezzando quella
pelle
ormai fredda che tanto mi aveva emozionato.
Ancora oggi ricordo i suoi occhi e
quell’ultimo sguardo di addio, impresso a fuoco vivo nel mio
cuore. Il suo
corpo era morente ma la sua anima viva come non mai. Quelle iridi
grigio perla,
appena velate di bianco opaco, le pupille lucide, brillanti, ardenti.
Erano gli occhi di chi non voleva
morire.
Per anni, tentati di vivere
dissetandomi di quell’ultimo sguardo, nutrendomi del suo
ricordo.
Non feci niente, letteralmente.
Abbandonai la musica e probabilmente, se avessi potuto, avrei
abbandonato anche
la vita. Avrei lasciato il mio corpo muoversi inanimato mentre la mia
anima avrebbe
cercato disperatamente quella di Amber.
Passavo le giornate contando i
secondi, i minuti, le ore, pensando quanto fosse ingiusta la vita.
Perchè
spezzare una creatura così perfetta, così vitale?
Amber mi aveva detto di essere
felice, prima di morire. Mi chiesi, non so quante volte, se
l’avesse detto per
consolarmi o perchè lo era davvero.
Decisi, una notte di settembre, che
Amber era stata veramente felice e che la felicità realmente
esisteva.
Decisi che non era giusto
continuare a lasciar passare il tempo: non era giusto nei confronti di
Amber,
che di tempo non ne aveva più. Darei stato felice per lei,
perchè lei
sicuramente lo avrebbe voluto.
Erano passati ormai tre anni dalla
sua morte, ma a me sembrava fosse passato soltanto un lungo, eterno
secondo.
E così, incominciò la mia
difficile, esasperata ricerca della felicità.
Il problema
sorse allora. Io ero
convinto della sua esistenza, ma non sapevo come e dove trovarla. Dove
abita la
felicità? Mi risposi nelle nuove, belle esperienze,
nell’amore, nell’amicizia,
ma anche forse nelle piccole cose. Allora, basta vivere per essere
felici?
Ho solo un vago ricordo sfocato di
quel periodo della mia vita.
Ricordo che cercavo di fare tutto
ciò che potevo, che viaggiai molto, moltissimo e conobbi
nuove culture e nuove
persone. Obbligavo la macchina fotografica a scattare migliaia di foto
dei
paesaggi e delle città che visitavo e mi costringevo a
guardare ogni fine del
mese le foto dei trenta giorni appena trascorsi. In ognuna di quelle
foto
mancava qualcosa, o meglio, qualcuno. Il vuoto di Amber era sempre
più pesante,
un fardello sulle mie spalle giorno dopo giorno mi schiacciava sempre
di più.
Mi chiesi se ci fosse qualcosa di sbagliato in me. Amber aveva fatto
così,
prima di morire. Aveva vissuto il più possibile ed era morta
felice. Anche io
vivevo il più possibile, eppure non ero felice. Per quanto
mi sforzassi di
cercare di esserlo ogni sorriso che mi costringevo ad esibire era
estremamente
forzato.
Un ricordo, invece, è fisso nella
mia memoria, incancellabile, come se lo stessi vivendo anche ora.
C’è
un detto che dice: Quando si
tocca il fondo, non si può far altro che risalire. Io non
pensavo di essere sul
fondo di quell’enorme piscina, al contrario, pensavo di
risalire verso l’alto,
mi illudevo di vedere la luce accecante del sole. In realtà,
quella sera avrei
dovuto capire che sul fondo non solo mi trovavo, ma vi ero anche
spiaccicato e
che, ancor peggio, la massa d’acqua nera mi stava
completamente sovrastando e
soffocando.
Erano le dieci di sera. Ero andato
al cinema, a vedere un film ridicolo che non mi aveva fatto per niente
ridere.
Stavo tornando a casa in metro. La carrozza era punteggiata qua e la da
passeggeri di tutti i tipi: ragazzi giovani senz’altro da
fare che vagare senza
meta, uomini d’affare con serie valigette di cuoio che
tornavano a casa in
ritardo, un ubriaco.
Osservavo distrattamente il
finestrino di fronte a me, cercando di districare immagini distinte
dalla massa
intricata di forme e colori che sfrecciava al di là del
grande serpente di
metallo di cui ero passeggero.
Improvvisamente, mi voltai e mi
accorsi del signore seduto accanto a me. Sembrava appartenere alla
categoria “uomini
d’affari”. Curato, distinto, elegante,
insignificante. Non mi ero accorto della
sua presenza fino a un attimo prima. Lo ignorai e tornai ad osservare
il
finestrino, sbadigliando. Poi, mi accorsi dell’evidenza.
Potevo quasi
chiaramente osservare il riflesso del mio volto stanco e apatico, la
barba
incolta di almeno una settimana, i capelli spettinati. Eppure, non
potevo
scorgere il ritratto dell’uomo accanto a me. Mi voltai per
accertarmi della sua
presenza e tornai ad osservare lo specchio improvvisato. Non mi ero
sbagliato.
Era forse un’allucinazione allora?
-Certo che non vedi il mio
riflesso.
Mi voltai e lo osservai stupefatto.
Non potevo vedermi in quel momento, ma immaginavo benissimo
l’espressione
sorpresa che avevo sicuramente adottato.
-Non fare quella faccia. Non dirmi
che non sai chi sono.
Non riuscivo a parlare: la mia
mente era completamente assente, come in vacanza, le mie labbra erano
paralizzate, le parole rinchiuse nella gola, incastrate in un fitto
nodo di
perplessità.
-Piacere, Lucifero. Oh, so cosa
stai per pensare, certo che sono il Diavolo. In persona.
Lo osservai ancora senza parole. Il
diavolo? Come poteva essere? Non avevo mai creduto prima
d’ora nella sua esistenza,
né in quella di Dio, ma sapevo che tutti lo raffigurano
demoniaco, rosso, con
corna code e forcone. Non come un uomo d’affari con tanto di
valigetta in pelle
nera.
-Non ci credi? Guarda.
Allungò la mano verso un signore,
seduto di fronte a noi, e quello morì. In un secondo. Un
colpo di tosse, un
rantolo e poi basta. In quel momento gli credetti, sia
perchè mi sembrava
evidente, sia perchè probabilmente avevo paura di fare la
fine di quel
poveretto.
-Dicevo, io sono il Diavolo e sono
venuto qui per te. Tu hai desiderato il mio aiuto e ora sono qui. Ti
aiuterò. Però
non lo farò gratis, ovviamente. Oh non ti preoccupare, loro
non mi vedono e non
mi sentono. Sentirebbero te, ma mi sembri troppo sconvolto per
proferire una
sola parola. Ecco il nostro patto: io ti donerò la cosa che
tu più desideri,
quella per cui ardi e ti sei ridotto in questo patetico stato. Ti
donerò la
felicità, ti renderò felice. In cambio voglio la
tua anima. La tua anima sarà
mia, per sempre, e tu sarai dannato in eterno, tra le fiamme una volta
morto.
In quel momento, non riuscivo a pensare.
Avevo capito il discorso del Diavolo, sempre che fosse lui davvero, ma
non
riuscivo a formulare un pensiero di senso compiuto. Sapevo solo che
aveva
pronunciato la parola felicità, l’unica parola che
mi interessava in quel
momento. La felicità, sì.
E’ sbagliato desiderare una cosa al
punto da vendersi per ottenerla? Oggi probabilmente risponderei di
sì, ma
allora avrei risposto senza dubbio no.
Accettai il patto silenziosamente,
annuendo con un movimento appena impercettibile del capo. Il Diavolo
sorrise,
soddisfatto.
-Ricorda che il Diavolo appare
soltanto ai dannati.
Sparì in una nuvola di fumo rosso,
così com’era arrivato, senza che nessuno si
accorgesse di lui.
A quel punto, pensavo di aver
vinto. Avrei finalmente avuto ciò che tanto avevo desideravo
e sarei stato in
pace con me stesso. Avrei vissuto serenamente felice.
Non me lo meritavo, forse? Non
meritavo un dannato minuto di felicità dopo tutto quello che
avevo passato? Si,
lo meritavo. Assolutamente. Volevo la felicità che credevo
esistesse. Volevo la
felicità ritratta nei film e nelle pubblicità.
Volevo la felicità che le star
del cinema promettevano sorridendo dagli schermi in bianco e nero.
Quella,
credevo, era la felicità vera.
Così iniziò la mia nuova vita.
Il Diavolo non mi aveva mentito. Mi
ritrovai catapultato nella vita delle stelle che avevo tanto invidiato,
improvvisamente fui bellissimo, ricchissimo e famosissimo. Ero
circondato da
bellissime ragazze. Potevo permettermi di cambiarne una appena mi
stufavo, come
fossero dei pantaloni sporchi. Partecipavo ai party inaccessibili
all’ordine di
droghe, alcool e sesso.
Era la vita a cui avevo per anni
anelato e mi sentivo felice, felice come non mai. Realizzato.
Ora, riscrivendo queste memorie, mi
rendo conto di quanto fossi stupido, incosciente e incoerente, ma
allora non me
ne rendevo conto. Ero troppo accecato dal mio mondo così
apparentemente
perfetto, bello e insostituibile da dimenticarmi quali fossero i miei
valori, i
miei credo, i miei veri obbiettivi.
Mi dimenticai completamente di Amber.
La sua presenza scivolò dai miei ricordi, sovrastata dalla
sfrenatezza della
mia nuova vita per almeno tre anni, finché non vi
ripiombò, come un uragano.
No fui io a cercare quella foto ma
quella foto a cercare me, ne sono certo. Quando tornai nella mia
stupenda villa
da multi miliardario era lì, sul tavolo della cucina, come
se qualcuno fosse
entrato e l’avesse messa lì per dispetto. Era una
foto vecchia, in bianco e
nero, dai bordi rovinati. Ritraeva due ragazzi. Si stavano baciando, ma
non era
un semplice bacio: erano letteralmente avvinghiati uno
all’altro, labbra, corpi
e anime fusi insieme. Si amavano e tutta la passione che gli univa
trasudava
ancora da quell’immagine. In quella foto eravamo ritratti io
e Amber.
Fu solo allora che capii tutto.
Capii che quello che promettono i
manifesti, le star alla tv e le pubblicità non è
felicità, ma solo la brutta
copia per chi non ha la forza di pensare a qualcosa di più.
Capii che la gente ha fame di vento
e si nutre di vanità.
Capii che la società era stata
costruita sulla fragile impalcatura del lusso e che era facile
inciampare e
cadere giù, sul suolo ruvido.
Avevo pensato per anni di aver
vinto, di essere stato più bravo della vita ma in
realtà non avevo capito
niente. Cos’avevo? Cosa mi restava del sogno che avevo
distrutto? Nulla, solo
macerie di parole, di frasi, di mille scelte sbagliate.
Il Diavolo si era sbagliato. Non mi
aveva donato la felicità, ma aveva distrutto quel poco che
mi rimaneva. Si era
preso gioco di me, illudendomi con quello che in quel momento
desideravo
sentirmi dire.
Aveva ragione, però, ero dannato,
sono dannato. Sono dannato perchè ho bramato, desiderato e
cercato con tutto me
stesso una cosa più grande di me, una cosa che credevo la
più importante, una
cosa che in realtà non esiste. Ho capito ora, la
felicità è solo una maschera
usata dalla società per coprire un pesante velo di profondo
sconforto.