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Autore: _sonder    13/10/2015    1 recensioni
[Kou centric & POV] [Kou/Futaba hint]
I sogni sfuggono e tornano: come la marea, è il ricordo di una persona perduta.
| Partecipa al contest I sogni non sono lontani, indetto da Ayumu Okazaki sul forum di EFP. |
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Si muore tutte le sere, si rinasce tutte le mattine: è così.
E tra le due cose c'è il mondo dei sogni.
— Henri Cartier-Bresson









r i s v e g l i

Stagioni come l'infanzia avevano un sapore agrodolce: il boccone pastoso dei ricordi legava i denti e dava una veloce impressione di dolcezza, seguita da una puntura acre sulla lingua; il morso tirava le guance e gli angoli degli occhi fino a stillare una lacrima. Kou sentiva le gote pizzicare nel medesimo modo: aveva le palpebre gonfie di pianto e un'espressione che fuggiva verso il ciglio del marciapiede; le gambe, però, restavano pesanti, chiodi ritti sull'asfalto.

Nello sguardo di Kou, la città si mostrava vestita delle sfumature dell'autunno: Nagasaki e le sue strade, che correvano incontro ai palazzi e alle valli separate dai fiumi, erano pennellate da un oro abbacinante; i ponti antichi, ricostruiti secoli prima, ospitavano qualche germoglio selvaggio e lo indossavano come un fiore all'occhiello. I templi si offrivano quanto le curve di una donna: abbracciavano le sponde e univano il terreno separato da un greto. Osservando la via pianeggiante, Kou provò una sensazione di nostalgia e si sentì piccolo nell'animo, in un corpo cresciuto in fretta: indifeso, di fronte al flusso della vita, allo sfrecciare delle automobili e ai pochi grilli che ancora frinivano, nascosti fra i cespugli.
Abbandonò le mani lungo i fianchi e non si curò dei polsini corti, della giacca stretta che rendeva irregolare il respiro: segni inevitabili del distacco dal suo io bambino, dello scarto fra il ragazzo di famiglia e l'uomo di casa su cui gravava una persona malata. L'imbarazzo per l'uniforme, ormai inadatta alla sua taglia, gli parve superfluo; non era stato così qualche mese prima, quando era solito tirare la stoffa e tenere le dita sul tessuto, nella speranza di allungarlo.
Narumi aveva riso di lui e degli sciocchi scrupoli che lo rendevano insicuro in mezzo agli altri, a disagio fra i coetanei. Sorrise e sfregò una manica sugli occhi: non gli importava più che la camicia non coprisse i polsi, nemmeno sfilando i bottoni dalle asole, perché la voce di sua madre non sarebbe giunta a vezzeggiarlo, a prenderlo in giro come un bambino diventato improvvisamente uomo. La maniera in cui lo chiamava, il tono scherzoso con cui pronunciava il suo nome si stavano indebolendo e Kou presagiva la perdita. Avrebbe perso la madre fra tante altre voci che si rivolgevano a lui con ostentata vitalità; fra tanti rumori che annientavano la tosse che le squassava il petto.

Verso il fiume Nakashimagawa, si estendeva una china ripida e l'erba la trapuntava di spilli, coi ciuffi doppi e rigogliosi. Kou vagabondava senza meta in direzione degli argini, dove lo sciabordio dell'acqua nasceva da una lieve corrente e il sole sembrava adagiarsi, bagnarsi sulla cresta del Nakashimagawa. Kou associava quell'immagine a una morte già annunciata: con la sera si perdeva qualche coccio del giorno vissuto e non tutti godevano del lusso di guardare un nuovo giorno. Pensava che avrebbe conosciuto tardi una simile verità e scoprì, invece, che gli serpeggiava attorno da tanto, mentre non guardava, con la testa china sui libri di testo. Cercava di creare un luogo sereno ed era proiettato al futuro: viveva di responsabilità, di aspettative non sue che dovevano colmare gli occhi di sua madre. Eppure, il velo di stanchezza negli occhi di lei era passato inosservato; e così i primi colpi di tosse, che scandivano i minuti. Per ogni passo rievocava quel suono insistente e la certezza di essere dilaniato dalla colpa. Era stato sordo e cieco e ora stringeva i denti, fingeva di essere tranquillo per darle supporto. Dentro, sentiva già lo strappo distruggere il ritratto di famiglia: la fotografia piegata a metà divideva in un solco il padre e Yoichi da Kou e sua madre. Più doloroso, era ciò che lo stava separando da sua madre.

A un suo gesto, la cartella ruzzolò sul prato. Kou chinò le ginocchia e stese una mano per cogliere un sasso: ne saggiò la forma levigata e spostò gli occhi sulla sfera aranciata riflessa sull'acqua. Lo colse il bisogno d'infrangere lo specchio del fiume e lanciò la pietra di piatto: l'avambraccio esitò, teso su un fianco, e le labbra si tirarono sino a impallidire. Guardò il sasso sfiorare il pelo dell'acqua e confonderne il riverbero: la pietra saltò, libera e dispettosa nel suo slancio, e finì col cadere stancamente nella bocca del fiume. Kou spalancò gli occhi: udì l'acqua ingerire il sasso e di rimando deglutì a vuoto il boccone che non scendeva nel petto. Il cuore gli pesava: come la pietra aveva perso il passo di danza per sparire alla vista, così lui ignorava la speranza. Si trascinava nel pensiero ossessivo di agire, di trovare una soluzione; al calar del sole, subentrava lo sconforto.
L'aria pungente trovò il suo collo scoperto, vulnerabile ai primi freddi, e gli ricordò l'essenza della solitudine: il garrire del vento e il dondolio inerme di un corpo di fronte alla sua furia.

A Kou piaceva osservare la chioma degli alberi, che inselvatichiva il cavalcavia di cemento, battuto da camioncini industriali e vetture sportive. Trovava nelle fronde il ricordo della capigliatura capricciosa di Yoshioka, delle sue ciocche ariose durante la corsa, in quel giorno in cui avevano giocato assieme a nascondino.

Il sorriso sfumò, quando l'immagine di Yoshioka gli sfiorò i pensieri: era tardi per rimpiangerla, per chiedersi cos'avrebbe detto dei suoi cambiamenti nel fisico e nella voce. Gli occhi di Kou smarrirono la luce e si rivolsero con astio ai salici carichi di foglie. La vita si beava della propria opulenza, della forza massiccia nella corteccia: un albero riusciva a vivere tante vite, mentre sua madre, ramo rinsecchito e malato, era consumata da una lenta agonia, dallo spoglio della dignità. Diventava piccola e grigia, con gli occhi gentili, di tanto in tanto attraversati da un guizzo vivace, che si arpionava ai giorni, ai rantoli, alle flebo donatele come palliativo, mentre il dolore più grande era lasciare la mano del figlio.

Kou non perdonava lo scorrere della vita. L'abitudine di recarsi in ospedale stava per tramontare e concludersi con l'incubo che più temeva.

Il suo quartiere formava una lunga t, dove la strada si interrompeva per dare spazio a un parco modesto a beneficio dei residenti. Dalla portafinestra del suo appartamento, Kou osservò la fila di balconate identiche fra loro, gabbie di ferro arrugginito che rimpicciolivano lo spazio su cui posare lo sguardo. Dal davanzale non si riusciva a scorgere l'orizzonte e gli occhi tornavano dentro i sottili pannelli delle stanze. Il cielo era oltre la mole degli edifici, oltre le spalle larghe delle costruzioni. Kou rimpiangeva i bassi caseggiati dell'abitazione in cui aveva vissuto assieme a Yoichi e ai suoi genitori, prima del divorzio. Lì, il cielo non doveva adeguarsi a palazzine prepotenti che dominavano il territorio: le braccia si tendevano in alto con la sensazione di strappare le nubi e infilarle nelle tasche, quando la mamma lo prendeva in braccio. Nel cielo si spandeva il buon odore della pasta di mandorla e sulla finestra apparivano le dita, bianche di farina, della mamma, che tracciava un sorriso e due occhi tondi coi polpastrelli sul vetro. C'era una magia che Kou non aveva dimenticato; ma ricordarla lo riempiva di un dolore pesante.

Le poche note di colore della sera furono rischiarate dai lampadari negli appartamenti sull'altro lato della strada. Kou seguiva le ombre delle famiglie, a ginocchia strette e braccia conserte. Ingollò l'amarezza e fissò a bocca asciutta le luci, che davano vita al quartiere. Restò al buio, con le tende che lo carezzavano al posto di sua madre. Si toccò la frangia e alzò lo sguardo sui capelli. Il pensiero tornava alle settimane in cui non era solo in soggiorno e la luce scaldava anche la sua casa; e non vi aveva dato peso, convinto che sarebbe stato così per tanti altri mesi sul calendario…

Spesso sognava di lui e di sua madre nell'appartamento di fronte: una vita modesta, qualche programma in televisione, come desiderava lei, cucina cinese istantanea e un kotatsu che li tenesse al caldo entrambi. Era un sogno che tremolava negli occhi: si piegava al peso delle lacrime e sgorgava sul viso, sino a sfumare la realtà.
Vedeva sua madre con lo sguardo gentile di chi è troppo stanco per obiettare, di chi è debole per addentare la vita e sbranare con rabbia le sue ingiustizie: di giorno in giorno, era ombra di se stessa, permissiva e pronta a staccarsi dai supporti che le facilitavano la respirazione.
Kou sentì la sua mano sul polso: diaccia, dalle dita ossute che odoravano di morte, lo tirava verso di sé in un ultimo abbraccio. Non voleva andare con lei: gridò, la respinse, eppure la seguì verso una porta.


Kou aprì le palpebre. Delle luci c'era una povera traccia nelle strade da lampioni sbiaditi e insegne intermittenti, come zanzare nel loro ronzio.
Era solo. Teneva da sé il polso e sul basso tavolino, dove sua madre aveva sistemato un vaso di fiori, c'era un volume rilegato in pelle. Curiosò, avvicinandosi: puntava il naso ora a destra, ora a sinistra. L'album di fotografie portava ancora il nome di famiglia di suo padre. Kou lo aprì, mentre una fitta gli gravava sul cuore. I polpastrelli lasciavano impronte sulla pellicola lucida per ogni carezza sui volti dei genitori e del fratello. Un sorriso si affacciò timidamente dalle sue labbra e, con uno scatto veloce del viso, si accertò che non ci fossero Yoichi o il papà. Strinse al petto l'album e lo investì la completezza di non sapersi solo.

Pagina dopo pagina, guardava sua madre sistemargli il cravattino nel giorno di ammissione all'istituto superiore; tirargli giocosamente il secondo bottone dell'uniforme durante la cerimonia di consegna di diploma; assicurargli un fiore sul vestito da sposo; tenere in braccio il suo primo nipote e dire: "Sono troppo giovane per essere chiamata nonna". Ancora, udì il suono di uno strappo e la carta lacerarsi senza che lui riuscisse ad agire.
Dalla cucina delle risate lo guidarono verso il tavolo della colazione, che utilizzava anche per i pranzi e la cena, nonostante fosse piccolo e i gomiti scalciassero quelli dell'altro commensale. Suo padre apparecchiava e ordinava a Yoichi di servire i piatti: a turno, baciavano la mamma e le accomodavano lo scialle sulla spalle. Lei si scherniva e diceva che un'ernia non meritasse tante premure; Kou, le guance rosse di felicità, osservava con fierezza il padre e lo sentiva dire: "Com'è deliziosa questa cena", non perché Yoichi fosse un grande cuoco ai fornelli. Erano di nuovo assieme e questo, soltanto questo, importava; e guardare un programma vuoto di contenuti e ridere della sua idiozia, lasciarsi scivolare addosso le delusioni della vita sul lavoro, e pensare anche un solo istante che quel calore fosse tutto.


C'è lo scialle di sua madre sulla sedia e porta un profumo diverso, che non sa di lei, ma di armadio chiuso, di abiti dimenticati su una pila di vestiti non più di stagione. Kou lo scorre sotto il naso e avverte il disinfettante che fa tremare le narici e la sicurezza. Chiama il nome della madre e la cerca nell'appartamento silenzioso: la voce si attacca alle pareti, le scuote e si leva fino al soffitto, sempre più incrinata. È di fronte alla camera da letto della mamma e bussa: fa per entrare e uno spiraglio rosso lo accoglie. C'è un bip monocorde, senza pause e un bianco malato, sporco, nella stanza. E il tramonto che muore, nel fiotto di sangue e nel tampone delle nubi, e sua madre distesa sul letto. Non apre gli occhi, non alza il viso e sospira, rantola, un cavernoso: "È bellissimo". Kou lascia cadere lo scialle e s'inginocchia, urla, chiede perdono a un corpo che non risponde.

"Kou!" È una voce che trafigge il corridoio e fa tentennare i pochi fiori secchi nel vaso. È una voce stridula, piena d'incertezza, che diventa il viso di Yoshioka, la sua espressione tonta e gli occhi enormi. Trattiene le lacrime e corre scomposta: copre gli occhi di Kou e gli urla di non guardare.
Quando lo lascia andare, il tramonto su Nagasaki lo investe. Qui il cielo arriva a toccare l'acqua, si dona e cade sugli occhi di chi lo guarda. Kou si gira e nota il suo gruppo di amici in gita e i giorni delle superiori che stanno per volgere al termine.


Apre gli occhi di scatto, il fianco dolorante: squadra la colpevole e il gentil peso della sua testa vuota. Futaba dorme con il capo poggiato sul corpo di Kou.
È l'alba e il giorno è per i vivi, coi loro rimpianti e ciò che avanza dai sogni, dalle notti stanche. Chi resta si sveglia colto da una sensazione d'invincibile stabilità, come se fossero soltanto i sogni e i calendari a passare. E il mattino nasce, con un vagito di neonato e tramonta sulle spalle di un vecchio; la vita si smorza e della sua luce resta un sogno di piccolezze, di ricordi sereni e grandi affanni per altrettante sciocchezze.

Kou si solleva appena e copre Futaba.
"Sei di una delicatezza unica", le dice con un lamento, "e guarda qui… hai preso freddo. Non è tanto piacevole svegliarsi con uno yeti che ti mozza il fiato". Le chiude il naso fra indice e dito medio e conta i secondi.

"La vuoi piantare?!"

Futaba lo stende con un pugno e poi si agita a guardare il corpo accasciato sul materasso. Arrossisce e si scusa a labbra arricciate, congiungendo i polpastrelli degli indici, avanti e indietro.
"Kou! Come ti senti? Hai avuto un incubo ieri?"
"Uhm…"
"Hai ricordato qualcosa di spiacevole?"

Kou le passa una mano fra i capelli e scende sulle labbra. Non è la prima volta che le chiede di fermarsi a dormire da lui. Sorride, spontaneo, e si ferma a sfiorare la bocca di Futaba in un bacio leggero. Sente la dolcezza del respiro di lei, la morbidezza delle labbra, ancora insicure quando lui le coglie fra le proprie. Allunga il collo per raggiungere il profilo dell'orecchio: "Solo quanto russi e sbavi nel sonno!"

Il bello del mattino è che i sogni esplodono in un banale bisticcio e portano un po' di chiassosa serenità, fra un cuscino lanciato contro un volto e il solletico ai fianchi.






♢♢ Note dell'autore:
La fanfiction è ambientata alla fine del manga, quando Kou e Futaba hanno appianato le loro divergenze e sono già una coppia solida. Sono presi in considerazione gli eventi trattati negli episodi 11 e 12 dell'anime e nei primissimi.
Il passaggio dal cognome Yoshioka al nome Futaba, in riferimento alla ragazza, intende sottolineare il cambiamento d'intimità fra i due: quando era ancora innamorato di lei, Kou si rivolgeva a lei utilizzando il cognome. Soltanto nel momento in cui i due diventano una coppia e viene inscenata la gag del gatto di Kou, il ragazzo inizia a chiamare la compagna con il nome di battesimo.

L'intera fanfiction è un sogno/incubo di Kou e segue la sua notte agitata in cui rievoca passato e speranze.
La storia partecipa al contest "I sogni non sono lontani", indetto da Ayumu Okazaki sul forum di EFP.
  
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