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Autore: Malvagiuo    13/10/2015    3 recensioni
Una stazione orbitante, popolata da un equipaggio sull'orlo del collasso emotivo.
Un pianeta semisconosciuto, che nasconde il solo giacimento esistente di un minerale unico e misterioso.
Cosa succede a delle anime tormentate, quando vengono assediate da una follia proveniente da un altro mondo?
Genere: Angst, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lynn appoggiò la testa sull’oblò gelido. Non era un vero oblò, ma sulla nave continuavano a chiamarli così. Nemmeno lei ricordava il termine tecnico esatto, e non aveva intenzione di frugare nella mente per cercarlo.
Il pianeta era là fuori, immenso nel buio senza tempo dello spazio, una gigantesca sfera torbida impegnata in un’eterna rotazione su se stessa. Due anni a osservarla, e ancora non aveva un nome. Lynn protese la mano contro il vetro, premendovi sopra le cinque dita separate. Se fosse stato lì, Delon avrebbe sovrapposto la sua mano, e insieme avrebbero avuto l’impressione di stringere il pianeta nei loro palmi intrecciati. L’avevano fatto così tante volte, che Lynn aveva l’impressione di sentire ancora il tepore della pelle di lui.
Ma Delon non c’era più. Morto o scomparso che fosse, non importava. Lui non c’era più.
Il freddo della cabina non aveva niente a che fare con il riscaldamento abbassato, né col fatto che la temperatura esterna dello spazio si aggirasse intorno ai meno duecento gradi.
Lynn sospirò, si staccò dall’oblò non-oblò e indossò la divisa del capitano.
 
Nello spazio profondo il tempo non aveva molto significato, ma l’equipaggio continuava a scandire la giornata al ritmo delle ore terrestri, secondo il fuso orario della Costa Occidentale. Un trucco per non essere schiacciati dal peso dell’eternità. O forse, solo una forma di nostalgia. Erano le quattro e mezza del mattino. Il laboratorio era illuminato dalla luce diafana del neon, segno che all’interno c’era già qualcuno.
Lynn digitò il codice di accesso e la porta dai vetri blindati scivolò senza rumore verso sinistra, lasciandola passare. Tutti i banchi da lavoro erano deserti, eccetto uno. Sonja era china sul ripiano illuminato a giorno, talmente concentrata da ignorare l’ingresso di Lynn.
«Sei mattiniera, dottoressa Gustav.»
Sonja non diede segno di averla sentita. Non fece nemmeno un cenno di saluto, e questo – ai tempi della partenza della Pygmalion – sarebbe stato considerato una grave insolenza. Ma erano trascorsi dodici anni dall’inizio della spedizione, e con la perdita del contatto con la Terra il rispetto dell’autorità si era fatto sempre più traballante.
Dodici anni. Lynn scacciò dalla mente l’enormità che quel dato comportava.
«Non esiste il mattino nello spazio» disse Sonja, senza distogliere lo sguardo dal ripiano. «Le tue affermazioni sono prive di senso, capitano.»
«Quand’è stata l’ultima volta che hai dormito, Sonja?»
«Ti preoccupi per la mia sanità mentale?»
«Mentirei se dicessi che il tuo abuso di Fentamin non mi preoccupa.»
«Revocami la fornitura, allora.»
Lynn scelse di non replicare. Se Sonja si trovava nella fase maniacale indotta dall’eccesso di Fentamin, il suo comportamento era imprevedibile. Reagire alle sue provocazioni avrebbe solo peggiorato la situazione. Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto sigillare l’armadio con le scorte di anfetamine, ma non poteva farlo. Non adesso, che erano così vicini all’obiettivo.
Lynn si avvicinò al banco di Sonja. Notò il tremore impercettibile alle sue mani, le profonde occhiaie, le pupille che scattavano febbrili da un punto all’altro, incapaci di rimanere fisse per più di un istante nella loro posizione. Osservavano qualcosa attraverso una lente d’ingrandimento Cellular da duecentomila dollari.
«A che punto sono le tue ricerche?»
«Se vuoi sapere quando torneremo a casa, sono spiacente di deluderti. O forse no. No, in effetti non me ne frega un cazzo di deluderti.»
«E per quanto riguarda l’altra cosa?»
Sonja non rispose subito. Per la prima volta da quando era diventata Fentamin-dipendente, la dottoressa Gustav rivelò un’espressione incerta. Era come se, dopo mesi di dopamina e serotonina pompate a fiumi nel sistema nervoso, il suo pensiero avesse finalmente rallentato.
«Ci sono... progressi.»
Lynn attese che continuasse. Non voleva porre una domanda diretta, nel timore che lo stato maniacale prendesse di nuovo il sopravvento.
«Quasi tutti i campioni hanno dato esito negativo, ma quello che stiamo esaminando negli ultimi giorni è... diverso. È uno di quelli recuperati da Delon.»
Il cuore di Lynn ebbe un tuffo. Si sforzò di mantenersi impassibile.
«Fammi vedere.»
Sonja Gustav azzerò il grado di ingrandimento della lente Cellular, così che lo schermo restituisse l’immagine dell’oggetto esaminato nelle sue dimensioni reali. Lynn osservò il frammento di cristallo dalle sfumature oro paglierino, un campione di proteus prelevato dalla cava del Settore 15, l’unica ancora attiva. Un unico pezzetto di pochi millimetri di spessore chiuso all’interno di una teca di vetro rinforzato. Reperire modeste quantità di quel cristallo richiedeva un’incalcolabile mole di fatica, e nell’ultima spedizione era stato necessario persino l’estremo sacrificio di qualcuno.
Delon...
“No” pensò subito Lynn, obbligandosi a cacciare quel pensiero. “Non serve a niente ricordare quello che è successo, in questo momento.”
«Mi stai ascoltando?» intervenne brusca Sonja.
«Scusami. Dormo poco, negli ultimi tempi.»
«Questo ti sveglierà di sicuro» disse Sonja, tornando a fissare con attenzione il frammento di proteus. «Finora il cristallo ci interessava per la sua capacità di assorbire qualunque tipo di radiazione energetica, a patto che la sua struttura reticolare risultasse eccitata da una particolare onda sonora. Eccitando i reticoli di proteus con la musica, per esempio, è in grado di assorbire la luce, generando una cappa di buio intorno a sé. Più diventa intensa la vibrazione sonora, maggiore è la capacità del proteus di fagocitare energia. Inutile che ti elenchi le possibili applicazioni di una tecnologia basata sulle proprietà di questa pietruzza.»
“Sicuramente tante” pensò Lynn. “Ma nessuna proficua quanto quella militare. Ormai conosco la Corporazione.”
«La caratteristica unica del proteus è la capacità di modificare i suoi reticoli in seguito all’impatto di un’onda sonora abbastanza potente. Ma non solo: a parità di potenza, riconosce onde differenti per frequenza e ampiezza e reagisce di conseguenza. In parole povere, se alzi la musica a un certo volume e lo mantieni inalterato, il proteus cambierà forma a seconda che tu suoni Mozart o i Rolling Stones.»
Lynn era colpita. «Quella pietra distingue i suoni?»
Sonja tornò a fissare Lynn con la sua espressione febbrile. «Ancora meglio. Il proteus riconosce le voci.»
Lynn guardò la scheggia di proteus riprodotta sullo schermo del Cellular, un po’ per allentare la pressione dello sguardo fisso della dottoressa Gustav, un po’ perché veramente interessata.
«Ora, il campione anomalo è una cosa completamente diversa.»
Le dita minute di Sonja sfiorarono la superficie della lente e il cristallo di proteus si ingigantì di dieci volte. All’apparenza, non mostrava nessuna differenza rispetto a tutti i numerosi frammenti già esaminati. Lo stesso aspetto lucente, pieno di sfaccettature, simile a un diamante. Lo stesso colore paglierino.
«Il campione X non reagisce alle vibrazioni sonore. O meglio, non a tutte. La musica, il rumore e qualunque altro stimolo sonoro non provoca nessuna alterazione della sua struttura. Eccetto uno.»
«Smettila di fare melodramma e dimmi cos’ha che non va.»
«X reagisce solo alla voce umana.»
Lynn non disse nulla. Si prese qualche istante per elaborare l’informazione. Scosse la testa con vigore.
«Questo è assurdo. Ci deve essere una spiegazione collaterale che non hai considerato. Non ci sono mai stati umani sul pianeta prima del nostro arrivo. Probabilmente il cristallo proviene da un filone diverso dagli altri, magari il tempo ha settato la sua struttura per reagire a una particolare lunghezza d’onda, che casualmente coincide con quella della voce umana. Tutto qui.»
«È stata la mia prima spiegazione. Non fosse che...»
«Cosa?»
La testa di Sonja si volse in direzione del ripiano alla sua sinistra, occupato da un voluminoso apparecchio elettronico. Lynn distinse un pannello di regolazione della frequenza, un modificatore di altezza d’onda e un generatore di lunghezza d’onda.
«Ho testato un’enorme quantità di suoni. L’ho investito con vibrazioni che avevo tarato con gli stessi identici parametri della voce umana. Ma non ho osservato alcuna reazione. Il proteus X reagisce solo con voce umana pura, non si lascia ingannare da un surrogato elettronico. Un’altra cosa: ho notato che gli unici suoni che percepisce si trovano in un range di frequenza che va dai venti ai ventimila hertz, che è...»
«...che è esattamente l’intervallo di frequenza entro il quale l’uomo può udire i suoni» completò Lynn.
«Sì.»
La dottoressa Gustav e Lynn si osservarono per un attimo. Era come se entrambe cercassero reciproca conferma di quanto avevano appena detto, o forse solo la conferma di non essere impazzite. Il Fentamin poteva provocare distorsioni del pensiero, ma Lynn non ne assumeva da mesi. Malgrado Sonja Gustav ricorresse troppo spesso all’assunzione del medicinale, ciò sembrava non aver intaccato la sua capacità di raziocinio e di elaborazione, che rimaneva superiore a quella di Lynn.
«Qual è la tua conclusione, Sonja?»
«La mia conclusione non ha nessun senso, perciò preferisco tenerla per me.»
«Non importa. Dimmela lo stesso.»
«Ho detto che preferisco tenerla per me.»
Lynn corrugò la fronte. Da tempo sapeva di dover porre un limite alle intemperanze del suo capo ricercatore. A trattenerla, era il dubbio sull’origine di quelle intemperanze. Erano dovute alla dipendenza dagli psicostimolanti, o i farmaci avevano solo liberato un lato di Sonja Gustav rimasto sopito troppo a lungo?
«Il tuo parere è importante, Sonja. Devo conoscerlo, per poter prendere delle decisioni.»
«Il mio parere non era importante, quando hai mandato Delon a recuperare i campioni.»
Un torrente di parole si riversò nella mente di Lynn. Una rabbia cieca si impadronì del suo cuore, offuscandole il pensiero. Nonostante la forza di quell’impeto di furia, mantenne il controllo di sé. Era il capitano della Pygmalion, capo dell’unità esplorativa della Corporazione, responsabile di oltre trenta viaggi interstellari. Non si raggiungevano simili traguardi senza nervi d’acciaio. Voltò le spalle a Sonja Gustav e si incamminò verso l’uscita. Non disse nulla, ma il suo cervello ribolliva di risposte a stento trattenute. Placò quel fiume con un’unica, amara considerazione.
“A parlare non è più la dottoressa Gustav. Ormai, qui dentro non è rimasto nessuno di umano, a parte me.”
Lynn avanzò lungo il corridoio.
“Forse.”
 
La plancia di comando era vuota. Gilbert era da qualche parte chissà dove, nella nave orbitante. Il suo co-pilota era stato uno dei primi a cedere alla febbre da isolamento, dopo che la tempesta elettromagnetica aveva tranciato i collegamenti con la Terra. Il sedile vuoto al fianco di Lynn si ergeva come sinistro monito. Era assurdo personificare a quel modo un oggetto, ma ora il capitano si sentiva messo sotto accusa perfino da quella poltrona. Era come se fosse lì per ricordarle che Gilbert era impazzito per colpa sua, che tutto ciò che andava storto era colpa sua.
“Io sono il capitano. Il peso di ogni cosa, buona o cattiva, ricade su di me.”
Anche la morte di Delon, quindi?
Non era passata notte – notte per modo di dire, s’intende – senza ripensare all’incidente di due mesi prima. Sessantaquattro giorni di tormento, spesi ad analizzare ogni istante della missione che aveva portato alla fine del suo direttore dell’unità scientifica. Nonché futuro marito, una volta di ritorno a casa.
Un progetto destinato a rimanere incompiuto. Il primo della sua vita.
“È stato questo a farmi soffrire, quando è morto?” pensò Lynn, vergognandosi di ciò che si nascondeva nella parte più recondita di sé. “Oppure lo amavo davvero?”
Non era certa di volere una risposta. Non desiderava ulteriori conferme sullo squallore della propria anima.
La sua testa si abbandonò sullo schienale del sedile. Osservò in silenzio il pianeta davanti a sé, la pallida stella a milioni di anni luce di distanza, piccola e lontana come una stella del cielo notturno terrestre. Era come essere di nuovo a casa. Per questo amava le stelle: non importava quanto grande fosse l’universo o quanto lontani potessero essere da casa, quei puntini luminosi erano gli stessi dovunque, davanti a un pianeta alieno come sul prato bagnato di rugiada della sua villa di campagna nel West Kansas. La stretta intorno al cuore si alleggerì.
Lasciò che la testa reclinasse verso destra. Il suo sguardo cadde sul pannello di controllo lungo il bordo destro della consolle. Una spia blu lampeggiava a intervalli di due secondi.
«Gilbert...» mormorò Lynn. «Potevi trovare un momento migliore per uscire di testa.»
 
Nel corso delle sue trentadue missioni interstellari, Lynn non aveva mai aperto l’armadio d’emergenza. Non ce n’era mai stato bisogno, perché le cose erano sempre andate secondo i piani, in massima parte. Dopo due anni di isolamento, Lynn sapeva che presto si sarebbe trovata costretta a rimuovere il sigillo. Anche abbandonati in mezzo al nulla, non poteva permettersi di perdere la testa. Sapeva che i rintracciatori della Corporazione impiegavano anni a ritrovare una stazione smarrita, questo faceva parte dell’addestramento base. Doveva resistere fino a quel momento, e mantenere la stazione sotto il suo controllo. L’anta in titanio dell’armadio si spalancò e Lynn estrasse il Volter.
Non vedeva Gilbert da settantadue ore. Conosceva la stazione meglio di chiunque altro, essendo il principale artefice della sua progettazione. Quando in lui si erano manifestati i primi segnali di squilibrio, Lynn aveva esitato a rinchiuderlo, temendo di rimanere senza un prezioso elemento in grado di aiutarla a esercitare il controllo sulla Pygmalion. Cominciava a rendersi conto solo adesso di quanto fosse peggio averlo a piede libero. Le scorte di Fentamin erano al sicuro, almeno così credeva Lynn fino a un istante prima. La spia blu in allarme sulla consolle diceva il contrario. Segnalava infatti un accesso non autorizzato nel deposito dei medicinali. Era inevitabile che prima o poi Gilbert avrebbe tentato di penetrare con la forza al suo interno. Un cervello come il suo, anche alterato dagli effetti a lungo termine del Fentamin, conservava l’abilità per cancellare qualsiasi ostacolo dal suo cammino.
L’ascensore trasportò Lynn al livello 13, in prossimità del deposito. All’altro lato del corridoio, scorse una luce lampeggiante arancione. Era il segnale d’allarme che sovrastava l’accesso all’area ristretta. La porta d’acciaio era spalancata. Gilbert doveva essere riuscito a bypassare il sistema manualmente, manipolando i circuiti elettronici di sicurezza. Come diavolo avesse fatto, Dio solo sapeva.
“Quell’uomo è un genio. Sarebbe capace di smontare la Pygmalion pezzo per pezzo, se questo lo avvicinasse alla droga” pensò Lynn, stringendo il Volter nella destra.
Oltre la porta, si estendeva la lunga fila di cassettiere a scorrimento che contenevano i farmaci. C’erano medicine per qualsiasi evenienza, dalle compresse per l’ipertensione alle fiale di antidolorifico. In fondo alla stanza, protette da una cassaforte a riconoscimento vocale e a scansione retinica, c’erano le sostanze psicostimolanti e i derivati della morfina. Solo Lynn e Delon potevano aprire quel comparto.
Lynn entrò nel deposito, guardandosi attorno con circospezione. Non c’era nessuno in vista, il silenzio più completo regnava tra quelle pareti bianche.
«Gilbert» disse Lynn. «So che sei qui dentro. Non voglio farti del male, ma il tuo comportamento è pericoloso per la sicurezza di tutti. Se vuoi del Fentamin, posso accontentarti. Ma devi uscire di qui.»
Non ci fu risposta. La cassaforte si trovava nella seconda stanza del deposito, nascosta da un’ingombrante cassettiera alta due metri e mezzo. Una pessima scelta di progettazione.
«Gilbert, la nave ha bisogno di te. Io ho bisogno di te. Non posso governare la Pygmalion da sola. Presto i rintracciatori saranno qui, e non posso mettermi in contatto con loro se tu...»
...se tu non torni sano di mente, avrebbe voluto aggiungere. Non poté dirlo. Dalla sua bocca uscì solo un mugolio sordo, mentre il dolore si irradiava in ogni parte del corpo. Poi tutto diventò nero, mentre il pavimento di un bianco scintillante si avvicinava sempre più alla faccia.
 
Il mal di testa era accecante. Era in preda alla nausea. Sentiva qualcosa di viscido e caldo colarle dalla fronte, sgocciolando sull’occhio. Sangue. Non riconobbe niente di quello che vedeva, perché tutto era sfocato. Un suono rimbombava nelle orecchie, una voce, ma era impossibile distinguere le parole, o a chi appartenesse.
A poco a poco, la lucidità cominciò a tornare. Il viso di Sonja Gustav si delineò sopra di lei. Lynn non ebbe tempo di proferire parola, perché un dolore lancinante si propagò dal suo braccio sinistro in ogni parte di lei, costringendola a gridare.
«Sei cosciente, quindi. Molto bene. Non avrebbe senso mandarti a morire se non puoi sentire nulla.»
La scarica del Volter, regolata sulla frequenza minima, aveva provocato una delle fitte dolorose più forti che Lynn avesse mai provato. L’adrenalina si riversò a fiumi nel suo sangue, rendendola subito sveglia e in preda al terrore.
«Che stai facendo, Sonja?»
Il corpo di Lynn era immobilizzato, caviglie e polsi legati da una striscia di plastica da imballaggio. A ogni tentativo di liberarsi i bordi rigidi e affilati della plastica le affondavano nella carne. Una striscia di sangue colava già lungo i palmi delle mani.
«Rimetto le cose a posto, Lynn. Le cose dovevano andare in un altro modo.»
«Che vuoi dire?»
La risata di Sonja era fredda, priva di gioia. Un verso plateale che enfatizzava la stupidità della domanda. «La miniera non sarebbe andata da nessuna parte. L’abbiamo scoperta noi, la Corporazione ha il suo diritto di sfruttamento, nessuno poteva portarcela via. Ma non avevamo fatto i conti con la tua ambizione, non è così? Non bastava averla scoperta, certo che no. Dovevi portare ai grandi capi qualcosa di più, qualcosa che dimostrasse loro che la tua missione non era un completo fallimento. Quando abbiamo trovato il proteus, dovevi essere al settimo cielo, non è vero?»
«Ascolta, Sonja, non so a cosa stai pensando, ma...»
Un grido di dolore. Un’altra scossa del Volter.
«Tu ascolterai, adesso. Non ti permetto di parlare, soprattutto se devi mentire» disse Sonja. I suoi occhi fiammeggiavano, due punti neri che la fissavano, infossati nelle orbite. «Potevamo aspettare. Se fossimo tornati subito a casa, avremmo evitato la tempesta. Ma tu hai voluto restare, mandare Delon in avanscoperta, a raccogliere campioni. Campioni! Hai sacrificato il tuo uomo per raccogliere dei fottuti campioni!»
«Ne avevamo discusso, sapeva a cosa andava incontro...»
«Avrebbe fatto qualunque cosa pur di riportarci indietro! Ti rispettava, non voleva negare la tua autorità. Ha preferito sfidare la morte, piuttosto che isolarti dal resto dell’equipaggio.»
«Non è così, io e lui...»
«Non c’era nessun ‘tu e lui’: eri tu e basta. Tu non provavi niente per Delon, ammettilo. È sempre stata più importante la Corporazione, la ricerca, persino una scheggia di metallo! Hai preferito stringere a te un pezzo di roccia piuttosto che Delon.»
«Perché mi stai dicendo tutto questo, Sonja?»
Gli occhi di Sonja Gustav erano sbarrati, pervasi da un mistico senso di giustizia. Avere il destino di Lynn nelle mani la riempiva di una calda sensazione di vittoria, della consapevolezza di poter cancellare un torto a lungo rimasto impunito.
«Delon avrebbe potuto avere tutto ciò che desiderava, da me. Ma non ho mai potuto dimostrarglielo. Tu me l’hai portato via troppo presto.»
Lynn abbassò lo sguardo. Non aveva la forza di sostenere quello di lei.
«Lui ha scelto te, invece. Ma non è tardi per rimediare. Grazie al proteus, non lo è.»
Lynn non ebbe nemmeno il tempo di domandare una spiegazione. A niente sarebbe servito implorare Sonja. Non avrebbe atteso un istante di più per attuare il suo piano. Il Volter rilasciò un’ondata di corrente elettrica nel suo corpo, paralizzandola. La scossa si protrasse per cinque secondi, più che sufficienti per rendere il suo sistema nervoso del tutto inabile a qualsiasi movimento. Lynn percepì il fiotto di saliva colare dall’angolo della bocca, gli occhi immobili, fissi a guardare verso l’alto, mentre Sonja la trascinava per le spalle nella capsula di salvataggio. Sonja Gustav non aggiunse altro. Sigillò l’entrata della capsula, mentre rumori esterni di ingranaggi che scattavano si ripetevano a intervalli regolari, sempre più forti. In qualità di capitano, Lynn sapeva perfettamente che cosa stava per succedere.
Entro un minuto, sarebbe stata espulsa nello spazio aperto.
 
Sonja Gustav osservò il corpo di Lynn Valsir-Festold oltre il vetro della capsula. Ogni tanto era scosso da un tremito, nel vano tentativo di recuperare il controllo degli arti. Come se potesse servire a qualcosa. Anche se si fosse rialzata in piedi, non poteva fare nulla per bloccare l’espulsione della sua prigione di acciaio. Si era premurata di manomettere il pannello dei comandi d’emergenza, in modo che la procedura di rilascio non potesse venire interrotta. Niente andava lasciato al caso, in un momento come quello.
Bastava abbassare l’interruttore, e tutto sarebbe finito. Assaporò quegli ultimi istanti con un piacere che rasentava il sublime.
Lynn sarebbe scomparsa nelle profondità senza confini dello spazio. Lei, invece, avrebbe condiviso l’eternità con Delon, la cui anima era ancora lì, sulla Pygmalion. La sua scoperta era stata eccezionale, niente sarebbe più stato come prima, adesso. In un certo senso, il suo piano era stato frutto di quella scoperta.
Il semplice proteus era un miracolo della natura. Un minerale con simili proprietà era sconosciuto in ogni parte dell’universo esplorato. Ma il proteus X, il campione recuperato dal relitto dov’era morto Delon... era qualcosa di trascendentale.
Il proteus X non si limitava a reagire alla voce umana. Ne emetteva una propria. E non una qualunque.
La prima volta che Delon le aveva parlato, era sola in laboratorio. Analizzava quel minuscolo frammento ambrato, il cui comportamento si era subito rivelato anomalo. Gli strumenti avevano rivelato onde di energia emesse dal minerale, e Sonja aveva pensato immediatamente a radiazioni di un qualche tipo. Ma non si trattava di radiazioni, tutti i test successivi avevano smentito quell’ipotesi. No, si trattava di qualcosa di molto diverso. Prima che Sonja potesse svelare il mistero del proteus X, il mistero si era rivelato a lei.
Sonja.
Il nome era stato pronunciato con chiarezza. Aveva alzato lo sguardo d’istinto, cercando un volto che non c’era. Era sola, come sempre. L’interfono era disattivato. Nessuna figura umana o apparecchio elettronico in grado di emettere suoni era presente nel raggio di cinquanta metri.
Sei qui, Sonja.
Tre parole, riecheggiate come una sola.
Un nome a rimbalzare nella mente, subito respinto.
Impossibile. Folle.
Io ti sento.
Delon.
Non c’era timbro in quella voce, né inflessioni, né l’infinita serie di sfumature che rendevano unica la voce di un essere umano, ma Sonja non nutriva dubbi. Il suono che aveva udito, che proveniva dappertutto e da nessun posto, era stato pronunciato da Delon.
Schiacciò le orecchie con le mani. Tutto questo non era possibile, non era reale. Cominciava forse a cedere allo stress da isolamento? O forse era il Fentamin a indurre le allucinazioni? Qualunque spiegazione era accettabile, persino l’idea di essere diventata pazza negli ultimi cinque minuti, ma non che Delon, sotto qualche forma inspiegabile al raziocinio umano, fosse lì con lei.
Mantenne le orecchie tappate per minuti interi, forse addirittura per ore. La voce non tornò. Era isolata. Non aveva il coraggio di abbassare le mani per tornare a udire il suono della Pygmalion. Se doveva cedere alla follia, voleva che a precipitarla nell’abisso fosse la sua propria voce, e quella soltanto. Un pensiero assurdo, ma al quale Sonja si aggrappò disperatamente.
Liberò le orecchie. La voce tornò.
Sonja. Sonja. Sonja. Sonja.
Questa volta era preparata. Nel silenzio della mente, il lato freddo e logico della scienziata era tornato a guidarla. Avrebbe affrontato quella situazione con la stessa determinazione che impiegava quanto si trattava di risolvere equazioni complesse, certa che alla fine i suoi sforzi sarebbero stati ripagati con la soluzione, la cui semplicità era sempre celata da una muraglia di simboli apparentemente indecifrabili. Se c’era una cosa che Sonja aveva imparato, era che esisteva sempre una chiave per decodificare l’enigma più intricato.
Delon la chiamava. Avrebbe risposto.
«Sono qui.»
Dove sei?
«Nel laboratorio. Tu?»
Non lo so. Io non so niente.
«Sei vivo, Delon? Sei sopravvissuto?» Il cuore di Sonja cominciò a battere all’impazzata.
Non lo so. Io non so niente.
«Che cosa significa? Continua a parlarmi.»
Sono... oltre. Ma sono ancora qui.
«Perché sento la tua voce?»
Perché parlo.
«Sei sul pianeta?» azzardò Sonja, anche se quella domanda era priva di senso.
Sono qui.
 
Il loro dialogo era andato avanti a lungo. Le risposte di Delon erano criptiche, spesso insensate. Era come se avesse perduto la capacità di comunicare in maniera proficua con una persona. I suoi discorsi racchiudevano le risposte che intendeva fornire, ma avviluppate in una coltre di mistero che rendeva impossibile comprenderne il significato. Sonja tentava di estrapolare tutto il possibile da quelle parole, e a poco a poco intuì quello che stava succedendo.
Delon era morto, non c’erano dubbi. Ma qualcosa di lui era rimasto nel mondo materiale, catturato dalla straordinaria capacità del proteus di registrare e riprodurre le vibrazioni. Fu allora che le tornò in mente una strana teoria, letta distrattamente o ascoltata per caso chissà quando, chissà dove. Nel mondo dominato dalla ricerca scientifica e dall’ineluttabilità delle leggi fisiche, qualcuno aveva sostenuto l’esistenza dell’anima umana, anche se non in termini mistici: era possibile, a detta di chi sosteneva la teoria, che l’anima non fosse altro che una forma di energia, quantificabile, misurabile. Una volta che l’essere umano muore, come predice Einstein, l’energia non scompare, ma si converte. Il sostenitore della teoria, il cui nome era stato presto dimenticato da Sonja, asseriva che quell’energia risonasse nello spazio circostante, diffondendosi come un suono, riflettendosi sulle superfici che incrociava o convertendosi in altre forme di energia. In un ciclo senza fine.
I campioni di Proteus raccolti da Delon lo circondavano al momento della morte.
Era davvero possibile che uno di questi avesse racchiuso il suo spirito? Dal punto di visto scientifico, era un’idea inconcepibile.
Ma la voce di Delon era nelle sue orecchie, a ripetere le parole che lei aveva tanto amato sentirgli dire, con il tono morbido e pacato che lo aveva sempre contraddistinto.
Sei tanto cara, Sonja.
Non potrei fare nulla senza te, Sonja.
Ti ringrazio per avermi aiutato, Sonja.
Trova Lynn.
L’incantesimo si spezzò. Quel nome, emerso all’improvviso nel fluire del loro discorso, strideva come unghie sulla lavagna. Non importava che Lynn e Delon avessero una relazione sentimentale. Era stata Sonja a ritrovare l’anima di Delon, a riconoscerla come tale. Non era forse una seconda occasione di avere Delon accanto a sé? Non avrebbe permesso che Lynn si intromettesse nuovamente. Aveva avuto il corpo di Delon, non era forse sufficiente? Sonja poteva avere molto di più. Non avrebbe scambiato quell’anima con niente al mondo, né avrebbe permesso che Delon le fosse strappato una seconda volta.
«Perché vuoi Lynn? Lei ti ha ucciso. Te lo ricordi, vero? Ti ha mandato a morire. Non eri niente per lei, non ti amava. Ma io sì» sussurrò Sonja, udibile a malapena per le sue stesse orecchie. «Io non ti abbandonerò, nemmeno in questa forma.»
Non ci fu risposta. Sonja alzò la voce, temendo che il proteus X non avesse reagito per via di uno stimolo troppo basso. Arrivò a gridare, ma la roccia ambrata continuò a rimanere inerte. Le sfumature multiformi continuarono a scintillare sulle sue superfici levigate, ma il silenzio era diventato padrone del laboratorio.
Un urlo agghiacciante riecheggiò nel cuore di Sonja.
Stava succedendo di nuovo. Lynn stava portando via Delon, ancora.
«No» disse Sonja. «Questa volta no.»
 
«Volevi il pianeta, Lynn?» mormorò Sonja, osservando il corpo immobile del capitano al di là della capsula di salvataggio. «Tra poco lo avrai. Tutto per te.»
Prima di abbassare l’interruttore di espulsione, estrasse da una tasca della tenuta da laboratorio un cubo di vetro. Al suo interno, c’era il frammento che racchiudeva l’eternità dell’unico uomo che avesse amato. Non poteva udire la sua voce, trattenuta da quel sottile strato di materiale trasparente. Ma non importava. Doveva avere la mente sgombra, per fare quello che andava fatto. Non ci sarebbe stato nessun proteus a raccogliere i residui dell’anima di Lynn Valsir-Festold. Non c’era nulla, in lei, che valesse la pena conservare.
«Addio, capitano.»
L’interruttore si abbassò.
Sonja impiegò una ventina di secondi per realizzare che non stava accadendo nulla.
La capsula era immobile, la procedura di espulsione non era stata avviata. Ripeté l’operazione, ma i comandi continuarono a non rispondere. Imprecò furiosa, maneggiando il pannello con rabbia crescente.
Non badò all’impercettibile rumore di passi alle sue spalle.
Quando la sbarra di metallo le calò sulla nuca, la sua mente era ancora proiettata su Delon, e su quanto poco mancasse al loro definitivo ricongiungimento.
 
Le braccia e le gambe erano intorpidite, come se la scarica elettrica continuasse a scorrere sotto ogni centimetro di pelle. L’addome teso, il petto rigido, le labbra dischiuse in una smorfia. Le dita stavano recuperando la sensibilità. Riuscì a serrare il pugno, con notevole difficoltà. Cominciò a percepire il freddo metallo su cui era appoggiata. Pochi minuti dopo, avvertì il dolore della carne schiacciata sotto il suo stesso peso.
Lynn si rialzò a fatica, poggiando la mano sinistra sul pavimento ed esercitandovi pressione per sollevarsi. Una volta in piedi, la porta della capsula era ancora sbarrata. Era prigioniera, ma viva. Forse per poco, ma con il controllo, almeno parziale, di sé.
Si affacciò all’oblò, ma il vetro era appannato. Non riuscì a distinguere le immagini oltre quello che era diventato il suo minuscolo universo. Fu allora che quel pensiero si impadronì di lei. Una sensazione spiacevole, un’idea che aveva cercato di respingere il più a lungo possibile. D’altronde, stava per morire. Non ci sarebbe stato un altro momento per soffermarsi su ciò che aveva fatto, e anche quell’istante non sarebbe bastato per cercare una sorta di redenzione. Ma era meglio di niente.
“Delon è morto così.”
Doveva trovarsi in uno spazio non molto più ampio di quello in cui si trovava lei ora. Era un bravo pilota, ma non era servito. Una variabile non considerata, un guasto tecnico, un attimo di distrazione, o chissà cos’altro. Ormai non importava. Quello che era successo non poteva essere cambiato. Era stata lei a ordinargli di scendere sul pianeta per prelevare il proteus. Non gliel’aveva chiesto. Lo aveva ordinato. Delon aveva obbedito, sorridendo come se si fosse trattato di un semplice favore. Era stato davvero consapevole dei rischi? A premere le lacrime nei suoi occhi, adesso, era la certezza che Delon, appena prima di partire, non stesse obbedendo a un ordine. Stava andando di sua spontanea volontà, per renderla felice. Probabilmente non sapeva di andare incontro alla morte, ma doveva averne percepita la presenza. Era andato lo stesso.
Lynn pianse. Dai suoi occhi stillarono amarezza e rimpianto, anche se non in quantità sufficiente da rendere vuoto il suo cuore.
Quando la porta venne spalancata con un clangore stridente, quasi non se ne accorse.
Non badò quasi a Gilbert che le cingeva le spalle con le braccia.
 
Sonja aveva la faccia rivolta a terra, un livido iniziava a formarsi sulla nuca. Una sottile striscia di sangue colava lungo il collo.
«È morta?»
Gli occhi di Gilbert saettarono rapidamente da Sonja a Lynn, e di nuovo da Lynn a Sonja. Era confuso, impaurito, come se non si capacitasse che quanto era appena avvenuto fosse opera sua. Il suo volto scavato trasmetteva angoscia allo stato puro.
Lynn si abbassò per premere due dita in corrispondenza della carotide.
«Va tutto bene, Gilbert. È viva.»
Lynn non era sicura che il suo co-pilota si rendesse pienamente conto su dove si trovasse, o sul significato delle sue parole. Gli occhi infossati tornarono a guardare in direzione del corridoio, come se una voce irresistibile lo chiamasse.
Prima che potesse fuggire, Lynn lo afferrò per entrambi i polsi.
«Non aver paura. È tutto a posto. Ti farò stare meglio, te lo prometto.»
Le pupille dilatate rivelavano un’alta concentrazione di Fentamin nel sangue. Prima che gli effetti diventassero irreversibili, avrebbe dovuto sottoporlo a una serie di cicli di depurazione. Non bisognava perdere tempo.
Non è colpa tua.
Lynn si irrigidì. Per un attimo, credette che a parlare fosse stata Sonja, dal momento che a parte lei e Gilbert non c’era nessun altro sull’astronave. Si guardò intorno, sconcertata. Sonja era ancora esanime sul pavimento. Il Volter abbandonato a pochi passi da lei.
«Chi ha parlato?»
Va tutto bene, Lynn.
«Chi sei?»
Non è colpa tua.
Quello che dapprima aveva considerato un suono proveniente dall’interno, una voce nella testa, si rivelò presto come qualcosa di esterno, percepito dalle orecchie e non da un’alterazione della sua psiche. Ma qual era la fonte? La voce sembrava provenire da ogni parte. Inoltre, perché – nonostante l’evidente anormalità di quella situazione – non si sentiva minacciata? C’era qualcosa, in quel suono, che la faceva sentire tranquilla, come se facesse parte di lei. Era una voce che conosceva da tanto tempo, di cui aveva imparato a fidarsi. Una voce che amava sentire.
«Parla ancora.»
Torna a casa, adesso.
Lynn provò quel tuffo al cuore che si avverte precipitando da un’altezza considerevole. Il cuore le martellava in petto.
«Del?» Non ci fu più risposta. D’istinto comprese che la voce non avrebbe più parlato. «Del? DEL!»
Lo chiamò a lungo, ma a rispondere fu il suo stesso grido, amplificato dall’eco della stanza. C’era solo Gilbert accanto a lei, che la fissava afflitto, come rammaricandosi di non poter lenire la sofferenza di quella creatura angosciata.
Osservò il frammento di roccia ambrata all’ingresso della capsula di salvataggio. Era fuoriuscito dal cubo di vetro, che si era infranto cadendo giù quando Sonja era stata tramortita. Il bagliore al suo interno non era più nitido, le sue superfici brillanti non erano niente più che uno specchio levigato.
 
Sonja riaprì gli occhi due ore dopo. La sua ferita medicata, le mani bloccate da manette di titanio.
«Ho freddo.»
«Durerà poco, te lo prometto.»
«È quello che penso?»
Non ci fu bisogno di rispondere, perché Sonja aveva ormai recuperato piena lucidità e si stava guardando attorno. Vide i bordi della cabina di ibernazione, e seppe quello che stava succedendo.
«Volete fare a meno della mia compagnia, immagino.»
«Sei troppo dura con te stessa. Rimarremo tutti immobili e in silenzio per un bel po’.»
Sonja sgranò gli occhi, incredula alle parole di Lynn.
«Procedura di conservazione?»
«Sì. Non abbiamo altro da fare, qui. Ci vorrà ancora molto prima che ci ritrovino. Aspetteremo tutto il tempo necessario.»
«E il proteus?»
«Non è importante.»
Sonja guardò il soffitto, gli occhi socchiusi, il respiro regolare. Sapeva che una domanda aleggiava nell’aria, e Lynn non tardò a rivolgergliela.
«È stato il Fentamin? Oppure l’avresti fatto comunque?»
Sonja rimase in silenzio a lungo. Forse, cercava la risposta dentro di sé.
«L’ho fatto perché volevo farlo. Ma non ci sarei riuscita, senza una spinta.»
Lynn aggrottò la fronte, un’espressione triste in volto. «Non nutro rancore verso di te. Voglio che tu lo sappia.»
Sonja Gustav fissò lo sguardo di Lynn Valsir-Festold. Impossibile dire cosa esprimessero quegli occhi freddi, cristallini. Disprezzo, compassione, speranza? Forse, tutto insieme e anche di più. Non disse nulla in risposta alle parole di Lynn. Attese che il pannello si richiudesse sopra la sua testa, e si lasciò ibernare senza aggiungere parola.
 
Gilbert si lasciò scivolare dentro la capsula. Lynn osservò l’espressione tesa dei suoi occhi, e si sforzò di tranquillizzarlo.
«Non sentirai nulla. Sarà proprio come addormentarsi. Capisci perché dobbiamo farlo, vero? Se restiamo coscienti, continueremo a invecchiare nell’attesa che la Corporazione ci trovi.»
Gilbert non disse nulla. Lynn non riusciva a ricordare l’ultima frase che avesse pronunciato. Non ricordava nemmeno con esattezza quando avesse smesso di parlare, e perché. Le sindromi da isolamento erano di difficile comprensione, e ancor più difficile era comprendere gli strani effetti che producevano sulla mente umana. Lynn si augurò che il periodo di ibernazione liberasse Gilbert dal mutismo in cui era precipitato. Forse, tutto quello di cui aveva bisogno era la dimostrazione di non essere perduti, che qualcuno li stesse ancora cercando, che non fossero rimasti soli nel vasto universo senza fine.
Il pannello sigillò la capsula di Gilbert.
Lynn era sola, adesso. Più sola di quanto fosse mai stata. Eppure, era meno afflitta rispetto a poche ore prima.
Il pianeta era là fuori, come sempre. Senza tempo, senza nome.
«Delon» disse. «Mi sembra appropriato.»
Registrò quel nome sul diario di bordo. Ogni pianeta doveva averne uno. Non ne avrebbe mai trovato uno più adatto.
Si sdraiò nella propria capsula e avviò la procedura di conservazione. Prima che il pannello venisse sigillato, riuscì a dare un ultimo sguardo alla volta stellata oltre l’immensa vetrata della cabina di pilotaggio. Stelle infinite, immobili su un mantello nero come la notte. Verso quale di esse stava viaggiando Delon, in quel momento? Sarebbe giunto in un luogo tanto lontano da non poter essere raggiunto dal suo pensiero?
Gli occhi di Lynn si chiusero.
 
   
 
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