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Autore: Rosalie97    15/10/2015    1 recensioni
Dalla One Shot:
"Il posto dove stavano andando l’aveva segnata in un modo che lui non poteva minimamente immaginare. Certo, capiva che Dawn avesse sofferto, da piccola, così come aveva sofferto lui. La loro sofferenza, però, era stata diversa: Scott aveva ricevuto amore, oltre al dolore che gli avevano dato gratuitamente, come se un bambino di soli cinque anni potesse mai meritarselo, mentre Dawn aveva ricevuto solamente solitudine, strazio e violenza. Lui odiava pensare che quella dolce ragazza avesse dovuto sopportare certe cose, una povera bambina tra le fauci di mostri.
Avrebbe ucciso con le proprie mani ognuna di quelle persone che l’avevano fatta soffrire, se avesse potuto."
Genere: Fluff, Song-fic, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dawn, Scott
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale
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[Ispirato a House on a hill dei The Pretty Reckless.]


The house on the hill
 



Era una giornata grigia, il cielo era un ammasso di nubi incolori che si andavano ammassando, prive di una forma ma non prive di uno scopo. Rendevano l’atmosfera del luogo triste, smunta, appesantivano i cuori dei due giovani che stavano camminando lentamente. In qualche modo, però, era giusto così, dopotutto quella che quegli adolescenti stavano andando a fare, non era una gita di piacere, degna delle risate gioiose della ragazza che teneva la testa bassa, camminando come stesse andando dritta tra le fauci della propria fine.
La pesantezza della situazione era palpabile, questo era chiaro.
- Dawn - disse il ragazzo, interrompendo il silenzio che era andato a formarsi tra loro. L’ultima volta che si erano rivolti la parola era stata quella mattina, quando lui era andato a casa di lei, che non aveva l’automobile e non sarebbe potuta andare lì da sola.
La ragazza non rispose, si limitò a continuare a camminare. Non se la sentiva di parlare, non ce la faceva. Avrebbe voluto trovarsi ovunque tranne che lì, ma sapeva che doveva farlo, non poteva farne a meno. Era un passo importante, il suo passato non si sarebbe mai chiuso definitivamente finché non fosse andata lì e avesse visto con i propri occhi il luogo che avrebbe preferito dimenticare, sradicare dallo stesso tessuto del mondo.
- Raggio di Luna, parlami - insistette il ragazzo.
Dawn avanzava, il giovane alle calcagna, che però si teneva a debita distanza, come se lei avesse potuto morderlo come un cane rabbioso. Solitamente la ragazza era gioiosa, sorrideva costantemente e portava luce dove non ce n’era. Ma questa volta, nessuna gioia traspariva dal suo bel volto dalla pelle diafana. Gli occhi azzurri guardavano in alternanza il terreno e l’orizzonte, socchiusi per via del vento freddo. Le ciocche di capelli biondi le si alzavano nella brezza, che sembrava volersi insinuare ovunque, persino nell’animo di quella giovane, che però si era già improvvisamente congelato. Attorno al collo aveva una sciarpa viola e indaco dal tessuto liscio e morbido. Indossava un paio di collant neri che le donavano, degli stivaletti neri e una giacca verde.
- Dawn, perché mi ignori?
- Lasciami stare, Scott - replicò alla fine, stanca di sentir ripetere il proprio nome e stufa di tutte quelle parole. Non voleva parlare, perché Scott non sembrava volerla capire?
- Raggio di Luna, non trattarmi così.
Dawn si voltò di scatto, un’espressione rabbiosa sul viso. Scott non l’aveva mai vista così. - E come vuoi che ti tratti?! Hai dimenticato dove stiamo andando?! Hai dimenticato che per me è una svolta, che per me è importante ma vorrei non andarci mai?! Smettila di parlare, e lasciami in pace! - detto questo, si voltò di nuovo, rivolgendogli le spalle, e riprese a camminare. I suoi piedi, avvolti negli stivaletti, affondavano nella terra umida e fredda, che le ricordava le sabbie mobili. Quel luogo non sembrava cambiato di una virgola.
Scott rimase immobile, il viso privo d’espressione ma al tempo stesso con occhi pieni di emozioni. Dawn non si era mai comportata così, non lo aveva mai trattato in questo modo, non aveva trattato mai nessuno in questo modo. A quanto pare, il posto dove stavano andando l’aveva segnata in un modo che lui non poteva minimamente immaginare. Certo, capiva che Dawn avesse sofferto, da piccola, così come aveva sofferto lui. La loro sofferenza, però, era stata diversa: Scott aveva ricevuto amore, oltre al dolore che gli avevano dato gratuitamente, come se un bambino di soli cinque anni potesse mai meritarselo, mentre Dawn aveva ricevuto solamente solitudine, strazio e violenza. Lui odiava pensare che quella dolce ragazza avesse dovuto sopportare certe cose, una povera bambina tra le fauci di mostri. Avrebbe ucciso con le proprie mani ognuna di quelle persone che l’avevano fatta soffrire, se avesse potuto.
Riprese a camminare, mentre Dawn era già lontana.
La ragazza non pensava a nulla, invece, si limitava ad andare avanti, a mettere un piede dopo l’altro. Aveva congelato la mente e il cuore, per impedirsi di provare quella paura profonda e spaventosa che albergava in lei da anni ed anni, da quando era stata una neonata, consegnata in una copertina bianca come fosse stata un cesto di pane. Non sapeva chi fosse stato a portarla lì, se i suoi genitori, se un buon samaritano, che tanto buono non era poi stato, oppure qualche altro parente che non aveva voluto prendersela in carico. Perché quella persona lo aveva fatto? Perché non ci aveva pensato due volte? Perché non aveva deciso di tenerla con sé, una neonata dai grandi occhioni blu e la pelle chiarissima. Perché? Le avrebbe risparmiato un decennio di sofferenza.
Ma dopotutto, Dawn si rendeva conto che era inutile rimuginarci. Il passato era passato, e non si poteva cambiarlo. Ecco perché si stava dirigendo lì, per chiudere con quest’ultimo una volta per tutte ed iniziare a vivere pienamente, eliminando la paura che le impediva di dormire bene la notte. Spesso faceva incubi, era così da sempre, e Dawn era stanca, stanca di dover ricordare, di dover soffrire ancora oggi per quel che le avevano fatto molto tempo prima. Era andata da molti specialisti, psicologi molto bravi nel proprio lavoro, ma nulla aveva funzionato. Solo ultimamente aveva trovato una soluzione, ma nemmeno quella andava bene: un dottore le aveva prescritto dei medicinali in compresse che le avrebbero permesso di fare un buon sano sonno privo di sogni, che per lei invece erano incubi veri e propri. Ma i risultati erano davvero pessimi, quando si svegliava si sentiva più stanca di prima, e spesso era svenuta improvvisamente, intenta a svolgere le proprie commissioni e impegni.
Ovviamente non si poteva andare avanti così.
Scott era preoccupato, una volta una donna gli aveva telefonato per avvertirlo che Dawn era svenuta in banca, mentre faceva la fila, perché lui era il primo numero di emergenza della giovane, a cui seguivano B e Zoey. E proprio per questo, per questa sua paura che le potesse accadere qualcosa, l’aveva costretta a raccontargli tutto del passato che si nascondeva alle spalle. La ragazza era stata un po’ restia, ma alla fine gli aveva svelato ogni cosa, nei minimi particolari, come non aveva fatto con nessun’altro. Nemmeno B conosceva tutta la storia. Scott ne era felice, per quanto si potesse essere felici, nel conoscere quel che lei aveva dovuto passare, perché questo voleva dire che era speciale, in qualche modo, per Dawn.
- E se non fosse la cosa giusta da fare? - sussurrò al vento gelido mentre seguiva Dawn, distante da lui. Lei non avrebbe potuto sentirlo, e Scott non sapeva bene con chi stesse parlando di preciso. Non era convinto di aver fatto la mossa corretta, consigliandole di tornare lì, aveva paura che l’avrebbe solamente fatta stare peggio, ma la ragazza gli aveva rivelato che da tempo aveva pensato di farlo, nonostante non si fosse mai azzardata per il troppo timore. Ancora il giovane non si capacitava del perché Dawn avesse deciso di portare lui con sé e non B, o magari Zoey. Che fosse più speciale in confronto ai due?
Continuarono a camminare, mentre in distanza si stagliava il profilo di un edificio grigio ed abbandonato a sé stesso, oltre alle forze del tempo, a mano a mano più vicino.
Non si fermarono, e Scott, tre metri prima di arrivare all’istituto solitario, raggiunse Dawn e le si affiancò. Vide che le guance di lei erano umide e notò una singola lacrima scenderle dall’occhio sinistro fino al collo. La giovane non emetteva suoni, non singhiozzava, e vederla così era straziante. Non la riconosceva, non riusciva a mettere in confronto la Dawn di sempre con la ragazza che ora era accanto a lui, erano completamente diverse. Che Raggio di Luna avesse sempre e solo indossato una maschera? Scott non lo credeva, ma dopotutto non poteva sapere come stavano le cose in realtà, dentro di lei.
Piano, il rosso, fece uscire la mano destra dalla tasca del giubbotto marrone che indossava e prese quella sinistra di lei. Dawn non si ritrasse, anzi, incrociò le dita con quelle di lui, continuando a guardare avanti a sé. Tirò su con il naso una singola volta, inspirando forte nei polmoni, quando furono a mezzo metro dall’edificio.
L’istituto era una casa di quattro piani, varie finestre si stanziavano sulla facciata come occhi sul volto di un mostro, i balconcini bianchi sporcati da segni neri che si potevano vedere anche da lì. Tutta la dimora lasciata al destino si trovava rialzata su una collina ed attorno ad essa c’era un giardino incolto pieno di sterpaglie e erbe secche o morte. Fiori selvatici dall’aspetto per niente sano spuntavano qua e là come funghi, così come gli alberi contorti e neri che sembravano non vedere fioritura da decenni. Il tutto, in qualche modo, si intonava alla perfezione con il cancello di ferro battuto grigiastro che attorniava la proprietà e con l’intonaco scrostato e segnato dal tempo dell’edificio. Scott trovava che il paesaggio fosse alquanto smunto e povero, triste, spaventoso.
Dawn fece una piccola risata, tanto amara da non combaciare con il suo carattere: - Non è cambiato di una virgola.
Scott lanciò un’occhiata prima a lei e poi alla casa, per poi riportarlo di nuovo sulla ragazza: - Tu sul serio hai vissuto qui?! Dimmi che è uno scherzo.
- Non è uno scherzo, Scott.
- Ma sembra l’ambientazione di un film horror.
Dawn rise di nuovo. Stavolta fu una risata sincera, cristallina, ma non piena di felicità come lo era di solito. - Lo so. E credimi, lo è.
Lui le lasciò qualche momento per contemplare il luogo, e poi le chiese: - Vuoi entrare?
Raggio di Luna ci mise qualche istante prima di rispondere, in cui si limitò a inspirare ed espirare lentamente, per calmare il caos tempestoso che aveva dentro in quel momento. Il tentativo di controllare le proprie emozioni stava fallendo miseramente. - Sì. Devo farlo. - Diede una forte stretta alla mano del ragazzo, per poi lasciarla e cominciare ad avvicinarsi all’edificio fatiscente. Si fermò davanti al cancello, allungò lentamente il braccio e con mano tremante lo spinse, osservando la ringhiera dalle punte acuminate. Quante volte, in passato, aveva tentato di scavalcarle senza riuscirci? L’unica volta che il tentativo era andato a buon fine ed era scappata, l’avevano inesorabilmente ripresa… faceva male ricordare ciò che poi era successo.
Con un suono spaventoso che fece scorrere brividi lungo la spina dorsale di Scott, il cancello si aprì. Dawn non emise fiato, ma poggiò un piede dopo l’altro, camminando nel vialetto formato da tre grandi lastre di cemento e piccoli sassolini colorati. Una di esse, quella centrale, era macchiata di una sostanza marrone.
- Che… che diavolo è quello?
Dawn portò gli occhi sulla macchia e con indifferenza rispose: - Sangue.
- S-sangue?! - Scott era alquanto sconvolto, e non solo dalla scoperta, ma anche da come Dawn gli aveva risposto. Come faceva a lasciarla completamente indifferente?
- Sì. Sangue. Il mio.
- Cosa?! - urlò Scott. La parola risuonò come uno schiocco di frusta nel silenzio tombale del luogo, tanto che il ragazzo cominciò a guardarsi attorno in modo frenetico, timoroso di aver risvegliato qualche spirito malvagio lì sopito.
- È una lunga storia, Scott. Te la racconterò, ma non ora - rispose lei riprendendo a camminare e raggiungendo il portone d’entrata chiuso. Era alto almeno mezzo metro più di lei, di legno e vetro stranamente ancora intatto. Tempo addietro, su quello stesso vetro, posto nel centro del battente, si erano trovati due grandi fiori dai larghi e lunghi petali rosa, ora quasi del tutto irriconoscibili per via dello sporco che macchiava il materiale. Dawn ci poggiò la mano destra, minuta e dalle dita affusolate, e la strofinò sulla sostanza scura, togliendola solo in parte e rivelando un altro pezzo del disegno. Sorrise, tristemente, e spinse per aprire la porta, che a sua volta cigolò come il cancello.
- Questo posto non mi piace - intervenne Scott una volta che ebbe raggiunto Dawn, già dentro l’edificio. La ragazza se ne stava in piedi, immobile, a guardare verso l’alto.
L’atrio era molto ampio, davanti a loro c’era una rampa di scale che portava al primo piano, un tappeto posto sugli scalini di legno di mogano strappato in più punti e ormai non più bello come lo era stato in passato. Sopra le teste dei due giovani pendeva un lampadario mezzo distrutto: alcune lampadine erano scoppiate in mille pezzi, ed i frammenti di vetro ora si trovavano sul pavimento di marmo bianco venato di grigio decorato da rombi neri. Ovunque c’erano mobili distrutti, i pezzi di legno sparsi in giro.
- Ma che diavolo è successo, qui?!
- Ribellione - rispose prontamente Dawn. - Sono contenta che i miei compagni di disavventure si siano ribellati a quei tiranni.
- Tu non ti sei ribellata?
La ragazza scosse la testa: - Me n’ero già andata da due anni, ero stata adottata.
- Giusto, la tua famiglia adottiva.
- Già.
- Mi dispiace.
Dawn annuì, i suoi genitori adottivi erano morti da tempo, un incidente stradale se li era portati via, ed ora lei viveva con la nonna materna, che però, data la sua anzianità, non poteva occuparsi pienamente di lei. - Coraggio - si voltò verso Scott e sorrise lievemente, - andiamo.
Ripresero a camminare, girarono per le stanze, osservando la povertà che si era presa il luogo, le miserabili condizioni in cui si era ridotto lo stabile.
Mentre salivano la rampa di scale di sinistra che portava al secondo piano, Dawn disse: - Ci credi che un tempo questo posto era pieno di ricchezze ovunque? Tutto quello che c’era qui era costoso e pregiato.
Scott spalancò la bocca, - Ma ci sono solamente… roveri.
- Sai cosa vuol dire “roveri”? - lo prese in giro lei.
- Oh, vedo che hai voglia di scherzare - Scott le pizzicò il fianco e la ragazza ridacchiò. - Come ti senti? - chiese poi.
Dawn fece un cenno con la testa, - Il tour non è ancora finito.
Dopo questo ultimo commento, il silenzio calò nuovamente, ed il luogo parve riprendere il proprio spaventoso e smorto aspetto, ora privo delle risate sincere che mai aveva avuto il piacere di sentire. Quel posto era intriso di sofferenza, pianti, cattiveria.
Ripresero il loro “tour” in silenzio ed alla fine giunsero alla loro vera destinazione: la stanza di Dawn, quella in cui lei per anni aveva dormito, sognato una vita migliore, in cui era cresciuta, in cui era diventata quello che era, e in cui aveva sviluppato le proprie paure. Era una stanza grande forse quanto una cella di prigione, però dotata di porta di ferro spessa dieci centimetri con due finestrelle, una per guardare all’interno e una per far passare il cibo.
- Oh mio Dio - commentò Scott guardandosi attorno. Le pareti erano piene di segni che indicavano la conta di Dawn dei giorni che aveva passato lì dentro. - Quanto tempo sei stata qui? - disse poi.
- Undici anni, tre mesi e quindici giorni.
Lui si voltò di scatto a guardarla. Fece per avvicinarsi a lei, ma Dawn lo fermò. - Non ho ancora finito. C’è un altro luogo che voglio vedere, in questo posto infernale - e detto questo, si voltò ed uscì. Scott rimase ancora qualche istante nella stanza, osservò il letto sfatto dal lungo e stretto materasso, le coperte bianche e piene di polvere, la mensola di legno piena di libri posta sotto la finestra dove, oltre al vetro rotto di essa, si trovavano delle sbarre incrociate di ferro battuto nero. Tra i volumi presenti sullo scaffale c’erano due peluche, uno rosa e rosso e uno verde e acquamarina. Rappresentavano rispettivamente un orsetto, che stringeva un piccolo tamburo, e un cane dotato di capelli sparati in aria. Scott prese il primo tra le mani, stringendo le labbra. Dovette trattenersi dal lanciarlo per terra e invece lo mise nella tasca destra del giubbotto, per poi voltarsi e raggiungere Dawn, che lo aspettava fuori dalla porta mezz’aperta. Lei lo guardò come a chiedergli: “Pronto?”. Lui annuì ed insieme tornarono a vagabondare per l’edificio.
Visitarono molte stanze, evitando però accuratamente le camere che erano appartenute ai compagni di disavventura di Dawn, fino a che non raggiunsero l’unica stanza che ancora non avevano visto. Era ampia, piena di tele dotate di treppiedi di legno. Alcuni di essi erano spezzati, e i rettangoli a cui erano fissati i fogli di carta erano caduti a terra. Alcuni di essi erano ancora completamente bianchi, alcuni macchiati di varie sostanze ed altri erano invece disegnati a metà. C’erano un fiore, uno sfondo blu, un albero e una casa sul cui giardino si trovavano una bambina insieme a due adulti, probabilmente i genitori, che la tenevano per mano. Tutto ciò era immensamente triste.
- Cos’è questo posto? - domandò Scott.
- Il laboratorio di arte - replicò la ragazza. - Qui passavamo circa cinque ore al giorno, a disegnare. A volte disegnavamo quello che volevamo, altre volte invece ci dicevano loro cosa fare, e noi eseguivamo. Chi non lo faceva, veniva punito.
- Con punito intendi…
- Sì, picchiato. E poi veniva chiuso per tre giorni nella sua stanza… e con un unico pasto a disposizione per settantadue ore.
Scott rimase interdetto per qualche istante, - Mi dispiace, Dawn… Erano dei mostri. Come si può trattare così un bambino?
- L’hai detto, erano mostri. Non gli importava di noi, eravamo soli, eravamo indifesi, e loro non si preoccupavano se vivevamo o morivamo... alcuni dei bambini che si trovavano qui con me sono anche spariti nel nulla. Penso siano morti.
- Ma… la polizia non ha…
Dawn lo interruppe: - Chi gestiva l’orfanotrofio era molto bravo a nascondere al mondo ciò che faceva. Solo dopo che io me ne sono andata e la ribellione si è scoperto ciò che facevano. E così è stato chiuso. - Fece una pausa, - In ogni caso, quei bambini non sono mai stati ritrovati.
Scott ci mise un po’ a rispondere, e quando parlò aveva gli occhi strabuzzati: - Allucinante.
- Comunque - intervenne di nuovo lei, - questo era il mio posto preferito. Qui lasciavo a briglia sciolta la fantasia, potevo diventare libera, come quando leggevo i libri che hai trovato nella mia stanza. Qui non ero più Dawn La Bambina Abbandonata tenuta prigioniera, diventavo un’artista - sorrise lievemente, mentre si stringeva la mano destra attorno al braccio sinistro. Sentiva le lacrime pungerle gli occhi, ed era sempre più difficile trattenerle.
- Ehi - la chiamò Scott, e lei si voltò a guardarlo. Lui la stava osservando con sguardo gentile, amorevole. Le tendeva la mano, aspettando che Dawn si buttasse tra le sue braccia. Non attendeva altro che quello. Non poteva credere che la dolce e perfetta Dawn avesse dovuto sopportare tutto quel che gli stava mostrando e raccontando. Era… imperdonabile. Come avevano mai potuto farle del male, quelle persone? Non si erano accorti di quanto lei fosse speciale?
- Scott? - lo chiamò lei.
- Sì - il ragazzo parve quasi rinsavire da un sogno.
- Sei rosa.
- Che? - replicò con grande sfoggio di intelligenza, facendola ridere.
- La tua aura è rosa.
- E… questo che vuol dire?
- Il rosa rappresenta l’amore. Sei innamorato? - Si guardarono per qualche istante, profondamente, ed alla fine lui sorrise, per poi dire:
- A quanto pare, sì.
- E lei com’è? - Dawn lo domandò con tranquillità, ma lui vide il riflesso negli occhi di lei che aveva tentato di nascondersi. La giovane voleva sapere cosa lui pensasse, era chiaro per lei era importante.
Scott sorrise, - È fantastica, davvero perfetta. E sinceramente, non so come faccia a sopportarmi.
- Magari - sorrise lei, - lei ricambia i tuoi sentimenti.
- Pensi?
Dawn rimase qualche istante in silenzio, per poi dire: - Sì, completamente.
L’espressione di Scott si addolcì ancora di più, - Vieni qui. - La ragazza gli si buttò tra le braccia, e lui la strinse forte, come se fosse valso della sua stessa vita. - Ti prometto che quei tempi non torneranno mai più. E ti prometto che non sarai mai più sola.
Dawn, il viso poggiato contro il tessuto del giubbotto marrone di Scott, sorrise. - Prometti?
- Sì. Ti fidi di me?
- Sì.
- Bene - le poggiò la mano destra sui capelli biondi e le stampò un bacio sulla fronte. Rimasero lì ancora per qualche tempo imprecisato, fino a che lei non parlò, dal nulla, scostandosi.
- Scott?
- Sì?
- Ora possiamo andare.
- Sei sicura?
- Sì. Sono sicura. E se mai gli incubi mi tormentassero ancora, possiamo sempre tornare qui e dare fuoco a questo posto.
Scott scoppiò a ridere: - Ma sentila! Ti chiamerò Dawn la Piromane, d’ora in poi! - risero, fino a quando lui non le chiese, di nuovo serio: - Sicura che sia tutto okay?
- Sì. Ho visto quello che dovevo vedere, e devo dire… sono in pace - ed era vero, ora non sentiva più il bisogno di piangere. Il passato la faceva ancora soffrire, questo era certo, ma la presenza, la figura di Scott nella sua vita, oltre a quella di B, di Zoey e della nonna, le aveva fatto capire che ormai quei tempi erano andati e non sarebbero più tornati. Anche Scott, così come i suoi altri due amici, avevano avuto un brutto passato, ma erano felici, l’avevano superato, ed ora l’aveva fatto anche lei. Prese un respiro profondo, - Sto alla grande - sorrise. - Ora, possiamo andare? Ho fame.
- Fame - replicò lui. - Sul serio pensi al cibo? Ora?
- Ehi, non mi giudicare, non mangio da ieri pomeriggio! - rise e camminò fino alla porta d’entrata.  Andiamo?
- Certamente. Tu vai, io arrivo.
- Va bene - fece un cenno del capo e scomparì.
Scott, rimasto solo, abbassò lo sguardo a terra, tirando fuori dalla tasca il peluche. Se lo rigirò tra le mani per un po’, per poi sorridere, chiudendo gli occhi. L’avrebbe tenuto con sé, l’avrebbe conservato. Dawn poteva pensare di dover superare il passato, e così era giusto, ma era il passato che lei aveva avuto a renderla così, e ciò era importante, perché l’aveva resa unica e speciale.
Alzando lo sguardo, Scott tirò su con il naso, rosso per via del freddo, e si rimise il peluche in tasca. Dopodiché si avviò, per raggiungere la ragazza che amava e che era convinto non avrebbe mai lasciato.
 
* * *
 
Dawn se ne stava in piedi immobile, le mani in tasca, a guardare il cielo. Scott la raggiunse.
- Ehi.
- Ehi, ce ne hai messo di tempo! Dov’eri finito, a Narnia?
Lui ridacchiò, - No. - Anche Scott teneva le mani in tasca, fuori faceva ancora più freddo che dentro l’orfanotrofio abbandonato.
- Va bene… vogliamo andare? Dobbiamo farci una bella camminata per raggiungere l’auto, e poi almeno un’ora di strada sperduti nel nulla, ti ricordo.
- Sei così insistente… non starmi col fiato sul collo, donna - scherzò. - La tua insalata non scappa via.
- Gne gne - gli fece il verso lei. - Hai visto? - disse poi, - è uscito il sole. - Ora, le nuvole si erano spostate nell’etere, lasciando spazio al sole, che splendeva, seppur freddo, in quella giornata di fine ottobre, e rendeva tutto più vivo e meno triste. Persino l’edificio alle loro spalle era meno spaventoso, ora che era uscito il sole.
- Già… - annuì Scott.
Passò qualche minuto di silenzio, fino a che Dawn non si voltò verso il ragazzo e disse: - Allora, questa insalata?
Scott rivolse gli occhi al cielo: - Dio mio, sei fissata. Dai, andiamo - sorrise, le mise un braccio attorno alle spalle e cominciarono ad allontanarsi. Pian piano, l’edificio abbandonato alle loro spalle cominciò a diventare sempre più piccolo, fino a scomparire, ormai parte di un passato che non sarebbe mai più tornato.
  
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